Smithers, libera i cani (III)
Nonostante le divergenze d'opinioni, ho sempre ritenuto Massimo un buon padre, pacato e comprensivo. Terribile errore d'ingenuità! Quando ci adocchia ai piedi della collina, alza il tono e inizia a strillare, il viso paonazzo, i muscoli del collo tirati, le corde vocali tese per lo sforzo. Marco si ripara dietro la mia spalla, mentre fiumi di insulti ci travolgono.
«A che pensi, Marco? Possibile che non puoi crescere per una buona volta? Pensi che il tuo futuro sia uno scherzo? Che passerai medicina, se non ti metti a studiare seriamente? Forse Nina non ha grandi ambizioni, se non fare la scalmanata, ma non ti permetterò di buttare il tuo avvenire nel cesso!»
«Papà, aspetta, lascia stare Nan-»
«Nanà qui, Nanà là! Sono due giorni che provo a chiamarti! Due giorni! E ti rifiuti di tornare a casa e di rispondere al telefono. Trecento euro ogni anno per farti avere l'ultimo modello e mi ripaghi così? Sali in macchina, non voglio più sentire storie.»
Massimo schiaccia il pulsante sulla chiave e le portiere dell'Audi si aprono con un bit. Le mani di Marco si stringono al nastro nero del mio vestito, in un attimo di indecisione. Alla fine, cede ed entra nell'abitacolo dell'auto, sul sedile posteriore.
L'istinto mi porta alla portiera, ma Massimo mi blocca per la spalla e mi getta malamente contro la staccionata, due schegge di legno infilate nei palmi.
«Tu hai già fatto abbastanza» mi accusa con l'indice puntato. «Adesso resti qui.»
Ancorata a un palo della recinzione, guardo l'Audi sfrecciare per la strada sterrata e alzare nubi di polvere e terriccio secco. Marco, in ginocchio sul sedile posteriore, mi fissa dal lunotto, batte i pugni sul vetro, mima con le labbra una frase che conosco a memoria:
«Non ti preoccupare.»
Ma come faccio a restare calma, quando passano centoventi minuti senza sue notizie? Sono le due di pomeriggio e il sole sta ustionando le spalle. Ho la testa che scotta, scie di sudore che colano sulla pelle, si infilano sotto il vestito color aragosta. Marco mi ha detto di non preoccuparmi e vuol dire che tornerà, ma in che modo, se Floyd è parcheggiato davanti al fienile, al fianco di Pink?
Seduta sulla staccionata sotto il sole cocente, non stacco gli occhi dalla semicurva dietro la quale l'Audi è scomparsa. Nella mezz'ora successiva non arriva una nuvola, non arriva la pioggia, non arriva Marco.
Quando la vista si scurisce e gli alberi diventano cerchi e masse di colori confusi, un filo di vento mi soccorre. Allora chiudo le palpebre e respiro la brezza a pieni polmoni, ossigeno che restituisce un briciolo di forza al corpo.
Poi un rumore in lontananza, lo scoppiettare di un motore, un colpo di clacson, un collassare di gomme nelle conche della via. Un trattore, forse. Al cozzare di sassolini sulla carrozzeria si mischia il soffio di una voce.
«Nanà!»
Stupida immaginazione che mi porta a sentire quel che vorrei. Perché Marco dovrebbe essere su un trattore? È solo quel filo di vento che sbuffa tra le fronde degli alberi e fa scricchiolare i rami secchi delle piante.
Infatti non ci sei.
Ho riaperto le palpebre e nessuna zucca bionda supera la curva. Finché un nuovo colpo di clacson giunge dallo stradone e il bagliore di fari accesi e spenti si unisce al chiarore del sole. Un'Ape verde muschio buca il campo visivo. In piedi, sul cassone, avvinghiato al tettuccio della cabina, un ragazzo biondo sventola la mano nell'azzurro del cielo.
«Nanà!»
L'Ape rallenta e Marco salta in strada. Scatto verso di lui, le suole che scivolano sui sassi tondi, staccati dal sentiero, nubi di terriccio che si sollevano e sporcano il vestito già macchiato d'erba. Ma non importa. Ho l'intero corpo ustionato dal sole, gli occhi che pizzicano, i capelli sciolti aderenti al viso. Mi tuffo nelle sue braccia, la cassa toracica che tonfa per l'impatto.
«Ho avuto paura che non tornassi più da me» gli dico.
