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A mezzanotte e tre (I)


A volte brancolare nel buio ci permette di illuderci. È come indossare un accappatoio bello caldo dal sapore di menzogna, un tessuto composto da fili di false speranze: Marco si è scordato, non ha rotto il binomio, tornerà da te. Togliersi quell'accappatoio vorrebbe dire restare nudi, un contatto diretto con l'amara verità dei fatti, il freddo dell'aria, gocce d'acqua gelata che mi scorrono sulla pelle.

La verità è un'arma a doppio taglio e non so se sono pronta a trovare Marco. Da un lato smanio di rivederlo, di arrivare a un chiarimento, dall'altra ho paura che mi sbatta in faccia una conferma di ghiaccio: "Non hai equivocato. Ho imparato a vivere anche senza di te".

Il timore di rimanere scoperta, senza quell'accappatoio, fa sì che l'indagine proceda a rilento e che a guidarla sia Nicola, mentre io me ne resto nelle retrovie a spiare da lontano.

Così lui suona il campanello di casa Zuccato, io porto il cappuccio dell'accappatoio sul viso, lo scosto solo quando Nicola mi dà una notizia rassicurante:

«Non c'è nessuno. Sarà meglio guardare altrove».

Altrove nel dizionario di Nicola corrisponde a mille posti, tutti i bar e i luoghi in cui Marco ama rintanarsi quando la vita domestica gli sta stretta. Se collaborassi, sarebbe facile risalire ai suoi spostamenti: conosco Marco come la prima preghiera che ti insegnano da bambina. Invece resto zitta e condanno Nicola a una caccia al tesoro senza indizi che gli suggeriscano la via.

«Yeti niente, bar in spiaggia niente, Torcia niente.» Nicola spunta i luoghi dalla Moleskine, tutte attrazioni alcoliche, visto che ai suoi occhi Marco è un poco di buono. «Altre idee?»

Sirenetta niente, liceo niente, casa mia niente, Casa Rossa niente, biblioteca niente.

«Forse al fienile» suppongo. Solo in caso di lite con suo padre. Nicola alza un sopracciglio:

«Un fienile?»

A quanto pare ci sono aspetti di me che ancora non conosce.

«Ma no, è una sciocchezza. Lascia stare!»

Marco sta fuggendo da me, non da Massimo. Non avrebbe motivo di nascondersi in un posto che conosco.

«Torniamo in macchina e telefoniamo a Yuri. Potrebbe sapere qualcosa.»

Nicola è dannatamente logico nella sua caccia al tesoro. Procede seguendo un filo rosso che potrebbe davvero portarci alla risoluzione del caso. Nell'abitacolo della Smart di quinta mano, un Arbre Magique alla menta penzolante dallo specchietto, digita un veloce messaggio. Io lascio che l'aroma di mojito mi mandi in assuefazione il cervello, tamburello il dito sul finestrino, studiando le impronte digitali e l'alone che con il respiro proietto sul vetro.

«Niente» esclama Nicola, dopo aver attaccato la linea. «Simpatica però quella mente deviata del vostro amico. Gli ho chiesto se ha visto lo zuccone e mi ha risposto: "No, cazzo vuoi?"»

Il nostro SMS deve avere interrotto un momento importante, un'uscita con la dottoranda di ingegneria o una seduta spiritica per evocare un pilastro del rock, deceduto per un'overdose di cocaina a ventisette anni.

«Come mai hai il numero di Yuri?» gli chiedo a scoppio ritardato.

«Una volta ho prestato il cellulare allo zuccone per chiamarlo. Al liceo, quando eravamo in banco insieme. Ho pensato potesse tornare utile.»

E come sempre la vita gli ha dato ragione: sei proprio un geniaccio del male, Nicola Ulivieri! Adesso però anche tu sembri a corto di idee, nessun trucco nel cappello a cilindro, non un coniglio, né una carta rivelatrice. Gratto le unghie sul sedile in tessuto rosso.

