Prego di cosa? (I)
L'aspetto fantastico dei fuochi d'artificio è il rumore, lo schioppo che svuota la testa da ogni pensiero. Seduta con Marco sul sellino di Floyd in riva al lago, amo il botto. Zittisce la voce di mio zio, annienta l'imbarazzo quando ripenso al "sei bellissima" pronunciato da Marco.
«Grazie» gli dico, ma un nuovo tonfo copre la voce. Amo il botto perché mi rende libera di dire quello che penso. «Per essere venuto e per avermi portata via.»
Marco deve percepire un ronzio confuso. Mi sorride e fa sì sì con la testa. Non si accorge che il cellulare è illuminato. Chiamata in entrata: Celeste. E anche io ignoro il Nokia, un messaggio da Stefano.
«Grazie per esserci, Marco, per avermi detto che sono speciale, per amarmi sempre e comunque; e grazie per non avermi permesso di dirti che ti amo perché avrei di sicuro rovinato tutto e ora non saresti più qui, con me.»
Un secondo di silenzio, mentre il petardo viene caricato nel cannone, pronto a essere scagliato nel cielo. L'intera Viacampo si trova schiacciata sulla spiaggia, bicchieri fumanti di vin brûlé, profumo di cannella e noce moscata, nasi puntati nel cuore del cielo.
«Hai detto qualcosa?» mi chiede Marco.
Un rapido no per non distruggere il nostro castello di sabbia, un grazie ai fuochi d'artificio, talmente sincronizzati da non lasciar arrivare alle sue orecchie un solo bisbiglio dei miei segreti.
«Comunque prego, Nanà.»
Il cuore batte un colpo nel petto. E non per l'ultimo botto che segna la fine dei fuochi d'artificio, o per gli applausi da stadio in cui si stanno cimentando i cittadini di Viacampo. Vuoi che abbia sentito tutto?
«Prego di cosa?» lo chiedo per tutto il tragitto di ritorno, meta casa Zuccato, ma Marco non risponde, fischietta con la faccia da volpe, fiero di avermi colta con il gatto nel sacco.
«Devi sapere che sono ubriaca marcia» mento, mentre sistema Floyd nel piazzale di casa sua.
«Ma no che non sei ubriaca, Nanà!» ride lui, le chiavi nella toppa fanno scattare la serratura del portone d'ingresso.
«Certo che lo sono! Lo saprò io se sono ubriaca oppure no!» Ho bevuto una bottiglia di vino per non ascoltare mio zio, ma sono perfettamente sobria.
«Se dici che sei ubriaca, vuol dire che sei lucida» continua a ridere Marco. Il Woolrich sull'attaccapanni, accanto al mio cappotto rosso. Il caldo che proviene dai termosifoni scioglie le dita ghiacciate, le fa scricchiolare.
«Allora sei tu quello ubriaco!»
«Io? E perché mai dovrei essere ubriaco, scusa?» Sgrana gli occhioni azzurri, mentre finisce di srotolare la sciarpa e la butta sull'appendiabiti.
«Mi hai detto prego!» insisto. «Perché mi hai detto prego?»
Marco borbotta che "non importa". Le sue mani mi guidano in cucina, mi tengono per le spalle.
«È tutto apparecchiato» mi lascio sfuggire, appena varco la porta salotto-cucina. Riconosco la tovaglia bianca che Rita sfoggia per le feste natalizie, i calici dello spumante, i piatti del servizio buono, le posate disposte secondo il Galateo, le candele accese attorno a un centrotavola di vischio e agrifoglio.
Certo, tutto questo non è per me. I piatti sono sporchi, i calici mezzi vuoti, le candele ridotte a mozziconi di cera. E poi mi tornano in mente i messaggi di Celeste.
«Stavi cenando con Celeste, prima di venire al ristorante» gli dico. Lui si affretta a sparecchiare, carica la lavastoviglie. «Ti ho rovinato la serata, vero?»
Non so che nome dare a questo sentimento. Se sia orgoglio, per essere riuscita a festeggiare il Capodanno con lui, oppure colpa, per avere mandato a monte i piani di Celeste.
«Pensi troppo, Nanà.» Mi allunga un piattino da dolce. Una grande fetta di tiramisù naviga in un mare di crema al mascarpone. «Celeste se ne è andata presto, alle undici. Non hai rovinato niente.»