La voce trema, un sussurro ovattato, perché ho il viso incastrato nell'incavo del collo, la bocca che preme sulla clavicola.
«Come hai potuto pensarlo?» mi chiede.
L'Ape lo saluta con una strombazzata di clacson. La guida un vecchietto con un cappello da pescatore e il viso abbronzato, solcato da rughe. Fa ciao con la mano, quindi riprende a guidare oltre il fienile.
«Stavo per impazzire!» sussurro. Con un grande respiro impongo alle gambe di smetterla di tremare, al cuore di rallentare il battito: va tutto bene. «Non mi scrivevi o chiamavi e temevo che tuo padre ti avesse...»
«Mi ha cacciato.»
Resto a bocca spalancata, la lingua bloccata sul finire della frase. Marco scioglie le braccia e si sistema il borsone in spalla. In genere è infarcito degli indumenti per l'allenamento di basket, ora straripa di vari capi, un mix per ogni stagione: calzino di lana, pantaloncini corti, costume da bagno, uno spazzolino con le setole storte, un flaconcino di dentifricio mezzo vuoto.
«Come può averti cacciato? Sei suo figlio.»
Marco alza una spalla e senza aspettarmi marcia verso Floyd. L'entusiasmo di rivederlo ha sfalsato la visione. Gli occhi lo hanno immaginato correre da me con un sorriso a trentadue denti e braccia larghe per accogliermi, ma Marco non sorride, ha le guance bagnate.
«Gli hai detto di Bologna. Io non capisco. Anche lui non voleva fare medicina e si è ribellato a suo padre ed è stata un'imposizione, quindi perché...»
«È grato a mio nonno per averlo costretto» mi spiega. Lancia il borsone da allenamento sulla pedana di Floyd. La vespa, nonostante il cavalletto, si sbilancia e cade appoggiata ai mattoni grigi del fienile. «All'inizio non voleva, ma poi, quando ha iniziato a lavorare sul campo, ha capito che non poteva fare scelta migliore.»
«Ma scusa e tua madre?»
«Se ne lava le mani.»
Mi lascio scivolare tra le piante di camomilla. Forse io e Marco abbiamo sbagliato tutto, forse un giorno mi odierà per averlo portato a rinunciare, forse spetta a me adattarmi. Se parlassi con mio padre...
«Nanà?» Marco si è inginocchiato al mio fianco, il pollice appoggiato sotto il mento. Convince la testa a girarsi di settanta gradi, a fissarlo negli occhi. «Non cambia niente, Nanà. Non tornerò indietro questa volta. Devo solo dargli il tempo di capirmi e tutto si risolverà per il meglio.»
Allarga il sorriso, lo costringe a mangiargli mezzo viso. E vorrebbe che lo imitassi, che esplodessi dalla gioia, ma il terrore si sta diffondendo in ogni organo del corpo, a macchia, a partire dal cervello.
«Vieni a stare da me » gli dico.
«È meglio di no. Nel caso non te ne fossi accorta tuo padre mi odia!»
Sussulto sul posto, mi affretto a dire che no, non è vero, se l'è messo in testa lui, ma subito Marco mi zittisce con un bacio.
«Tuo padre» riprende a dire. «Ci spia dalla finestra a vetri mentre studiamo, interviene ogni mezz'ora per ricordarmi che è tardi e dovrei levare il disturbo, mi tira i calci sotto il tavolo quando pranziamo insieme e ti sfioro, e giurerei che una volta abbia perfino rigato Floyd con la chiave, solo perché ci ha sentiti sbottare.»
Mio padre non farebbe mai una bassezza simile! Ma poi mi ricordo dell'antico odio tra i nostri genitori, di quell'amicizia che con la lontananza e il tempo si è inacidita e trasformata in panna rancida.
«Possiamo stare qui al fienile, insieme» propongo. «Ci abbiamo passato più di una notte e...»
«No, il fienile è di mio padre» taglia corto Marco. «Sa benissimo che mi rifugio qui, quando ho un problema. Sarà già andato da uno dei suoi stagisti e, strofinando meschinamente le mani, avrà esclamato: "Smithers, libera i cani!". Mi sorprende di non essere stato ancora sbranato vivo!»
D'istinto mi stringo a lui.