«Io lo so chi dovremmo chiamare» dico con la lingua tra i denti. Sto cercando di bloccarla, perché non voglio fare questa telefonata, mi brucia realizzare che lei saprà più di me.

«Anch'io lo so» conferma Nicola. «Chiameremo Nicholas Colombo.»

Celeste, io stavo pensando a Celeste. Ma a quanto pare Nicola tiene ancora un ultimo asso nel suo cappello da mago.

*

Nicholas Colombo è un ragazzo della nostra età, di Viacampo, uno studente dello scientifico che non ha mai fatto parte della mia compagnia, ma che sicuramente ha sentito parlare del binomio. Lo conosco di vista, piccolino e con i capelli biondo cenere, la carnagione biancastra e gli occhi a pesce palla.

Se di recente mi sono ricordata della sua esistenza, lo devo a una coincidenza: è il coinquilino di Marco e con lui condivide la stessa stanza a Bologna, in appartamento assieme a Celeste e a un altro ragazzo.

«Lo zuccone potrebbe essere a Bologna» dice Nicola e scrive l'ipotesi sulla Moleskine. «Sai se aveva esami?»

«Forse.» Ancora appostati nel parcheggio del cimitero, sbatto la testa sul sedile. «È possibile, ma comunque poca cosa, non me ne ha parlato molto.»

Da quel pomeriggio in casa sua, quando si disperava per l'esame di biologia, non abbiamo fatto più cenno all'università. Ci sono state troppe falle nel nostro percorso agonistico, troppi ostacoli che hanno minacciato di farci cadere nel mezzo della gara: Zeno, Saul, i quadri, Friburgo. Di fronte a questa vastità che ci importava di un misero esame?

«Potrebbe non averlo passato» dice Nicola. E si accorge di non avere il numero di Nicholas. «Potrebbe vergognarsi per un brutto voto e per questo ti evita.» Io e Marco non abbiamo segreti. «Pronto, Ivan, ciao.» Sta chiamando suo fratello. Una puntura di imbarazzo mi fa prudere la pelle, colpa dei pettegolezzi di Nicola. «Ma no, niente. Volevo sapere se hai il numero del fratello di Chris. Sì, Nicholas, esatto.» Momento di silenzio. «Va bene anche quello di Chris, grazie!»

Nel giro di dieci minuti, Nicola fa più telefonate di un call-center nel periodo delle promozioni. Dopo Christopher chiama Nicholas e si fa dare appuntamento nella pasticceria dove si trova.

«Pessima linea, adesso lo raggiungiamo.»

La pasticceria di riferimento per un divertente gioco della sorte si chiama Bologna, proprio come la città in cui studia Marco. Durante il viaggio mangiucchio le unghie che odorano di menta, non rido nemmeno quando Nicola attiva lo stereo e la canzoncina del Torero Camomillo esce dall'altoparlante.

«Di tanto in tanto faccio ancora il babysitter» si giustifica.

La pasticceria ci accoglie con una scritta in elegante maiuscoletto e il profumo di croissant che si diffonde fino al parcheggio antistante. Risalgo i gradini di travertino con il Torero Camomillo che riecheggia in testa, Nicola che non mi stringe la mano per darmi la forza, ma procede nella sua felpa autunnale con la Moleskine in mano e la stilografica per aggiungere un nuovo luogo d'indagine: Bologna.

Il locale offre un salone in grande stile, con una lastra in marmo bianco per pavimento, così tirata a lucido da riflettere la mia ombra, le balze della gonna blu, il luccichio dei cristalli sul soffitto. Alla mia destra, scorgo alcune sagome al bancone d'esposizione. Disegna una curva nell'angolo della cassa, viene additato dai clienti in cerca dell'ultima leccornia. Ma tra quella folla non trovo Nicholas, solo torte e bignè e praline, glasse di cioccolato bianco e rose di zucchero. Tra questi sfizi, una scritta adornata da un maestro calligrafo: "Buon compleanno".