Alle undici. Non è rimasta per il dessert, lo stesso che adesso sto assaggiando io, cucchiaino in bocca, crema che manda in estasi le papille gustative.
«Suo padre le ha messo il coprifuoco anche all'ultimo dell'anno?» gli chiedo tra un boccone e l'altro. Il caffè si mescola al sangue nelle vene. «Se non ricordo male, il coprifuoco di Celeste l'anno scorso era a mezzanotte e allora perché...»
«Non stavo benissimo e le ho chiesto di vederci domani.» Marco mi interrompe. Siamo seduti sul divano, una coperta sulle ginocchia, i piattini con il tiramisù in bilico tra i nostri corpi.
«Non stavi bene?» gli chiedo. «E perché non me l'hai detto? Ti ho trascinato in spiaggia a vedere i fuochi, non era necessario, potevamo tornare a casa...»
Ho la mano sulla sua fronte per misurare la febbre e Marco mi fissa come se avessi iniziato a parlare in farfallese, il cucchiaino tra le labbra alla maniera di un termometro, il piatto con il trancio di tiramisù vicino al pavimento.
«Ma che sciocca che sei!» ride. Mi strattona, movimento improvviso che condanna il tiramisù a sfracellarsi sul tappeto di Rita. Finisco intrappolata contro di lui, stritolata nella morsa del gomito. «Guarda che sto benissimo, Nanà! Solo che non potevo dire a Celeste di andarsene, perché dovevo venire a salvare te!»
Scivolo da sotto la presa a tenaglia, ma resto stesa sopra di lui. Ora anche il mio piattino di tiramisù è caduto a terra, un lieve strato di crema e cacao spalmato sul tappeto.
«Hai ragione» gli concedo. «Non sarebbe stato cortese.»
«Comunque puoi stare tranquilla.» La presa a tenaglia è scesa dal collo e ora mi intrappola i fianchi. «Con tutti quei fuochi d'artificio non sentivo niente.»
Interrompo la lotta con la coperta, inizio un conflitto a fuoco con le unghie. Le mordicchio, mentre la bile emette le classiche bollicine del terrore.
«Non hai sentito? Non hai sentito davvero niente?»
«Ma certo che no, Nanà!»
E allora perché non mi chiede di ripetere quel che gli avevo detto? Marco mi guarda dall'alto della sua superiorità, come se le parole da me pronunciate fossero state troppo sciocche e infantili per meritare una replica.
«È solo che avevi un'espressione così seria e allora ho pensato mi avessi detto qualcosa di carino. Tutto qui» confessa Marco.
Già, tutto qui.
«Lo sai?» gli dico. In televisione danno Wile E. Coyote e forse lui non mi sta ascoltando. «A volte credo di non avere sufficienti motivi per essere felice. Non sono poi così intelligente, né troppo simpatica, né delle più belle. E spesso mi deprimo con niente e mi sembra di andare in mille pezzi.»
Nel frattempo, il Coyote si è schiantato in una voragine della Monument Valley, lasciando l'impronta del corpo nel terreno, Beep Beep sfuggito alle sue grinfie. Se spingo la testa in alto, intravedo una certa confusione sul viso di Marco.
«Che stai dicendo, Nanà? Sei la persona più intelligente che abbia mai conosciuto e poi...»
Si interrompe con la voce che trema. Ho l'orecchio sul suo petto. Mi sento un medico, con tanto di stetoscopio per studiare il battito cardiaco. E il suo cuore batte veloce, un ritmo pazzo per cui dovrei immediatamente fornire la diagnosi e costringerlo al ricovero. Ma questo battito così impacciato vince tutte le bugie del mondo.
«Forse è vero, Nanà, forse rischi spesso di andare in mille pezzi, ma è solo perché vuoi sempre che tutto vada nel modo giusto e ti preoccupi. Ti preoccupi sempre troppo!» Si ferma, la suspense del mio respiro, bloccato come il suo. «Puoi permetterti di andare in mille pezzi, perché comunque vada ci sarò sempre io a raccoglierti.»