«Troveremo un modo, Nanà.» Marco si mette alla ricerca di una soluzione, anche se appena propone il nome di un salvatore, subito lo cancella. «Yuri è disperso e non ci può aiutare, Biagio ha già abbastanza problemi, Anatolia mi taglierebbe i gioielli di famiglia nel sonno, pur di sostenere la causa femminista, Celeste e Stefano sono fuori dai giochi...»
«Lo so io chi ci può aiutare!»
Balzo sul posto, lo sconforto allontanato dalla speranza. È colpa mia se Marco soffre, ma almeno so come aiutarlo. In questa guerra di schieramenti, resta un solo possibile alleato. E Dio solo sa in quali guai mi sono cacciata l'ultima volta che ho trafficato con lui.
*
«Allora, Adami, le prossime dieci volte in cui litigo con Valentina, ti schieri nettamente dalla mia parte e la insulti, dicendole che è un montone testardo, isterico e con il ciclo perenne. E se non la smette di fare quei grugniti colmi di odio, la scambieranno per un trans e resterà zitella a vita. Carlo ha messo divieto assoluto sulla sua macchina. Quindi mi presterai la tua per i prossimi quattro weekend e me la farai trovare lucida, carica di benzina e con un Arbre Magique alla menta appeso sullo specchietto. Niente vaniglia o fragola. Mi danno la nausea. In più ho altri due buoni "sfruttamento" da usare a mio piacimento, in qualsiasi momento della mia vita.»
Giacomo mi fissa, una chiave inglese tra le dita e un panno sporco di grasso gettato sulla spalla. Siamo nel garage e la saracinesca è abbassata a metà per proteggerci da sguardi indiscreti. Una vecchia lampadina rischiara a malapena il centro della stanza, condannando gli angoli del locale alla penombra.
Nonostante le mie visite a Valentina siano giornaliere, sono passati quattro anni da quando ho messo piede nel garage di casa Santoni.
Le tue condizioni fanno schifo, razza di delinquente. Attaccati al parafango del tram, mollalo in curva e vatti a schiantare in un dirupo! Ma Marco sta già studiando il garage e ha appoggiato il borsone da basket sulla brandina sfatta.
«Accetto» sospiro.
Ora che Marco non ha più bancomat, contanti e carta di credito, è il minimo che possa fare. Perché sì, non solo Massimo si è premurato di sbattere il suo unico figlio fuori di casa in attesa di un "mistico chiarimento di idee". Ha fatto anche attenzione a tagliare tutti i fondi, per "accelerare il processo di rinsavimento". E agli occhi di uno che non ha un soldo bucato, questo squallido garage sembra la reggia di un re.
Giacomo appunta l'accordo sul retro di un modulo per la constatazione amichevole. Mi passa la Bic in attesa di una firma.
«È un piacere tornare a essere complici in affari, Adami» canticchia, quando gli restituisco il foglio.
Attraversa la stanza in diagonale, tagliando il cerchio di luce proiettato dalla lampadina sul soffitto. Il bagliore rende i capelli tinti di platino bianco dentifricio, fa luccicare i tre piercing che gli forano la tempia.
«Allora» recita, quando raggiunge Marco e il borsone. «Il mio confortevole garage sarà la tua nobile dimora, zuccone!»
Ci gode un sacco nel fiutare aria di tragedia. In più il garage non è sinonimo di confortevole, tanto meno di "nobile". Puzza di benzina e gas, rappresenta un caos cosmico di attrezzi sparpagliati in ogni millimetro del pavimento.
«È provvisorio» dico più a me stessa che a Giacomo. Come posso lasciare Marco in questa catapecchia sporca e antigienica? «Tra un mese e mezzo andremo a Nomi e allora potremmo stare in una casa vera.»
«Sì, certo!» ci interrompe Giacomo.
Ha aperto una porticina vicino all'attaccapanni e rivelato l'esistenza di un bagnetto: le piastrelle bianche, sporche di sabbia di lago; la tazza del wc alzata e con due goccioline dorate sul bordo; una doccia con le pareti macchiate dal calcare.
«Sono sicuro che a Nomi ve la spasserete come conigli in calore» ride, mentre chiude la porta del bagno. «Valentina può sempre reggervi la candela, durante le vostre cenette romantiche. Se le mettete un centesimo in bocca, va anche in modalità disc-jockey. Purtroppo, gracchia solo tormentoni anni '80 stile Endless Love.»
Alza il sellino del Fifty di Carlo, quel motorino che continua a noleggiare agli adolescenti per intascare una quarantina di euro a weekend. Riviste porno. Le lancia a Marco dicendo che, durante la mia assenza, dovrà fare da sé.