Manca poco al compleanno di Marco e quest'anno non festeggeremo, perché lui se ne è andato.

«Eccoli!» esclama Nicola. È talmente a suo agio nei panni del detective che si catapulta al tavolo dell'indiziato. Io avanzo in punta di piedi tra i tavoli rotondi con le tovaglie rosa pastello, accolta dal tintinnio di alcuni cucchiaini sulle prime tazze di cioccolata calda.

Quando Nicholas ci vede, si alza in piedi, manda a sbattere la sedia contro la boiserie di legno bianco.

«Siamo qui!» strilla. Siamo, perché non è solo. Un ragazzo massiccio con capelli tinti di arancio si ingozza di millefoglie. «Si può sapere che volete da me?» chiede poi. «Che cosa c'era di così urgente da dover allarmare mio fratello?»

Questo tizio è bipolare. Prima gioisce alla nostra comparsa, poi si rabbuia, seduto tutto storto sulla sedia madreperlacea, una gobba ben evidente sotto la felpa azzurra.

«Chi sono?» chiede il tizio dai capelli arancio.

Nicholas dilata gli occhi a palla e mostra un sorriso sghembo, una brutta dentatura, appuntita, come se il dentista, per errore, gli avesse limato canini e incisivi in tanti triangolini.

«Lui è il fratello di un amico di mio fratello» racconta. «Lei è un'amica di Marco.»

Amica?

«Io sono Martin» si presenta il tizio dai capelli tinti. Ingurgita due bocconi di torta, poi mi indica con la forchettina sporca di pasta sfoglia:

«Aspetta, amica? Ma amica in che senso? Intendo, non starà mica tradendo la nostra Celeste con questa qui!»

La forchetta con la sfoglia mi finisce secca nei precordi, un colpo nel ventricolo e il grillo che ripete le parole: "Questa qui!". Si diverte a rigirare la posata nella piaga. Mi mordo le labbra per trattenere un gemito.

«Non sei di Viacampo» indovino. Se fosse di Viacampo saprebbe.

«Immagino sia il coinquilino di Marco» prova a indovinare Nicola. Sta cercando di raffreddare l'atmosfera, perché ora come ora, se il capo pasticciere uscisse con una stecca di fondente, spessore venti centimetri, potrei scioglierla con la mia ira.

«Certo» conferma pel di carota. «Martin, in appartamento con Marco, Nicholas e la nostra Celeste.»

Punto primo: Celeste appartiene solo a Celeste. Quindi tagliamola corta con questo nostra. Punto secondo: la smette di fissarmi come se fossi una poco di buono che frega mariti alle mogli? Punto terzo: non mi conosce. Non sa chi sono, non lo immagina lontanamente. Ma la fama del binomio non dovrebbe essere così immensa da varcare i confini dell'infinito e oltre?

Aspetta, non ti sei presentata con nome e cognome!

«Sono Nina Adami» esclamo, a voce alta, altissima, con la stizza che Madonna potrebbe metterci quando non viene riconosciuta da un fan al suo concerto. Il fan in questione, Martin, strabuzza gli occhioni nocciola e per rompere l'imbarazzo scioglie un tovagliolo piegato a cigno.

«Scusa, è che Marco non ti ha mai nominata e Martin non sa» dice Nicholas.

Davanti ai miei occhi si sta sgretolando il binomio. Marco non ha mai parlato di me al di fuori di Viacampo, è un traditore che si è rifiutato di diffondere nel mondo la nostra religione.

«Tu non hai mai sentito nominare il binomio?» chiedo tra un balbettio e soffio di rabbia trattenuto. E no, Nicola, non farmi segno di tacere. Questo Martin sta tirando troppo la corda.

«No» ammette lui. «Cioè forse al liceo, ma ora faccio scienze politiche e in matematica sono una schiappa.»

