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Papaveri e fieno (I)


Secondo Charles Dickens i momenti memorabili sono quelli che ci cambiano. Mentre riabbottono la camicetta a fiori, mi accorgo di avere appena vissuto uno di quegli attimi. L'ho atteso per cinque anni e al tempo stesso l'ho temuto da sempre. È stato un azzardo spegnere la ragione e seguire il cuore, e accorgermene mi spaventa. Marco si è mischiato al corpo e all'anima, ci siamo uniti nei pensieri, nelle voglie, nei desideri. Un binomio perfetto, totale.

Marco si sta infilando i jeans e sento ancora il tocco delle sue mani sul corpo, quei polpastrelli che mi hanno marchiata con il fuoco, imprimendo un sigillo che mi dichiara sua.

Sei sua, diceva Ivan un pomeriggio di un mese fa, al lago. Se in quell'istante non lo ero, ora non posso più negare. Il nome di Marco è inciso sulla pelle, un segno invisibile, eppure una cicatrice enorme, penetrante al punto da mischiarsi al midollo.

Un marchio potrebbe sembrare una condanna alla libertà. Io invece amo ogni linea immaginaria di quel sigillo. Amo il ricordo del nostro amore, le labbra di Marco sulle mie, le mani che mi hanno fatta sbocciare in un bellissimo albero di ciliegio. Amo il pensiero che non sarà una fine, ma un nuovo inizio. Amo l'idea che il binomio non morirà, ma si muterà in qualcosa di inedito. Amo credere che fino a questo istante io e Marco siamo stati una larva. Solo ora che ci siamo scoperti completamente, una bellissima farfalla prenderà il volo.

Ho ancora il cuore che batte a mille, mentre mi ricompongo. Il grillo parlante mi impone di cancellare questo momento, di tornare a formare il binomio di sempre. Si dice che la vita di una farfalla si riduca a un solo giorno. È più sicuro restare una crisalide, imprigionati nella muta. Ma ora che abbiamo spiccato il volo, ora che le ali ci hanno spinti nelle volte più alte del cielo, non possiamo accontentarci di tornare a terra.

Non posso fingere, tapparmi le orecchie e convincermi di non aver sentito quel "ti amo", rimangiarmi l'identica confessione liberata dalle mie labbra. Guardo Marco cercare la maglietta tra le lenzuola spiegazzate dall'odore dei nostri corpi. Ha gli occhi stropicciati, una piega che la federa del cuscino gli ha lasciato sulla guancia.

È stato bellissimo, è stato perfetto.

Se la bocca non libera le parole, è perché desidero sentirle, non pronunciarle. Marco però tace, mi studia con la coda dell'occhio. E io mi sento una stupida da quanto sorrido. Ho le labbra tirate da orecchio a orecchio e il viso che potrebbe sbriciolarsi in mille pezzi per la gioia.

«È stato...»

Il discorso di Marco resta sospeso a metà. La chiave gira nella serratura, un dito schiaccia il pulsante play della segreteria telefonica. Hai un nuovo messaggio da ascoltare. E il nastro dell'apparecchio elettronico sputa la confessione di Celeste:

Marco, sono Celeste. Avevi il cellulare spento e ho pensato di telefonarti qui. Mi dispiace, mi dispiace tantissimo. Ho fatto un errore grandissimo oggi. Non le pensavo le cose che ti ho detto. Ti voglio, ti voglio ancora. Ti amo.

Qualcuno è in casa, qualcuno ha ascoltato il messaggio, qualcuno ha condannato me e Marco a riaffrontare quel fantasma. E ora?

«Marco, sono tornata!» Il tintinnio del mazzo di chiavi, la porta d'ingresso che si chiude con un tonfo. «Ho visto la bici di Nina in cortile.» E l'anta che sbatte, l'armadio dove Rita deposita la borsetta. «Nina, ci sei anche tu? Siete in casa?»

«Merda!» Marco tira un pugno al materasso, il letto traballa. E i passi di Rita si fanno sempre più vicini, mentre ci cerca in cucina, in salotto, sul divano davanti alla televisione, e poi...

«Vestiti! Vestiti!» mi ordina Marco.

Ci vedrà, ci vedrà sicuramente e da brava madre capirà che cosa abbiamo appena fatto. Nulla di sbagliato, tutto di giusto, ma certe cose per un genitore dovrebbero restare supposizioni. Il ticchettio dei sandali estivi picchietta sulle piastrelle del salotto. Ora sul tappeto del corridoio, un battito più ovattato.

«Che figura! Mia madre! Vestiti! Vestiti!»

Alziamo le lenzuola in cerca degli indumenti. Camicetta a posto, ma gli shorts... dove sono finiti gli shorts? Calzino, pezzo di federa, scarpa di Marco, reggiseno. Via il reggiseno che genererebbe il sospetto. Lo nascondo sotto la camicetta senza indossarlo, facendolo scivolare dalla scollatura a v.

