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V come vorrei (I)


Ottobre è stato per il binomio il mese del disgelo. Io e Marco abbiamo iniziato il processo di guarigione avvolti da accordi silenziosi e giornate tranquille. Dalla mattina alla sera seguiamo una routine che ci sta addosso come una coperta di lana cotta all'arrivo dell'inverno. È rincuorante entrare in classe sapendo di trovarlo alla finestra, sentire il suono della campanella e vederlo schierato al mio fianco, sedermi nell'aula di informatica e avere l'assoluta certezza che quei pomeriggi di lavoro saranno solamente nostri.

A partire dal ritorno al podere, lo strappo che mi divideva da Marco si è ricucito. Celeste è la vittima di questo binomio versione aggiornata. Gli attimi che passa con il suo ragazzo si sono ridotti al martedì sera, di tanto in tanto il giovedì.

«Dice che va bene così» commenta Marco, quando lo metto di fronte all'accaduto. Ma con gli occhi di una donna rompo l'illusione e svelo l'inganno. Celeste è infelice e lo sguardo perennemente abbassato è uno specchio del male che le stiamo facendo.

«Se ti va di fare qualcosa con lei questo sabato, non me la prendo» gli propongo un mercoledì pomeriggio. In tutta risposta ottengo un buffetto sul naso.

«Ti sei ubriacata con il tè, Nanà?» Annusa la tazza bollente nella perfetta imitazione di un cane antidroga.

«Effettivamente sa di vodka alla pesca» rido io. «Chissà quanti gradi fa?» Cambio discorso, con un attacco di gastrite che nello stomaco divora la coscienza, perché vorrei fare qualcosa per impedire che Celeste soffra, ma sono troppo egoista per agire.

Forse è una punizione divina, forse il karma, il giorno successivo mi ritrovo a casa con l'influenza. La voglia di uscire è pari a zero e il mal di ossa mi spinge a ignorare il cellulare che continua a squillare. Un nome compare sul display: Marco.

«Perché non sei già qui?» strilla dall'altro capo del telefono. «Ti aspettavo mezz'ora fa. Se ci metti ancora un po', il film inizierà!»

Già, il film, il vero motivo per cui dover restare incarcerata a letto brucia più di una camminata sui carboni ardenti! Dopo la festa della lumaca, finalmente il comitato organizzativo di Viacampo ha programmato un evento, cinema all'aperto – complimenti per il mese scelto: novembre –, nel parcheggio sterrato dietro la scuola, la possibilità di vedersi una maratona di Quentin Tarantino dai sedili delle proprie auto. E io che faccio? Mi ammalo. 38° di febbre, la testa che volteggia come un palloncino gonfiato a elio e la schiena che scricchiola manco avessi novant'anni.

«Sto malissimo, devo darti buca.»

«Ma che stai dicendo, Nanà?» Nella voce una punta di delusione. Sto mandando a monte i piani e da quando ci siamo riappacificati non è ancora successo. Assieme a un fiume di saliva calda deglutisco il senso di colpa.

«Ti giuro che non ti darei buca, se non fosse necessario. Sono talmente inguardabile che dovrebbe essere illegale permettermi di uscire di casa.»

«Inguardabile in che senso?» replica Marco. «Sei la solita esagerata. Com'è che la chiamate voi donne? Operazione restauro, un po' di trucco davanti allo specchio e via! Come nuova!»

Era Biagio in Prima Classico a chiamare il make-up "operazione restauro", ma non è questo il punto.

«Sembro uno zombie appena uscito dalla tomba perché ha fame di cervelli» confesso tra uno starnuto e l'altro. «E poi ho il moccolo e il naso tutto rosso. Tra quello e il colore dei miei capelli, finirei con l'essere scambiata per un pagliaccio.»

Marco inizia a protestare. Per farlo desistere dalla missione di persuasione devo tirare in ballo "mal di gola lancinante", "rischio svenimento", "quaranta di febbre", un'esagerazione che alla fine sembra convincerlo.