Mi aggrappo allo schienale in ferro per mantenere l'equilibrio: questo Martin è rimasto al primo significato di binomio, quello algebrico.

«Niente Yeti?» provo a insistere. «Niente Casa Rossa, "Nessuno ci dividerà mai", anime gemelle piantate alla Scalinata del Re, viaggi improvvisi a Nomi?»

Cavolo, Marco avrà almeno dovuto giustificare le sue fughe da Bologna, le litigate al telefono con Celeste. Ma a ogni mio punto interrogativo Martin aggiunge un cenno di negazione, Nicholas si ingozza di budino alla vaniglia e Nicola cerca di attirare la mia attenzione con un grande "andiamo" scritto sulla Moleskine.

«Mai sentito il nome di Nina? Neanche visto una piccola foto cartacea?»

«Mai sentita nominare» risponde Martin, convinto di aver dato la risposta definitiva. «Perché insisti tanto?»

Sprofondo in una buca di vergogna, una linea rossa che scalda il viso. E mi ricordo che chi non ha sperimentato la forza del binomio sulla propria pelle ignora quali sentimenti sappia generare. Così, in cerca di un briciolo di dignità, mi gratto la nuca, fingo un sorriso di circostanza:

«Niente» gli dico. «Sto cercando Marco. Sapete dov'è?»

«Non so» mi dice Nicholas. «Noi siamo saliti questa mattina e in appartamento non lo abbiamo visto.»

Martin conferma, mette fine al nostro interrogatorio. E subito Nicola traccia una riga sulla Moleskine, l'ennesimo buco nell'acqua. Quando saliamo in macchina, confessa di avere ufficialmente finito gli assi di idee, una tacita scusa di perdono.

«Ma no, è colpa mia» sospiro. «So benissimo a chi devo telefonare per avere una risposta. Sono stata solo troppo orgogliosa per farlo, ma adesso...»

Adesso che Marco mi ha delusa non ho più il freno della paura a impedirmi di procedere. Ora, senza quell'accappatoio caldo a proteggermi, non sento freddo, la pelle si è adattata alla temperatura, pronta a ricevere qualsiasi ventata gelida proverà a intirizzirla.

«Ma come, Nina, non te l'ha detto?» mi domanda Celeste dall'altro lato del telefono. Pessima linea, siamo dietro le rocce di Viacampo, eppure tra i gracchii della cornetta e alcune istanti di vuoto riconosco il suo stupore. «Marco è partito una settimana fa per Friburgo. Gli hanno anticipato la partenza, credevo lo sapessi!»

Il buio mi circonda, come se Marco mi avesse fatto uno scherzo. Mi ha legato una benda attorno agli occhi e mi ha abbandonata in una foresta sperduta. A nulla serve togliermi la fascia di dosso: ignoro le coordinate, non so leggere il muschio sulle piante per distinguere i punti cardinali. Ma anche se non conosco molte risposte, so benissimo quale sensazione ruggisce nel petto. È un'ira furibonda che fa prudere le nocche, battere il cuore all'impazzata. Marco mi ha fatto un torto troppo grande, talmente gigantesco che il mio corpicino non lo sa contenere e allora quest'ingiustizia trabocca dagli occhi, dai pori, dai lobi delle orecchie. Che cosa ho fatto per meritarlo? Perché non mi ha lasciato un semplice messaggio?

"Lo hai voluto tu il gioco dei bigliettini, Nina, e lui non aveva più buoni e pago penitenza da giocare."

Sì, è vero, grillo, ma poteva mandarmi una lettera, contattare Yuri e chiedergli di spiegarmi. C'erano mille ambasciatori che avrebbe potuto sfoderare per non farmi restare sola, come una cretina, sulla punta di un pontile in primo autunno.

Imperdonabile, quello che ha fatto è imperdonabile.

"Più imperdonabile di averti lasciata?"

