Tagliategli la testa! (II)
Anatolia mi accusa di demenza. Le do una sberla sulla mano e la prego di tacere. Pagherò le conseguenze della mia scelta. Sono pronta a farlo, mentre mi alzo dal banco assieme a Marco, e mi preparo ad andare in presidenza. Nicola non mi guarda. È deluso: addio Dieci in condotta, addio Cento e Lode alla maturità.
Tutta colpa di Marco. Ho un attimo d'esitazione. Ho sempre voluto uscire con il Cento e Lode. Ho sacrificato un mio sogno per il binomio, qualcosa di importantissimo. Marco mi ha chiesto di fare questa rinuncia, mentre io a lui non ho mai chiesto di mettere da parte nulla: non la chitarra, non il basket, nemmeno Celeste.
I miei compagni mi guardano uscire dall'aula con Battisti che apre le fila.
«Oggi il preside avrà l'onore di tenere colloquio con lo storico binomio» ridacchia.
Acido e ferito per essere stato beffato da due studenti. Brutta bestia riporre fiducia nella persona sbagliata. Inizio a sentire anche io questo identico tarlo bucare il petto, mentre sfilo nel corridoio e mi trovo al fianco di Marco.
Lui tace e guarda le piastrelle del pavimento e le scale che ci permetteranno di arrivare al pianoterra. Io invece ho gli occhi su di lui, al punto che quasi inciampo nei miei stessi passi. Con il mignolo cerco di prendere il suo, di stringerlo in un contatto minimo, ma un movimento del braccio distanzia le nostre mani. Me le rimetto in tasca.
«Muoviti, Adami» mi ordina Battisti. «Ho già perso abbastanza tempo per colpa vostra.»
E se mi fossi sacrificata per niente? Lo penso per l'intera durata del colloquio con il preside. Il signor Frainz urla, dietro la scrivania in noce e le pile di moduli da compilare, ripete la solita solfa:
«Inaccettabile. Umiliante. Degradante. Quando era preside mio padre, non si è verificato nessun episodio tanto disonorevole. Parlerò personalmente con i vostri genitori e li convincerò a darvi una punizione. Non mi interessa se abbiate raggiunto la maggiore età o se la raggiungerete a breve. Questa azione è stata una mancanza di rispetto nei confronti non tanto di un professore, quanto più di una persona.»
Una bravata. È stata solo una bravata, tanto Marco la verifica non l'avrebbe comunque studiata. Tra basket, Celeste, chitarra e Massimo, non avrebbe trovato il tempo. Ma certo non posso contraddire il signor Frainz, un mastino pronto a sbranarci vivi. I suoi "inaccettabile, umiliante, degradante" sono solo la bava che precede il morso: le brutte notizie.
«Niente gita in Grecia a fine aprile, per voi due.»
Appunta sull'agendina ogni parola, alla maniera di un promemoria. Grecia. Da anni desideravo prendere un aereo e atterrare nella patria della cultura; camminare sullo stesso suolo calpestato dai filosofi, ammirare l'Acropoli, i teatri, l'Istmo di Corinto, le rovine dell'oracolo di Delfi; ballare il sirtaki; assaggiare la moussaka e il souvlaki. Un altro sogno che nell'impeto di un secondo ho preso e gettato alle mie spalle.
«E ogni pomeriggio, dalle due alle quattro, lo passerete in aula computer, fino a quando non avrete scannerizzato tutti gli annuari degli ultimi venti anni e i documenti dell'archivio.»
Quando poi il signor Frainz aggiunge che dovremmo etichettare anche tutti i libri della biblioteca, mi viene voglia di tirare un pugno sul ginocchio di Marco.
Lui tace. Non saluta il preside quando ci ordina di tornare in aula. Non dice niente, nemmeno quando accosto la porta alle spalle e riparo in caffetteria.
Ho bisogno di una bevanda calda da buttare nello stomaco. Giocarmi tutta la carriera scolastica, la faccia, la buona reputazione, per uno zuccone che non sa chiedermi scusa... Che idiozia!
