Tagliategli la testa! (I)
Per gli adolescenti il tempo dovrebbe scorrere in fretta, e io rientro ancora per qualche mese nella categoria dei teenager. Ma senza Marco i minuti non volano e le lancette dei secondi si muovono a rallentatore, vanno all'incontrario, in senso opposto. Pesanti come lo è lo scorrere dei giorni, ora dopo ora, lezione dopo lezione, verifica dopo verifica.
In banco con Anatolia rimpiango i tempi passati al fianco di Marco: le partite a battaglia navale e a tris; le conversazioni scritte sul quaderno degli appunti; i progetti per i pomeriggi trascorsi insieme; i buffetti fatti per dispetto. Ma per lo meno Anatolia non approfitta della mia vicinanza per farmi rimproverare dagli insegnanti.
A Marco è andata peggio. In banco con Nicola. In prima fila. È finito nel mirino di tutti i professori che elogiano lo studente modello – alias Nicola –, a discapito dello studente peggiore – alias Marco –. Io e lui non ci siamo più rivolti la parola. Stefano continua a sostenere che bisogna aspettare e avere pazienza. Tanta, tanta, tanta pazienza. Talmente tanta che passa un mese e arriva ottobre. Il compleanno di Marco è alle porte.
Quando penso che non festeggerò con lui i suoi diciotto anni, sento in me l'impeto di correre a casa sua, fregandomene di Celeste.
"Senti un po'!" vorrei dirgli. "Non ne hai abbastanza di questa pagliacciata? Ti giuro che non ce la faccio più! Non li sai leggere, i segnali? Ne ho lasciati a bizzeffe in questo mese. Di proposito ho rubato il tuo parcheggio preferito per il motorino, e non a caso ho chiesto alla Lorenzi se potessi diventare tutor di latino e greco. Ma tu non ti sei candidato come allievo, e ora mi trovo Rocco in giro per casa con il suo orrendo maglioncino giallo fluo. Ho manomesso l'iPod del professor Gala e cancellato le canzoni di Whitney Huston per sostituirle con i Pink Floyd. E ho persino finto di perdere la mia sciarpa preferita – quella rossa, quella che mi hai regalato tu! –. L'ho buttata sui gradini fuori dal liceo, giusto un minuto prima del tuo arrivo. E ancora non mi hai considerata. Ora dimmi, che altro dovrei fare?"
Quando ripenso a tutte le marachelle che ho combinato, pur di essere segnalata dal radar della sua attenzione, mi vergogno di me stessa.
«E fai bene!» mi ripete Yuri. Ci sentiamo tutti i martedì e i giovedì in Skype, ora che lo hanno ammesso ad architettura, a Milano. «Non ti viene il sospetto che lo zuccone non sia in grado di notarli questi tuoi mistici segnali?»
Perfino una talpa con le cataratte li noterebbe. Mi sto rendendo lo zimbello della classe, e tutti se ne accorgono... tutti fuorché lui. Da parte sua ci sono solo silenzio e impassibilità, nemmeno uno sguardo che riconosca la mia esistenza.
«Nin,» mi prega Yuri, «Perché non ci parli chiaramente? Ti costa tanto dirgli che ti manca?»
Non farò il primo passo. Deve essere lui a correre da me. È vero. Ho notevolmente contribuito ad allargare il baratro che si è creato tra di noi, ma in passato, se fossi scomparsa nel nulla, Marco avrebbe spianato monti e prosciugato oceani pur di trovarmi.
«Marco Zuccato è Marco Zuccato» insiste Yuri. «Stefano ti ha trovata rubando una dichiarazione dei redditi. Il pivello nemmeno sa cosa sia una dichiarazione dei redditi!»
Sì, però...
«Però niente, Nina» mi anticipa Yuri. "Ha fatto tutto quel che era possibile per trovarti. Te lo giuro. Era disperato. Ho dovuto imbottirlo di valeriana, per togliermelo dai piedi e metterlo k.o.»
Sarà anche venuto da te, Yuri, però...
«Però niente!» ripete lui. «Mi ha chiesto di aiutarlo a trovarti e gli ho detto che non l'avrei fatto. Stefano gli ha detto lo stesso. Ti rendi conto che ha chiesto aiuto persino a Nicola Ulivieri? Tutti gli hanno voltato le spalle, Nin, e nonostante le tue mille ragioni, la prima a lasciarlo sei stata tu.»
Differente è l'opinione di Anatolia che, complice il banco in comune, si prodiga in mille consigli.
«Lui non ti merita, Nina. Sarà pure mio cugino, ma so benissimo quanto vale. Non un tuo mignolo... ricorda! Concentrati sulla fisica. Sono sicura che per colpa di Battisti non verremo ammessi alla maturità.»