«Ma allora sei proprio ammalata! Nanà, ma non potevi dirlo subito che stavi male? Devi stare al caldo e bere quelle odiose tisane amarognole all'eucalipto e al rabarbaro. Per il film non fa niente.»

«Perché non ci vai tu? Perché non inviti Celeste?»

Se andasse con lei, mi sentirei meno colpevole.

«Ma sei impazzita?» sbotta Marco. «Celeste e Tarantino? Vuoi traumatizzarla sin dal primo minuto del primo film, quella poveretta? Sei proprio ammalata, Nanà.»

Riaggancia, lasciandomi totalmente esterrefatta. Non solo mi ha dato della pazza, ma ha anche osato interrompere la conversazione senza salutare. Il mal di testa preme sulle tempie e lo ringrazia per avere smesso di strillare nel microfono.

Passo la successiva mezz'ora rannicchiata nel piumino, il grande orso di peluche accanto a me, il cellulare che continua a suonare con i commenti di Valentina e Marina sull'ultima puntata di "Uomini e Donne", l'educazione che mi impedisce di rispondere che di quattro oche e del loro trofeo umano non me ne può fregare di meno.

È il campanello a salvarmi da una conversazione indesiderata.

«Marco in arrivo.» Mia madre fa capolino dalla porta. «E insiste. Che tu lo voglia o no, sta per salire.»

In lontananza sento il rumore degli scarponi picchiettare il marmo delle scale, qualche oggetto che sbatacchia sulle pareti del corridoio. Uno specchio, mi serve uno specchio! Uno specchio, una spazzola e un incantesimo da strega! Marco mi ha vista molte volte struccata e inguardabile, ma così inguardabile, no! Ho il cuore che minaccia di esplodere nel petto e l'ansia che costringe le ossa indolenzite a non lamentarsi quando mi allungo per cercare la spazzola.

«Uno zombie!» Marco grida. Si nasconde dietro il muro. «Uno zombie affamato di cervelli! Qualcuno mi salvi!»

Ride di me, mi prende in giro e, anche se è uno scherzo, punge nella carne viva. È vero, ho il sacrosanto diritto di essere brutta, ma davanti a Marco vorrei sembrare perfetta.

«Non hai un cervello. Come potrei mangiartelo?»

La testa bionda di Marco sbuca da dietro lo stipite. Sorride e mi strizza l'occhiolino. Svelta affondo il viso nel cuscino, perché non possa vedermi.

«Andiamo, Nanà, che scherzo!» Il letto traballa quando si lascia cadere accanto a me.

Preme contro il mio corpo, mi schiaccia contro la parete e l'orso di peluche, una scena che mille volte si è verificata a partire dalla forgiatura del binomio. Inizia a strofinarsi in cerca di scuse, insiste che potrei almeno togliermi il cuscino dalla faccia e fargli vedere un bel sorriso, ma non cedo alle lusinghe.

«Come vuoi tu allora, Nanà! Ti dirò anzi che mi fai un piacere a tenere gli occhi chiusi, perché ho una sorpresa per te, e per essere certi che non sbircerai, facciamo anche così.»

In men di un secondo mi sento uno di quei cesti che le commesse di un negozio all'ultima moda riempiono di vestiti durante i saldi di fine stagione. Marco prende il piumino e me lo butta sopra la testa, ci aggiunge l'orso di peluche, il suo giaccone, qualche maglietta presa a caso dall'armadio e il plico di fazzoletti puliti che tenevo sul comodino in caso di emergenza.

«Ma non dovevi andare al cinema all'aperto? Con Celeste?»

Con quest'ultimo interrogativo mi sento un buon vino bianco andato in aceto perché tenuto in una cantina troppo umida. Ma Marco non replica e mi viene il sospetto che la capanna di tessuto sopra la mia testa sia a prova di suono. Però io lo sento... il fischiettare di Wish you were here, lo sbattere di alcuni pezzi in metallo tra di loro, il tonfo di un oggetto che cade per terra.