Mi segue, a testa bassa. Essendo più piccola di statura, riesco a vedere un riquadro dei suoi occhi azzurri, la bocca sigillata. Non capisco se il suo mutismo sia dovuto al senso di colpa, oppure al ricordo terrorizzante del braccio di Battisti che lo trascinava sul patibolo.
Bevo il caffè bollente in un solo sorso, ustionandomi la lingua. Mi auto-impongo di tacere e spero che il dolore causato dalla bruciatura plachi l'istinto.
Marco appoggia la schiena alla parete, si mette al mio fianco.
«Era Celeste, vero?» gli chiedo. Anche se bruciacchiata e sofferente, la lingua pronuncia una domanda con un tono particolarmente acido. «Perché hai detto a Battisti che sono stata io?»
Marco biascica un "Sai...", ma non trova altre parole.
«Ho capito» sbotto. Disillusa. «L'hai fatto per difenderla. Suo padre è più pungente di un istrice, severissimo, sicuramente non le avrebbe permesso di mettere il naso fuori di casa per almeno un anno. L'avrebbe spedita in Svizzera, in un collegio femminile di suore e badesse, e tu non l'avresti più vista. Poi non so che altro si sarebbe potuto inventare, quel pazzo di Antonio Innocenti, forse...»
«Mi manchi!»
Lo grida.
La bidella passa a dare una sbirciatina. Guarda me. Guarda Marco. Se ne va. Anche Marco adesso mi fissa.
«L'ho fatto perché mi manchi, stupida intelligentona! È così difficile da capire o anche solo da immaginare?»
Diventa rosso in viso e parla come un fiume in piena, severo e scocciato per la mia testardaggine.
«Probabilmente lo è. Deve essere difficilissimo» aggiunge. «Perché lo hanno capito tutti fuorché te. E sì che te ne ho lanciati di segnali, ma tu non ne hai colto manco uno. Che altro dovevo fare? Girare nudo con la scritta "Nanà, mi manchi" sul petto?»
Parla, parla e parla e io resto circondata dalla lava che la sua bocca sprigiona. Mi avvolge, ma è fuoco magico: non brucia. Mi scalda invece il cuore: non avevo sbagliato. In classe non avevo male interpretato le parole di Marco. Non voleva proteggere Celeste. Voleva trovare un modo per riavvicinarsi a me.
Elenca i segnali che mi avrebbe lanciato: palline di carta tirate dalla prima fila; equazioni scritte alla lavagna al cambio dell'ora per ricordarmi del binomio; Rocco che a casa mia, durante le ripetizioni di greco, continuava a lanciarmi frecciatine sull'importanza dell'amicizia.
Mi viene da ridere e da piangere, perché siamo due stupidi, perché non riesco ancora a gettarmi nelle sue braccia e a dirgli che mi dispiace, perché qualcosa mi blocca.
«E questi sarebbero segnali, zuccone?» gli chiedo. Le lacrime stanno vincendo. «Tirare palline di carta, disegnare equazioni e usare Rocco come tramite? I miei erano dei Signori Segnali in confronto ai tuoi!» Lascio cadere il bicchiere vuoto a terra e passo le mani sul viso, per asciugare due scie di lacrime. «Chi credi che sia stato a mettere i Pink Floyd sull'iPod del professor Gala?»
«Yuri!»
«Yuri?» gli chiedo. Ho la voce stridula, il classico tono che precede un pianto a dirotto. «Starai scherzando, spero! Perché Yuri avrebbe dovuto farlo? I Pink Floyd sono il nostro gruppo!»
Mi volto per dargli la schiena. Non voglio che mi guardi. Sento le guance raggrinzarsi e deglutisco giganti bocconi di saliva per tranquillizzarmi. Lui ha abbassato il volume e ora usa un tono più dolce.
«Credevo fosse uno dei suoi scherzi» si giustifica. «Un modo per salutarci prima di partire per Milano e per convincermi a parlarti. Sento Yuri tutti i lunedì e tutti i mercoledì e non fa che ripetermi di darmi una svegliata.»
Quel Giuda, quel traditore di un Conte, doppiogiochista! E dannato Marco per non avere fatto il primo passo. Testardo. Testardo come è testardo il suo petto, a meno di un centimetro dalla mia schiena. Testardo perché non ha il coraggio di stabilire un contatto, ma mi lascia i miei spazi. Da quando Marco ha paura di toccarmi?
«E della sciarpa che mi dici?» gli chiedo. Non capisce. «La sciarpa rossa! L'ho lasciata cadere ai tuoi piedi solo perché tu me la riportassi. Invece l'hai calpestata e hai fatto finta di niente.»
«Sei troppo complicata, Nanà. Credevo l'avessi buttata via. Che fossi arrabbiata con me e non la volessi più.»
Nel sentire il mio soprannome non trattengo le lacrime. Le sento appoggiarsi sulle labbra, inumidirle, mentre le spalle si sollevano, scosse da piccoli singhiozzi. E Marco non mi consola. Con la coda dell'occhio vedo che ha la mano sollevata, vicina alla base del collo. Le dita tremano, hanno paura di sfiorare la maglia rossa che indosso.
«E il motorino?» continuo a chiedergli. Ma a questo punto non so se le parole siano dotate di un suono cristallino. Alle mie orecchie sembrano il vagito di un neonato affamato. «Ti ho rubato per un mese il parcheggio e non mi è arrivata manco una lamentela!»
Marco sospira, mi chiama sottovoce. Ormai l'ha capito pure lui che sto piangendo. Ho il viso nascosto nelle mani, nella speranza che i palmi soffochino i singhiozzi. Assieme alle lacrime butto fuori tutta la stanchezza e la finzione nella quale mi sono incellophanata in questo mese: non andava bene così, non con Marco distante da me, e alla fine anche lui lo capisce. Mi abbraccia da dietro, strofina il naso sui capelli e mi bacia la testa.
«Scusa, Nanà. Scusa, scusa.»
Le sue braccia mi costringono a voltarmi e mi schiacciano contro di lui. E allora Marco passa a baciarmi la fronte e la punta del naso. Non smette di scusarsi e di dire che gli spiace, e ancora mi stringe e strofina il suo viso contro il mio. Le sue labbra scendono e mi trovo a trattenere il respiro, perché stanno per uccidere quel millimetro che le divide dalle mie. Finché la bidella non torna a controllarci e spazientita getta il mocio nel secchio con il detersivo e l'acqua calda.
«Adesso però basta. È ora di tornare in classe!»
E a noi non resta che ubbidire.
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Eccoci,
sì, aggiornamento lampo, lo so. Non sentitevi costretti a starmi dietro, ma ho deciso di provare a pubblicare due volte in settimana, visto che la storia è già scritta.
In questi due, tre giorni, ho riletto "Binomio". Non lo avevo mai fatto prima in versione integrale, solo a "compartimenti stagni". Nonostante i suoi mille difetti, è stato piacevole rivivere alcuni episodi che mi ero scordata di avere scritto, in certe parti mi è venuto perfino il magone. Chiaramente mi sono demolita su alcuni passaggi imbarazzanti, ho rimproverato Nina e Marco un'infinità di volte – devono combinare ancora tantissimi guai – e ho quasi paura a dirlo, ma all'ultimo capitolo mi sono sentita anche un pochino soddisfatta, fosse solo per avere chiuso, tra alti e bassi, una storia così lunga.
Sì, non vi interessa, lo so. Considerazioni finali: per il mio gusto personale, il secondo volume è il più debole e quello che forse piacerà di meno, ma lo pubblicherò comunque, perché è necessario per il terzo che, stilisticamente, è quello che preferisco.
Mi sta anche nascendo l'idea, – palesemente rubata a una mia lettrice – di stampare a fine lavoro una copia di "Binomio" solo per me, perché mi piacerebbe tenerla per ricordo, quindi se vedete dei refusi (perché ci sono di sicuro), non fatevi problemi a segnalare. Avrete tutta la mia gratitudine.
E ora la domanda... Da uno a dieci quanto vorreste uccidere Nina per essersi giocata la carriera nel nome del binomio? XD
Grazie mille per essere qui.
A giovedì!
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