Su una cosa Anatolia non ha torto: la fisica. Forza d'attrito, forza elastica, forza di gravità. Fisica. Una parola che racchiude in sé tutto il male. Battisti si crogiola in questo oceano di dolore e sofferenza e appena uno studente arriva a sfiorare la sufficienza, subito dà un colpo con la sua frusta da Satana e lo fa precipitare nel voto che una classe intera condivide: quattro.
«Dopodomani ci sarà la verifica» mi dice Anatolia. È talmente agitata che inizia a staccarsi le doppie punte. «Dico io, le materie di indirizzo sono latino e greco. Una volta che evitiamo l'insufficienza nelle lingue morte... Perché distruggerci con quella in fisica?»
«Lascia stare, Anatolia, e aiutami a capire questa cosa» la supplico, porgendole il foglio.
Battisti entrerà in classe tra dieci minuti, a ricreazione terminata, e con un ghigno alla Pinguino di Batman ci aggiungerà venti nuovi argomenti prima del compito. «Perché cavolo ci ha affibbiato un esercizio sulla macchina a vapore? E che c'entra la moka del caffè?»
Anatolia mi risponde sbattendo la testa sul banco. Ciocche rosso fiamma coprono il quaderno degli appunti e sarei veloce a togliere via quella cascata di capelli, se il professore non fosse apparso sulla soglia.
In anticipo di dieci minuti.
Ma non è questo piccolo dettaglio temporale a sconvolgermi. Battisti trascina una vittima nel centro dell'aula. La vittima in questione è Marco, e il suo viso è bianco come le pagine dei compiti di Anatolia.
Veloce tiro una gomitata alla mia compagna perché si metta composta. Una nube di terrore aleggia sopra i pochi studenti in aula. Guardo Marco sul patibolo, in attesa che la sua testa venga incastonata sull'asse di legno, prima che la ghigliottina lo decapiti. Battisti è un perfetto boia, sadico, crudele nel protrarre il silenzio e nel regalare occhiate severe a ogni allievo.
«In classe. Tutti. Adesso.»
Marco deglutisce e serra le palpebre. Nel vederlo lì, piccolo e spaurito, sento un groppo alla gola e vorrei alzarmi in piedi e chiedere scusa per quel che ha fatto... Anche se non so di cosa si tratti!
«Tutti in classe ho detto! Innocenti! Nisi! Veloci!»
Stefano e Celeste, sulla porta, muovono piccoli passi e si siedono ai loro posti. Lui ha in mano un mozzicone non completamente spento e cerca di nasconderlo nel palmo, senza bruciarsi. Ma con maggior stupore, è Celeste a essere in ansia. La brava, diligente, responsabile Celeste.
Marco cerca di attirare la sua attenzione. Un piccolo "psss" esce dalle labbra. Lo sento io, lo sente Battisti, deve sentirlo anche Celeste, ma non osa alzare il mento e rimane seduta al banco, pallidissima, con due gocce di lacrime incastrate nelle ciglia.
«Che sta succedendo?» mi chiede Anatolia.
La testa fiammeggiante si muove da Marco a Celeste, nel tentativo di rubare quel segreto a noi sconosciuto. Brucia essere esclusa dal loro mondo; brucia ancor di più dover restare ferma e immobile. È fuoco vivo su carne viva: non poter correre da Marco, abbracciarlo, dirgli che qualsiasi casino abbia combinato, tutto si risolverà, perché ci sarò io a difenderlo. D'istinto alzo la mano, per rompere quel silenzio che ci soffoca, ma Anatolia blocca il movimento.
«Ve lo ricordate che cosa abbiamo dopodomani, pendagli da forca?» chiede il professore.
La sua voce sembra far tremare il pavimento da quanto è potente, spaccare i neon dei lampadari e sgretolarli in mille frammenti di vetro per l'ira che sprigiona. È come se una scheggia cadesse dal lucernario e tagliasse la pelle: realizzazione. So benissimo cosa ci sarà dopodomani, e so benissimo che cosa ha fatto Marco.
«Che cosa abbiamo dopodomani?» chiede di nuovo Battisti.
«Il compito» risponde Nicola.
È l'unico in classe a trovare il coraggio di fronteggiare il professore. Risponde con un filo di voce, ma senza tremare o abbassare gli occhi per paura di venire incenerito vivo. E intanto mi ripeto che non è possibile, non scollo lo sguardo dal viso di Marco.