Improvvisamente appare chiaro il motivo per cui sono felice di essere me stessa. Ascolto il ticchettio dell'orologio da parete, il battito del cuore di Marco, la stessa velocità di pulsazione del mio. Stretta nel suo abbraccio e nella morsa della coperta mi ripeto che è improvvisamente tutto chiaro.
«È perché ho te» gli dico. «L'unico motivo per cui sono felice di essere me stessa, non un'altra, è perché ho te.»
I suoi muscoli si irrigidiscono, ma resta in silenzio, come se non conoscesse una giusta battuta con cui replicare.
«A volte ho paura» gli confesso. «A volte mi trovo a pensare che potresti essere molto di più, se non avessi il mio peso addosso, se ti lasciassi libero.»
Lui con la sua energia, i mille progetti per il futuro, gli aiuti di suo padre, il corso di chitarra, il talento dell'atleta potrebbe essere il Sahara stesso in confronto a me.
«E io che dovrei dire, Nanà?»
Mi scosta di dosso e si ritira in camera. Non so se sia per quell'identico senso di imbarazzo che brucia le mie guance. Ho il viso che scotta quasi avessi la febbre a quaranta, il respiro incastrato in gola e lo stupido cuore che vuole scappare dalla gabbia toracica.
Quando Marco torna, tiene un piccolo pacco regalo davanti a sé.
«Prendi» mi dice. Si lascia cadere al mio fianco, rivendica il suo posto, mi solleva quasi fossi un peso piuma.
«Il mio regalo di Natale?» gli chiedo. La carta, verde, mi ricorda quel filo d'erba che Marco ha paragonato ai miei occhi, durante la nostra escursione al podere di Ivan. «Non dovrei aprirlo. Il mio sta ancora ad aspettarti sotto l'albero.»
«Ma no, dai! Aprilo subito!»
«Li abbiamo sempre aperti insieme i regali! Perché cambiare?»
«Perché lo dico io, perché quest'anno sì» insiste. È proprio uno zuccone. «E perché voglio che lo indossi subito.»
Indossi subito. Non si sarà mica permesso di regalarmi un perizoma, spero! Ci manca solo un biglietto in cui mi inciti a sfoggiare un tanga per uno dei miei incontri con Stefano! Ma poi guardo la scatoletta verde. È rigida, quasi il contenitore di bachelite dovesse proteggere un tesoro.
«Dai, Nanà, che ti costa? Domani mattina passiamo da te a prendere il mio regalo, va bene così?»
Non gli serve sfoggiare una grande capacità di persuasione per convincermi. Sembra che perfino lo smalto sulle unghie tremi, vinto dalla curiosità di spacchettare la scatoletta. Mi fiondo sul fiocco dorato, riccioli con curve più ampie del regalo stesso.
«Certo se la commessa lo faceva ancora più complicato!»
«A che ti servono le unghie, se non sai aprire manco una confezione?»
«Per quello esistono le forbici, non te l'ha insegnato tuo padre?»
«Vuoi le forbici, Nanà?»
«Sì certo, ora che ho quasi fatto e... wow!» Il commento sfugge alle labbra, tre lettere che esprimono il sentimento nella sua purezza. Mentre il sorriso di Marco si allarga fino alle code degli occhi, mi sforzo di cercare altre parole. «Io... è... è bellissimo!»
Guardo l'oggetto appoggiato sul cuscinetto della scatola. È un fermacapelli grande una spanna, in metallo anticato. Sulla cima dello spillone si schiudono le ali di una farfalla, una costellazione di pietruzze verdi in un gioco di rami d'oro.
«Ti piace?» mi chiede Marco.
Mi piace. Mi affretto a dirlo e a ripeterlo, con le mani che hanno paura anche solo a sfiorarlo. È il regalo più femminile che Marco mi abbia fatto in cinque anni di binomio, è un regalo da donna.
«Lo sapevo che ti sarebbe piaciuto!» ride lui. «L'ho comprato al mercatino di Bolzano, dieci giorni fa, quando sono andato con Celeste. Appena l'ho visto ho pensato a te. Doveva essere assolutamente mio, cioè tuo, cioè hai capito...»
«Del binomio» concludo per lui. «Doveva essere assolutamente del binomio.»
Da due ore è appena iniziato un anno nuovo. E nulla mi è mai sembrato tanto chiaro.
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