«Come ha fatto a capirlo?» mi chiede Marco. «Di noi? Come ha fatto a capirlo?»
Non è pronto al lancio e i giornaletti cadono a terra.
«Io non ho aperto bocca» sospiro, prima che mi accusi. «Però avrei dovuto informarti. Sotto quella zucca biondo platino e i piercing che gli bucano la materia grigia, nasconde un sensore rileva sesso. Se qualcuno si è dato alla pazza gioia nelle ultime settimane, lui lo percepisce.»
Giacomo se la ride come un indemoniato:
«Antenna riceve segnale, passo. Antenna riceve segnale, passo! Numero di scopate negli ultimi due giorni in arrivo, passo!»
Trattiene una risata in gola. Il collo, gonfio d'aria, deforma un tatuaggio nuovo di zecca, un dragone cinese che risale dalla spalla fino al mento. Incrocio le braccia al petto in forma di protesta:
«Certo che Valentina un fratello più idiota non poteva ritrovarselo.»
La risata sprofonda nei polmoni, il collo si sgonfia e il dragone cinese sotto il mento assottiglia i giri di spire e squame. In compenso gli occhi grigio perla preannunciano un omicidio.
«Purtroppo per lei si ritrova anche una pessima migliore amica» mi accusa.
Se fossi un veliero, Giacomo sarebbe un colpo di cannone andato a segno. E ora sprofonderei tra le acque gelide del nord, colliderei sul fondale, trasformandomi in una nave relitto. Sono davvero una pessima migliore amica, io che mi vanto di Valentina e al tempo stesso la escludo dalla mia vita.
«Vieni ad aiutarmi con le lenzuola» mi ordina Giacomo. «Le prendiamo dalla stanza dei miei.»
Scusa campata in aria per parlami a quattr'occhi, senza che Marco si intrometta. Mi arpiona per il polso e trascina verso la saracinesca, Marco che nel frattempo svuota la borsa da basket, appaia i calzini con l'orlo sfilacciato e li sistema in un baule vintage. Ancora imprigionata da Giacomo, risalgo i gradini di pietra che portano in salotto.
«Non le hai detto niente, Adami.»
A Valentina. Di me e di Marco. Lo so. Bruciavo dalla voglia di correre da lei e confessarle che aveva ragione. Per cinque anni e con toni poco galanti profetizzava una grande storia d'amore, nascosta dietro l'invenzione del binomio. E mai che le abbia dato ascolto.
«Marco mi ha chiesto di aspettare.»
Lo sguardo di Giacomo si distende, le spalle si abbassano di stupore.
«Nina, gli uomini sono semplici.» Mi prega di seguirlo alla ricerca delle lenzuola. «Se vogliono una cosa, se la prendono. Se vogliono una donna, se la scopano. Se vogliono ufficializzare, ufficializzano.» Sale in piedi sul fondo del letto matrimoniale e allunga le braccia per recuperare un lenzuolo singolo, sul ripiano più alto dell'armadio. «E allora perché Marco non lo sta facendo?»
Lancia il lenzuolo sulla mia testa, la piega si disfa, gli angoli si stendono e i miei occhi non vedono che l'azzurro della stoffa, il profumo dell'ammorbidente nelle narici. Pugno dopo pugno, mi libero del lenzuolo e trovo Giacomo a una spanna di distanza, gli occhi inchiodati nei miei.
«Certo» sorride per sdrammatizzare. «Possiamo sempre colpevolizzare il suo lato gay represso, però...»
«Giacomo!»
Lo punisco, colpendolo con il lembo del lenzuolo. Lui risponde al conflitto, tirandomi in faccia la federa del cuscino. È soffice, eppure le guance, arrossate e ustionate da un pomeriggio di sole e crepacuore, pulsano in una scarica di fitte. E intanto, Giacomo continua a lanciare dubbi.
«Penso che tu sia troppo felice, Nina.» Mi dà le spalle ora, mi costringe a fissare le punte dei capelli ingellati, le linee del pettine che si distinguono tra le ciocche. «Così felice da non vedere le avversità.»
Si gira verso di me, per saettare un'ultima spietata verità, terribilmente a disagio, terribilmente in colpa, le labbra tirate in una smorfia di dispiacere:
«Epenso che questa volta ti farai male sul serio».
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro