Smithers, libera i cani (II)
Nei giorni successivi fingiamo di essere il binomio di sempre. Nessuno sospetterebbe che dietro quello scudo di gesso nascondiamo l'inizio di una storia d'amore. Alla festa della lumaca, incrociamo Nicola, in compagnia di Ivan e del resto della combriccola. Donatello e Tiziano cercano di rifilargli una sigaretta, ma lui storce il naso, fiuta una via di fuga. Proprio quando sgattaiola dietro un cestino, Anatolia lo intrappola e assedia, prendendolo sottobraccio.
«Tua cugina sembra avere una cotta stratosferica per un certo Ulivieri» faccio notare a Marco, mentre sorseggiamo una birra.
«Purtroppo il buon gusto in famiglia Zuccato è andato tutto a me» ride lui.
Strofina il naso sulla mia guancia e la inumidisce con la punta della lingua. Provocante e ipocrita, lui che dice di voler tenere il segreto e mi seduce in pubblico.
«Fa' poco il furbo» lo rimprovero. «Altrimenti la mia manina scenderà qui e scosterà quanto basta la cintola dei pantaloni e poi l'elastico dei boxer e poi andrà giù e quando sarà arrivata da questa bella chiocciolina, le ci vorrà un niente per farla uscire retta retta dal guscio.»
«Nanà, ma ti pare, in pubblico?»
Improvvisamente rosso e non più così provocante, Marco blocca il polso. Siamo seduti su una panca in legno, circondati dal fumo della carne grigliata e dalla gente che spintona per trovare un buco dove mettersi a mangiare.
Nicola incrocia il mio sguardo e sussulta nella maglietta grigia. Ignora Anatolia che indica le bancarelle con il gioco dei tappi. Forse ha visto oltre la maschera da attori, forse la nostra commedia non è di alto livello. Il taglio degli occhi si appuntisce, severo. Spalle rigide, accetta di accompagnare Anatolia verso la bancarella dei tappi.
«Sono davvero cambiate moltissime cose in un anno, non trovi?» chiedo a Marco. Lui gioca a fare le bolle nel bicchiere, con la schiuma della birra.
«Solo una di importante» sorride, quando stacca la bocca dal bordo di plastica.
Molte di più, in realtà. Nicola ha superato la demofobia, tu hai lasciato Celeste, io ho iniziato e finito una storia con Stefano. Ma non faccio in tempo a elencare le novità che il cellulare di Marco suona. Dà una veloce occhiata al Samsung, prima di rificcarselo nella tasca dei jeans.
«Che due palle» bofonchia.
«Chi è?»
La domanda resta senza risposta. Chiunque sia, sono bastati quel bip e una frase a soffiare via l'aria da festa e sostituirla con un'atmosfera da funerale. Marco abbandona il bicchiere sul tavolo di legno, metà birra che naviga sul fondo. Sembra non gli vada più a genio, pura fantascienza per uno che berrebbe Forst e Heineken al posto del caffellatte della colazione.
«Tra due settimane c'è la Corsa Matta» mi dice, cambiando il discorso e fingendo un sorriso. «E da quel che so Yuri ha messo in conto di andarci.»
C'è una nuova maschera sul suo volto, ma questa volta anch'io, come il resto di Viacampo, ignoro quali sentimenti nasconda. Mi lascio guidare verso l'inizio di un nuovo argomento, senza cancellare il messaggio dalla memoria, un post-it giallo appiccicato ai ricordi.
«Sì, lo ha stabilito durante il tuo orale» gli rispondo. «Però sono tre giorni che non si fa sentire e non so se tornerà da Milano in tempo.»
«Conoscendolo starà facendo di meglio che correre» ride Marco. «E forse anche noi dovremmo seguire l'esempio del grande Yuri Conte! È o non è il maestro indiscusso?»
Mentre sgommiamo su Pink e Floyd verso il fienile, immagino Yuri nei panni di Pai Mei, il maestro di Kill Bill 2. Sul viso pallido aggiungo folte sopracciglia bianche da gufo, una barba lunga e appuntita e uno chignon da samurai. È Marco a spegnere le risate, quando mi spinge sul nostro giaciglio di fieno e libera la pancia dal vestito color aragosta.