«Spero tu non abbia rovinato il parquet, zuccone!»

«Ma che pignola ti ha reso l'influenza, Nanà? Sono sicuro che a fine lavori non ci saranno lamentele in corso.»

Il suo "fine lavori" mi allarma, il timore che stia modernizzando la mia stanza disponendo i mobili in modalità feng shui mi spinge a togliere la prima maglietta dalla montagna di vestiti che mi sovrasta. Lo sforzo è troppo e il braccio cade a peso morto lungo il fianco.

«Ho quasi fatto, sai?» mi dice Marco.

«Altrimenti rischierei di morire soffocata qui sotto!»

«Un attimo solo.»

La musica di Pulp Fiction risuona tra le pareti della stanza. Quentin Tarantino, qui nella mia cameretta, e non nel parcheggio dietro la scuola. Il che significa che Marco ha preferito rinunciare all'evento di novembre per vedere la maratona sul portatile. Con me.

«Et voilà! La magia!» ride Marco. Come un incantatore, solleva i mille teli che mi impedivano di sbirciare. Ma dal drappo dell'illusionista non escono colombe o bianchi conigli. Sotto il tessuto ci sono solo io, assieme all'orso di peluche e a tutto il mio stupore.

«Marco, ma questo è...»

«Se Nanà non va al cinema, allora il cinema va da Nanà!»

Un telo da proiezione, appiccicato sull'armadio, issato ai pomoli delle ante e a quattro pali in ferro, appoggiati ai lati della stanza. È grande l'intera parete ed è spiegazzato, ingiallito da qualche macchia causata dallo scorrere del tempo. E poi c'è il proiettore, posato sulla scrivania, tra i libri di grammatica greca e latina.

«Ma che hai fatto?» gli chiedo, incapace di tenere la bocca chiusa per la sorpresa.

«Era di mio padre» mi spiega lui. «Ed è ovvio quel che ho fatto, no? Dovevamo vederla insieme questa maratona! Spostati dai, che stai occupando anche il mio posto.»

Di nuovo mi trovo sbattuta contro il muro. Ma nonostante la ripetizione della scena, questa volta i miei occhi sono umidi. Deve essere la febbre, forse un effetto collaterale della tachipirina o forse anche gli occhi spurgano uno strano liquido, quando si è ammalati. Se Marco vede le mie lacrime le ignora, se sente il mio "grazie", non risponde. Si preoccupa invece di sistemare la mia testa contro il suo petto e resta immobile a studiare le peripezie di John Travolta e Uma Thurman, ride quando si accorge che nel telo c'è un piccolo taglio. Sembra che l'attore abbia il labbro spezzato in due.

«Brum! Brum! Brum!» grida al termine del primo film e all'inizio di Kill Bill.

«E questo cosa sarebbe?» gli chiedo.

«Una macchina, no? Siamo in un parcheggio sterrato dietro la scuola, qualche auto a un certo punto se ne dovrà pure andare! Oh, aspetta. Ora suono il clacson. Bip! Bip

«Guarda che la precedenza era sua! È inutile suonare, zuccone!»

«Nanà, ma come l'hai presa la patente? La precedenza è di chi si attacca al clacson per primo, non te l'hanno insegnato alla scuola guida?»

Inutile spiegargli la questione del "guardare chi ha la destra libera". Marco non ha ancora il foglio rosa e si è astenuto anche dal frequentare le lezioni serali di teoria.

Continuiamo a sgommare sul letto e a suonare il clacson a vicenda per una decina di minuti. Con le nostre voci copriamo i dialoghi del film. In effetti di Kill Bill vediamo le prime scene, poi l'effetto della tachipirina affievolisce, la febbre sale, le palpebre si fanno pesanti. Mi addormento sul petto di Marco con un macigno che schiaccia la coscienza e la costringe a sputare sangue. C'è ancora quel segreto e prima o poi lo dovrò confessare.  

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