E mi sorprendo, perché anche i suoi occhi sono su di me e non si staccano. Per la prima volta negli ultimi mesi, mi guarda e mi vede. Bastano un'occhiata e un sì con il capo – "Sì, Nanà, hai capito bene. L'ho fatto davvero" – un sorriso spezzato – "Sì, sono un idiota, lo so. Mi metto sempre nei casini, soprattutto quando non ci sei tu" – e mi sento leggera, una ballerina di danza classica che si alza sulle punte e piroetta su una gamba, così leggiadra che potrebbe prendere il volo e sfiorare le stelle.
Battisti intanto continua l'interrogatorio:
«E ditemi, lo sapete che preparo sempre il compito una settimana prima, vero?»
Non c'è margine di errore. Non ho mal interpretato il sorriso sbilenco di Marco.
«E per la precisione dove lo tengo in attesa di rifilarlo a voi capre?»
In aula professori. Nell'armadietto. Non c'è anima viva a non saperlo in tutto l'edificio. Ma non c'è nemmeno anima tanto stupida da provare a... Non riesco nemmeno a pensarlo.
«Dov'è che lo tengo?» sento Battisti gridare.
E poi il silenzio totale, rotto dalla voce di Nicola:
«In aula professori».
Dritto con la schiena, senza paura di dire le cose come stanno. Al contrario sembra avere fretta, nonché tutte le intenzioni di chiudere quella farsa di interrogatorio e tornare alla lezione di fisica. Ma a Battisti piace questo Inferno. Si crogiola di fronte ai raggi della nostra sofferenza.
«Bene, Ulivieri» ghigna. «E se tu fossi me e proprio oggi ti ritrovassi uno scemotto biondo a frugare tra le tue cose, che idea ti faresti?»
Nicola darà la risposta giusta alla domanda, perché un Ulivieri non sbaglia mai. «Penserei che lo scemotto biondo intendesse rubare il tema.»
Battisti tira le labbra in una smorfia storta.
«Penseresti bene, Ulivieri.» Lievi sussurri si alzano dal fondo della classe. Sono tutti un "davvero?" "Ma è impazzito?" "No, io non ci credo!" "Che stupido". Battisti non si cura di zittirli, ma sembra apprezzare lo stupore del pubblico messo dinnanzi alla recita che ha inscenato.
«E ti assicuro, Ulivieri, che la mia non è una supposizione, ma una certezza. Non la passerai liscia, Zuccato. E non me ne frega di chi tu sia figlio, ti insegnerò che cosa sono l'educazione e il rispetto, e lo farò con le cattive, visto che con le buone non funziona.»
Se fossi al posto di Marco, potrei svenire. Ma io non sono al posto di Marco. Eppure, il petto fa male. Guardo Battisti aprire il registro e segnare una nota disciplinare, fischiettando il motivetto "La donna è mobile". Quando arriva alla strofa che dovrebbe recitare "È sempre misero, chi a lei s'affida", si sente bussare alla porta. Il professore, scocciato per la performance interrotta, bofonchia un "Chi è?". Nessuna risposta e allora chiude il registro, lasciando la Bic tra i fogli, alla maniera di un segnalibro.
«Chi è?»
Marcia verso la porta a grandi falcate e la spalanca, per trovarsi faccia a faccia con una minuta ma battagliera Pezzimi.
«Perdona l'interruzione, collega» dice la nostra insegnante di italiano con finto dispiacere. Lo supera a piccoli passi, curva nella gobba della schiena, e si lascia cadere sulla sedia alla cattedra. Apre il registro e legge la nota disciplinare che la penna blu ha appena sputato sul foglio di carta.
«L'annotazione è incompleta» recita con fare di superiorità. «Non ha agito da solo.» Di nuovo la classe sobbalza. «Stavo aggiornando il registro e oltre la voce di Zuccato ho riconosciuto un timbro di ragazza.»
Un sorrisetto soddisfatto si fa strada sul viso e si confonde tra le rughe che le solcano le guance. Il volto di Battisti invece è una catena di emozioni che si susseguono, tanti anelli, intrecciati tra loro, che rappresentano lo stupore, il fastidio, la beffa, l'ira.
«Chiunque abbia complottato con lui farà meglio a confessare» esclama. «O tutta la classe salterà la gita e prenderà sei in condotta.»
Crede che ogni studente sia al corrente dei fatti. Ci guardiamo tutti, occhi negli occhi, sospetto in cambio di sospetto, sdegno per sdegno. Odiamo questa misteriosa persona, perché rischia di farci finire nei guai. Niente gita ad aprile, sei in condotta all'anno della maturità. Dalle bocche di venti studenti non proviene nessuna denuncia. Mi guardano e mi verrebbe da dire che il filo tra me e Marco è stato reciso.