Sì, mille volte di più. Dopo la Scalinata del Re aveva giurato di proteggermi. Io ho esitato ad abbassare le difese, ho faticato a fidarmi di lui, e proprio quando credevo di avere davanti una persona onesta mi ha sferrato il colpo del tradimento.

«Non posso credere che lo abbia fatto. Non è una cosa meschina, subdola? Io non scomparirei nel nulla prima di aver avvisato il mio peggior nemico, figurarsi Marco.»

Se vincessi la lotteria e dovessi partire per un viaggio alla Hawaii, lo direi a Valentina, a Tania, a Saul, a Nicola, persino a...

«Ivan» dice Nicola.

«Sì, lo direi persino a Ivan!» confermo io.

Nicola smette di tirare i sassi nel lago e mi fissa quasi avessi appena iniziato a parlare al contrario. Due giorni dopo la telefonata a Celeste, lezioni a Nomi saltate, passeggiata risanatrice in spiaggia.

«Diresti persino a Ivan cosa?» mi domanda.

Tra un sasso tirato per fargli fare più balzi e una pietra lanciata sulle sedie rosse nel tentativo di distruggerle, mi sono scordata che Nicola non può seguire i miei ragionamenti mentali.

«Tu hai detto Ivan!» gli ricordo.

Sicuramente mi starà accusando di avere ancora una cotta per suo fratello.

«Certo che ho detto Ivan» dice Nicola. «Ho detto Ivan perché è laggiù, non lo vedi?»

Indica un ritaglio di panorama, la passeggiata che dalla scogliera dà l'accesso al porto, le navi a vela ormeggiate in attesa della manutenzione finale, prima dell'arrivo dell'inverno. E lo vedo camminare con grazia, come se fosse Aristotele a passeggio nel cuore di Atene, attorniato da idee troppo complicate per il resto dell'umanità.

«Lo vedo.» In lontananza, ma sarebbe impossibile non scorgerne la sagoma, il profilo delicato, quel passo leggero da farlo sembrare una piuma. Salgo sul pontile e porto una mano sopra gli occhi. «C'è una ragazza con lui.»

Anche Nicola assottiglia la vista:

«Sì, è Caterina».

«Non era la ragazza con cui usciva qualche anno fa? Quella della foto nel libro di Wittgenstein?»

Quanto l'avevo odiata! Nicola mi aveva prestato il libro di suo fratello e sono sicura che avesse scordato quello scatto di proposito tra le pagine che odoravano di inchiostro e filosofia. Ora so perché l'ha fatto, per convincermi a rinunciare a lui.

«Ti ricordi ancora del libro di Wittgenstein?» mi chiede.

«Io mi ricordo di tutto!»

«Certe mie sciocchezze infantili preferirei le dimenticassi.» È in imbarazzo.

«Ma no, che dici? È stato tanto tempo fa e tu hai sempre avuto troppa paura di farti vedere umano.»

In passato l'ho paragonato a una macchina. Al ginnasio credevo non avesse sentimenti e che fosse solo Mr. Sapientino. Invece con il tempo ho scoperto che dietro quel guscio durissimo Nicola nasconde un mondo di emozioni.

«Sei come un Lindor!» esclamo, ma Nicola, bordeaux dopo un pugnetto che gli ho assestato sul braccio, mi impedisce di spiegare la similitudine:

«Stanno insieme da tanto.» Caterina e Ivan. «Lui le ha fatto vedere i sorci verdi.» Ivan Ulivieri, Cavaliere 10 e Lode che mette in difficoltà una dolce fanciulla, anziché salvarla? «Strano, vero? L'ha piantata o tradita un miliardo di volte e, quando non la piantava lui, cercava di trovare un modo per farsi lasciare da lei, sempre colpa di quel suo strano principio, per cui...»

«La felicità non è che un intervallo tra due momenti di tristezza.»