«Non torniamo a casa nemmeno stasera» mi prega.
Quanto è facile convincermi! Gli basta leccare l'ombelico e farsi strada con la lingua tra le gambe, perché un brivido annienti le difese. Quando le dita di Marco arpionano la schiena, inarco il bacino per permettergli di slacciare il reggiseno.
«Non c'era qualcuno che si offriva di risvegliare una certa chiocciola quaggiù?» scherza.
Accompagna gentilmente la mia mano alla cintura dei pantaloni e poi sotto, all'elastico dei boxer, finché imito ogni parola promessa quand'eravamo alla festa.
«Non è per niente timida questa chiocciola!» rido, mentre mi stringe i glutei e li massaggia. «Ci ha messo un attimo a uscire retta retta dal suo guscio!»
Marco si stende sopra di me, gioca a pizzicare i fianchi e i seni, ad allargare le gambe e accarezzare l'interno coscia. Ma non è ancora il momento e la ragione mi costringe a trattenermi, a non ascoltare il richiamo, quel desiderio di lui che fa scalpitare il cuore e bollire il sangue nelle vene.
«Scrivo a mio padre che sono da Vale.»
«Adesso, Nanà? Devi scrivere proprio adesso? Perché non prima o dopo, ma proprio durante?»
Gattono fino al bordo di quel letto improvvisato e scrivo il messaggio, sbagliando le lettere, ignorando la punteggiatura, omettendo un ciao. Sono ancora a carponi, quando Marco mi intrappola per i fianchi e mi sbatte di nuovo sul giaciglio di fieno, le pagliuzze che si alzano nel chiuso della stanza e cadono ad adagiarsi sui nostri corpi sudati. E io lo tengo attirato a me, intrappolato ora per le scapole, ora per le anche, senza rompere la catena di baci che ci lega per una notte intera.
La mattina successiva ci alziamo di buonora. Sdraiati su una coperta a scacchi, prendiamo il sole sul pendio della collina. I papaveri sono appassiti e le corolle cadono tra l'erba umida di rugiada, petali mossi dal vento come carte gettate da un'auto in corsa.
Corsa...
«La Corsa Matta!» esclamo. Ho di nuovo addosso il vestito di ieri sera, spiegazzato nella gonna a campana. «Sarà meglio iniziare a decidere cosa indossare per la Corsa Matta!»
La Corsa Matta è una delle folli iniziative di Viacampo. Finanziata dal Club di Vela, ricorda ai turisti che Dio ha generato gli abitanti di questa cittadina con qualche rotella fuori posto. Lo scopo della gara è semplice. Si corre travestiti nei modi più impensabili, da Pippi Calzelunghe, Spongebob, Gallina Marta e Lupo Alberto.
Buttati sulla coperta e circondati da farfalle bianche e cavallette, io e Marco stiliamo una lista di possibili costumi.
«A essere sincera ho promesso a Yuri che avrebbe scelto lui come vestirmi» confesso.
Se penso a come potrebbe conciarmi Yuri, piango di paura: suora scostumata, pornostar, infermiera con autoreggenti e divisa 1cmx1cm, battona con tacchi a spillo e calze a rete.
«Non ti devi preoccupare, Nanà!» ride Marco. Apre il cestino da picnic che ci portiamo dietro da una settimana. «Yuri è missing, ricercato, wanted, desaparecido. Fidati di me, se ne starà con una delle sue conigliette a spassarsela. E poi perché sei stata così pazza da lasciargli scegliere il costume?»
Archivio la questione con un "niente, niente" e scopro che sul fondo del cestino è rimasto solo un biscotto. Io e Marco, stomaci vuoti, lo puntiamo come avvoltoi. Alla fine facciamo a metà.
«Robin Hood e Lady Marian» dice Marco. «Ho sempre voluto avere un arco e tirare con le frecce. Saremo di classe, non ridicoli e soprattutto coordinati.»
Devo ammettere che mi ci sono sempre vista a nascondermi nella Foresta di Sherwood, inseguendo le guardie del re e truffando il Principe Giovanni.
«A patto che io faccia Robin Hood e tu Lady Marian» accetto.