La maniglia si abbassa e i cardini cigolano, un profumo di lavanda si infila dalla fessura. Anche se la porta è socchiusa, Rita bussa e Marco le risponde:

«Un attimo! La camera è un disastro e non ho ancora fatto il letto e ti arrabbierai e quindi aspetta, solo un attimo! Lasciami almeno togliere il bicchiere dal comodino. Altrimenti poi ti incazzi che non ho usato il sottobicchiere e il legno si rovina!»

Shorts! Eccoli! Li infilo saltando in piedi sul letto, la testa che sbatte contro il soffitto della stanza, un ahi strillato. Mi ributto sul letto con le dita che tremano e non riescono ad alzare la zip.

«Che stavate facendo?»

Rita è sulla soglia, ha varcato la linea che proteggeva il nostro nido d'amore. E ci fissa, le labbra tirate in una smorfia di rimprovero. Sembra più vecchia ora che la mascella si irrigidisce e una ruga di disappunto compare in mezzo alla fronte.

«Che stavate facendo, vi ho appena chiesto.»

La stanza è impregnata dell'odore di sudore e sesso, Marco a torso nudo, i nostri petti che si alzano e abbassano per il fiatone. E gli slip, i miei slip di pizzo nero, dimenticati sulla sponda del letto. Rita li incenerisce con lo sguardo.

«Dovresti andare, Nina.» Poi guarda suo figlio. «Celeste ti ha lasciato un messaggio in segreteria, ma forse eri troppo preso per ascoltarlo.»

Marco balbetta come un pesce senz'acqua. Dille che ti ha lasciato, dille che è stata lei a rompere, dille che io e te non abbiamo fatto nulla di male.

«Vai, Nina» mi ripete Rita. «E portati via le mutande. Non ci fai una bella figura a dimenticartele in giro.»

«Sì, io...»

Vado. Ma non voglio lasciare Marco da solo a confrontare sua madre. Voglio condividere la ramanzina in arrivo. Marco mi allunga gli slip e sono costretta a ficcarli nella tasca troppo piccola degli shorts.

«Allora vado» sussurro.

Madre e figlio annuiscono, un sorriso di circostanza in viso. E io, che tuttora voglio restare e parlare con Marco e sentirmi ripetere che mi ama fino all'infinito, non posso che abbassare il capo e ubbidire.

«Buon pomeriggio, Nina» mi saluta Rita. «E scusa, temo di non aver insegnato a mio figlio come ci si comporta con le donne.»

Qualsiasi idea malsana si sia formata in quella testa tinta di biondo, non ho il coraggio di smentirla. Quando scendo dai pioli della scala, le gambe si fanno molli, la testa gira e mi devo tenere fissa all'impalcatura del letto per non scivolare. Ho il corpo esausto, i muscoli doloranti e il cervello che si è dimenticato di abbandonare la nuvoletta della felicità.

Dopo aver recuperato la bicicletta arancione, torno a casa. Mi sembra di volare su un'altalena, come quando andavo con Marco al parco giochi. Io mi tenevo fissa alle catene e lui mi spingeva per le spalle, sempre più in alto, al punto che lo stomaco saliva in gola.

Devo sdraiarmi sul letto e chiudere gli occhi per capire cosa è appena successo. Io e Marco abbiamo fatto l'amore, senza averlo stabilito, ma perché l'attimo lo richiedeva. Per una volta eravamo solo noi, privi di maschere, mezze verità, limiti, nemici che ci ostacolassero, amici che ci fermassero per il nostro bene.

"Ci sono le conseguenze, Nina, sempre le conseguenze."

Ma quali conseguenze negative potrebbe comportare un atto tanto giusto? Le stelle del destino si sono allineate in una direzione precisa e non troveranno ostacoli: Marco mi ama, io lo amo, Celeste lo ha lasciato, Stefano mi ha lasciata, Nomi ci aspetta.

Ho una voglia pazza di vederlo. Saranno passate due ore da quando sono uscita da casa Zuccato e ancora non mi ha scritto. I piedi sono l'ago di una bussola smagnetizzata, incapace di trovare il Polo Nord. Mi portano alla finestra, a scostare la tenda in ricamo bianco, a sperare che Floyd sfrecci per la stradina e si parcheggi sotto casa. Immagino Marco comparire con il respiro affannato e le guance arrossate dalla corsa, salire le scale e dirmi che è stato bellissimo: quel "ti amo" non è stata una dichiarazione pronunciata per l'enfasi del momento.

Ma Marco non corre da me e non chiama. Non scrive in nessuno dei seicento minuti che compongono la notte. Arrivano le sei di mattina e non un cenno, un segnale di fumo, un trillo in Messenger, uno "stai calma" giunto per passaparola.

Ho il voltastomaco e il cuore che rulla nel panico più totale: Marco si è pentito. Ho bisogno di sapere che mi sbaglio. E c'è solo una persona che mi può aiutare.

Le prime tre telefonate vanno a vuoto. Yuri è tornato a Milano per vedere degli amici e resterà fuori zona per una settimana.

«Si può sapere perché mi stai bombardando di chiamate, Adami?»

«Hai sentito Marco di recente?»

Yuri soffia un sospiro nel microfono del cellulare: «Che avete fatto tu e il pivello?» Lo immagino roteare gli occhi al cielo, osannarsi mentalmente e dirsi che senza di lui io e Marco saremmo due cactus spinosi dimenticati sotto un acquazzone.