Li guardo procedere a braccetto e sembrano la coppia più spensierata dell'universo, lontana da quei giorni burrascosi che evocano le parole di Nicola. Caterina ha avuto la perseveranza di stare al suo fianco, di insistere giorno per giorno, di ascoltare i suoi deliri sulla condanna umana all'infelicità, di vederlo vivere storie di una notte, di diventare lei stessa, senza lamentarsi, la storia di una notte, per poi essere sempre più partecipe. E alla fine Ivan ha ceduto: Caterina con la sua determinazione è diventata parte di lui, l'ingranaggio mancante per mettere in funzione un orologio rotto, un altro organo del suo sistema.

«Alla fine, quando lei lo voleva mollare davvero, lui l'ha supplicata di restare» confessa Nicola.

Uno scenario paradossale: Ivan Ulivieri, il filosofo, lo scrutatore di anime che supplica una normale ragazza di amarlo. Lo guardo e so che quella donna non avrei mai potuto essere io. Non perché all'epoca oscillavo tra i quindici e i sedici anni ed ero piccola, ma perché non avrei mai saputo dargli le certezze e la dedizione di cui Caterina è capace. Né lui avrebbe saputo avvolgere me di quel senso di sicurezza di cui ho bisogno. Mi avrebbe lasciata scappare alla prima paura, o forse sarebbe scappato lui, liberando entrambi dalla prigione di dubbi e titubanze alla quale siamo per natura incatenati.

Un senso di serenità mi pervade. Quanto vorrei una storia in equilibrio! Con Marco ho sempre vissuto sul filo della tensione, sempre con il panico del "che cosa succederà dopo", l'ansia di correre a mille per non mancare un solo respiro di vita. E l'equilibrio, l'armonia, li ho persi, dietro le liti del binomio, le costanti gelosie, le ripicche, i sentimenti taciuti, i "ti amo" negati, il tutto in un mare di incertezza che mi continua ad affogare.

Quanto sarebbe bello sentirsi amati e amare senza la paura di una fine o di un colpo di scena nascosto dietro l'angolo, nella pagina appena voltata di un romanzo? Ma poi ci penso e questa sensazione di tranquillità e sicurezza di tanto in tanto l'ho provata anch'io, anche se in un nascondiglio diverso dalla tana in cui sono solita ripararmi.

«Sai, Caterina un po' ti assomiglia.»

Nicola salta sul posto quasi l'avessi sorpreso con un palloncino scoppiato nelle orecchie.

«Non metterla così, Nina. Altrimenti dovrò dirti che assomigli fin troppo a mio fratello.»

Quindi sarei una schizofrenica con la testa tra le nuvole e un vocabolario confondi-mente come nemmeno la setta dell'Accademia della Crusca?

«Che sciocco!» rido e gli assesto un buffetto sul braccio, divertita da questo gioco di somiglianze e differenze.

Nei giorni successivi, però, mentre preparo la valigia per Nomi, un pensiero mi sfiora, un ragionamento all'altezza di un filosofo come Aristotele.

a. Ivan e Caterina stanno insieme e sono felici;

b. Io assomiglio a Ivan, Nicola a Caterina;

c. Questo significa che io e Nicola, se stessimo insieme, saremmo felici?

Ma no, che grandissima sciocchezza! Si chiama sillogismo aristotelico questo ragionamento ed è una cavolata.

"Davvero, Nina?"

Ma certo, grillo, lo posso smontare con un esempio:

a. I limoni sono gialli;

b. Il sole è giallo;

c. Questo significa che il sole è un limone.

Fino a prova contraria, il sole non è un limone, quindi in quel gioco di somiglianze e differenze, non c'è nessunissimo doppio senso. E poi ci sono ulteriori prove a rinsaldare il mio punto di vista, prima fra tutte la seguente: dopo quella confessione al telefono, Nicola non ha mai tentato una avance, anzi, a più riprese ha rimarcato di essersi pentito di quella dichiarazione, anche solo due secondi dopo averla fatta. Quindi perché dovrei mettermi a fantasticare su un inesistente "noi"?

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