Marco smette di raccogliere le briciole dalla coperta. Si strangola con un pezzettino di biscotto grande una formica e tira un colpo di tosse.
«Nanà, stai scherzando? Io il vestito e il velo non me li metto!»
«Se non li vuoi mettere tu, perché dovrei mettermeli io?»
Marco boccheggia balbettii di protesta: «Ma perché tu sei una donna, è naturale no?»
Naturale, orrenda parola entrata a far parte del suo vocabolario per colpa di Massimo. Straluno gli occhi al cielo, determinata ad allungare il gioco e a non cedere. Mi rifiuto di essere Lady Marian, la damigella che si fa salvare dal prode cavaliere. Ci facciamo i dispetti per mezz'ora, ruzzolando dal pendio della collina in una finta lotta. Scappo, quando Marco minaccia di riprendere lo scontro di pernacchie, ma gli basta un attimo per riacciuffarmi.
«Come fai a fare Robin Hood, Nanà, se Lady Marian corre più veloce di te?»
«E tu come fai a essere Robin Hood, se non sai scagliare nemmeno una freccia?»
Mi ha intrappolata a terra. Ho le mani sulla stessa linea della testa, chiuse a pugno. Marco le blocca per i polsi, sdraiato sopra di me, una spanna tra i nostri petti.
«Nanà! Solo perché a ginnastica non colpivo mai il bersaglio, non vuol dire che non sappia tirare con l'arco!»
«Oh sì, invece! Altro che Robin Hood, tutt'al più potresti fare il Principe Giovanni che si ciuccia il pollicione!»
«E tu allora sei prepotente e molesta come Lady Cocca!»
«Stai dicendo che sono grassa, stupido zuccone?»
«Effettivamente un po' di ciccia sui fianchi la ved-»
Bip, bip, bip. Il cellulare suona, spaventa una rana che si nascondeva tra le felci per assistere al battibecco. È una telefonata, ma Marco non risponde. Saltato in piedi, guarda il display e mi dà le spalle, crea uno scudo per escludermi. E intanto il grillo parlante mi dice di preoccuparmi.
«Chi è?» gli chiedo.
Marco sibila un "merda", quando il cellulare riprende a suonare.
«Niente» sorride. «Ho messo silenzioso, così nessuno ci disturberà più. Andiamo a fare due passi?»
Ignoro i campanelli d'allarme e cammino al suo fianco fino a mezzogiorno. Raccolgo mazzolini di margherite e lego i gambi in una ghirlanda, la allaccio al collo di Marco. E lui dovrebbe ribattere che è da femmina e si rifiuta di vestirsi da Lady Marian! Invece procede con il viso abbassato e il cellulare ficcato in tasca. Anche se è silenzioso, il display si illumina ad alternanza di cinque minuti. Ogni tre passi, Marco sbircia nella cartella dei messaggi, credendo di passare inosservato.
«Torniamo al fienile, Nanà? É quasi mezzogiorno e ho una fame da lupi. O le tue fantastiche doti di arciere ci procurano una lepre da mangiare, o ci toccherà andare al supermercato, come tutti i comuni mortali!»
Tenta la battuta, ma la voce è tirata.
«D'accordo, torniamo al fienile, però solo se mi porti in braccio!»
Se sarò divertente, Marco mi renderà partecipe, tornerà felice.
«In groppa per tutta quella strada? Sei proprio malvagia, Nanà! Con questi chiletti che hai messo su di recente, penso proprio...»
Ma quali chiletti? Braccia attorno al collo, gli monto sulla schiena. Lui mi afferra per le cosce. È caldo e il sentiero è in salita, ma finché le sue mani saranno su di me, Marco non guarderà il cellulare, la fonte della nostra infelicità.
«Pesi, Nanà, ma quanto pesi?»
Corre per i sentieri fangosi del sottobosco, oltre le radici degli alberi che creano ostacoli naturali sulla nostra strada. E poi di nuovo alla staccionata, verso il fienile. Forse è stanco, ma almeno ride, quando gli faccio le pernacchie sulla nuca. Finché le sue mani non allentano la presa e mi lasciano cadere. Parcheggiata davanti al fienile c'è un'Audi. E davanti a quell'Audi c'è Massimo.
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