«Nessuno parla?» domanda Battisti. «Allora lo chiedo a te, Zuccato. Chi altro c'era in sala professori? Non che io non abbia già una mia idea, un sospetto.»
Battisti mi guarda, ma non ho nulla da nascondere. Ero qui, in banco con Anatolia, tutta presa dai compiti e dalle moke del caffè, eppure, nessuna giuria mi proclamerebbe innocente.
«Lei non c'entra.» Nicola. «Era in classe. Glielo posso assicurare.»
Un coraggio ammirevole. Lo stesso coraggio che io non ho. Le mie corde vocali non emettono suono, per ringraziarlo, per perorare la mia causa.
«Non ho chiesto a te, Ulivieri!» lo rimprovera Battisti. «E a meno che tu non voglia un altro quattro, farai meglio a stare in silenzio.»
Di fronte alla minaccia di un'insufficienza, Nicola tace. Ha il viso scuro di rabbia e la mascella irrigidita dai denti, stretti.
«Allora, Zuccato» riprende a dire il professore. «Girano voci che il binomio si sia spezzato. Me lo puoi confermare?»
Marco sussulta. Io trattengo il respiro. Sento gli occhi inumidirsi. Le labbra si schiudono, provano a chiamare Marco, ma appena la lingua articola la prima sillaba, lui scatta in piedi, sbatte i palmi sul tavolo, su quello stesso libro di fisica che è fonte di mali e disgrazie.
«Nessuno spezza il binomio, professore!» Lo grida forte. Al punto che la voce diventa un'eco. Rimbomba nella testa. "Nessuno spezza il binomio. Nessuno spezza il binomio. Nessuno spezza il binomio." «Nessuno lo può fare! Ed è ora che tutti lo capiscano!»
Io per prima.
Smetto di respirare. Quante notti passate insonni nella speranza di sentire il cellulare squillare, o di vedere Marco alla mia finestra? Quanti minuti trascorsi nel desiderio di sentire queste parole? Parole così belle e così volute che non mi sembrano vere, forse le ho solo immaginate.
"Nessuno spezza il binomio."
Ma in quanti ci hanno provato? Noi due per primi, Marco. E come fai a dire di voler ancora essere un'unità a due cifre con me, quando non sappiamo far altro che ferirci? Però c'è anche il bene. Ed è proprio quel bene che ora prevale in me.
«E quindi, visto che siete una squadra, complottate ancora insieme?» indaga Battisti.
Mi blocco. Dalla risposta di Marco dipende la mia carriera scolastica, il voto d'uscita, l'ingresso in una facoltà universitaria. Mi tiene in pugno e può fare di me quel che vuole, salvarmi, oppure trascinarmi con lui nella rovina.
Marco mi guarda con lampi che sanno di nostalgia e rimpianti. Forse mi chiede "perdono", forse sta pensando "vendetta".
«Non sbaglia» dice a Battisti, ma i suoi occhi sono ancora incollati nei miei. «Noi complotteremo sempre insieme.»
Una promessa mascherata, comprensibile solo a me, poche parole per dirmi che non ci sarà mai fine a quel che siamo, una frase per rassicurarmi: supereremo ogni ostacolo; nonostante la distanza, nonostante le incomprensioni, i silenzi, i piccoli torti sfiziosi, non ci sarà mai un traguardo a recitare la scritta "Binomio al capolinea".
Dovrei odiarlo, per il guaio in cui mi sta cacciando, detestarlo perché mi ha sacrificata, mi ha accusata di una colpa che non ho commesso. Invece il mio cuore brucia di uno strano sentimento che per un mese ho cercato di assopire e spegnere, senza ottenere il minimo risultato. È davvero stupido essere felici, quando ci si trova nelle peste fino al collo.
La Pezzimi lo pensa. Non sembra convinta della mia partecipazione al furto. Mi squadra come una vecchia civetta, con gli occhi ridotti a due mezzelune.
«Nina, sei davvero stata tu?» mi chiede.
Marco mi guarda, in attesa di una risposta. Nicola mi fissa e sembra pregarmi di dire la verità, ma da un mio sì o no non dipende solo la questione del furto; è molto più alta la posta in gioco: il binomio. C'è un sottile gioco di parole in codice, nascosto dietro i fili della conversazione principale.
Marco mi ha lanciato la palla, nella speranza che gliela rilanci. E so che non dovrei confessare un crimine che non ho commesso, ma non posso tirarmi indietro. Prendo un grande respiro e appena la camera dei polmoni si riempie d'aria, so che è la cosa giusta da dire:
«Sì.Ero io».
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