«Perché dobbiamo per forza avere fatto qualcosa?»

«Perché chiami me per chiedere di lui. Mi stai sfruttando come tramite, Nina, e questo è il classico trucco che si usa dopo una pomiciata nel retro di un magazzino o una scopata in automobile, quando sia lui sia lei devono ancora schiarirsi le idee.»

Le guance bruciano di vergogna. Yuri è un veggente.

«Ora noi lo sappiamo che voi due siete il binomio e siete ingenui, puri, innocenti e passereste anni interi a guardarvi negli occhi e a confessarvi in silenzio il vostro eterno amore platonico» continua a dire. «Però...»

«Hai ragione!»

Lo interrompo, perché ha già capito tutto. Il rumore di un vaso o di una tazza che si infrange sul pavimento, cocci di vetro che si sgretolano in mille schegge, un minuto di silenzio e infine un boccheggio:

«Nina, scusa, su cos'è che ho ragione?»

È inutile che adesso si tiri indietro e faccia il finto tonto, quando lui stesso ha compreso il motivo della chiamata.

«Sul trucco, no?» gli dico. «È andata esattamente come hai detto tu. E adesso ti sto usando come tramite!»

O forse il grande Yuri Conte stava scherzando, appioppandomi una delle solite battute a sfondo sessuale con cui si intrattiene nei momenti di noia. E invece non aveva capito niente e con la mia confessione l'ho lasciato di stucco.

«Una pomiciata nel retro di un magazzino?» mi chiede. Un bip proviene dall'auricolare. Ha attivato il vivavoce e adesso sento i rumori di sottofondo, un infrangersi di cocci e lo sfrusciare della scopa tra le piastrelle. «Non dirmi una scopata in automobile, Adami!»

«Nel letto a castello» confesso.

Yuri balbetta per la mezz'ora successiva che non ci crede, non è possibile. E poi sotto o sopra? Il letto, precisa, quando non capisco. Sembra che sia vitale sapere quale materasso abbiamo contaminato del nostro amore.

«Sopra» lo informo, giusto per dargli il contentino.

Yuri prende una grande boccata e si rilassa, come se nel letto sopra andasse bene, nel letto sotto no. Deve essere uno strano codice tra uomini, o forse Yuri ha sostituito la birra del risveglio con una tanica d'assenzio.

«Non mi ha ancora richiamata.» Ho sputato il rospo, Yuri ha smesso di dare di matto e posso rivelare il motivo che mi impedisce di respirare. «Secondo te si è pentito?»

Yuri disattiva il vivavoce. Ho sentito la porta sbattere, segno che i suoi coinquilini sono rincasati.

«Se proprio vuoi la mia opinione» azzarda. «Conoscendo il pivello, starà pensando lo stesso di te.»

Dovrebbe esserci un codice, un regolamento d'amore che precisi chi deve fare cosa e – soprattutto! – puntualizzi che spetta all'uomo muovere il primo passo. È stato Marco a dare inizio a quel gioco di "Non sai cosa ti avrei fatto, se...", io ne ho pagato le dolcissime conseguenze. Sempre lui mi ha fatto cenno di andare, lasciandolo al confronto con sua madre. La mia brillante fantasia ha interpretato quel gesto come un "ti chiamerò io". E se Marco avesse pensato lo stesso del mio silenzio?

Nonostante il binomio, siamo campioni indiscussi nell'arte di creare disastri ed equivoci. Entrambi ci siamo cercati; entrambi abbiamo finto di ignorare i nostri sentimenti per paura che ci uccidessero. Paura, ecco la chiave del binomio, la parola perfetta per riassumere passato e presente. Non permetterò che ci paralizzi di nuovo, che il terrore di cambiarci ci allontani, proprio ora che ci siamo scoperti.

Infilo il primo prendisole appeso all'appendiabiti, una casacca blu leggermente larga sui fianchi. E corro verso casa di Marco, oltre il campo di grano e la rete da pallavolo dove alcuni ragazzini schiacciano bagher e battute; e poi sul marciapiede, davanti al cancello della caserma dei carabinieri.

Sento il cuore ruggire, una bestia impazzita che scalpita e non si vuole calmare. Correre aumenta l'adrenalina e l'eccitazione, mi dà la forza di non tornare indietro, mi fa bruciare del desiderio di vederlo e di dirgli che questa volta non mi metto da parte e...

«Nina?»

Dieci metri mi dividono da lui, un identico fiatone gli anima il petto. Correva come correvo io, la strada più corta che unisce le nostre case. Anche se siamo distanti, sento il suo cuore fremere, vinto da quella bestia che scalpita e non si vuole calmare, tra noi solo un passo.

«Non mi hai chiamata. Perché non mi hai chiamata e non sei venuto a cercarmi?»

Marco annienta quel passo che ci divide. Ha le palpebre abbassate, il viso rilassato dal sollievo.

«Non l'hai fatto nemmeno tu, Nanà.»

Marco è un disastro. Ha una macchia di cioccolato nell'angolo della bocca e ha indossato la maglietta arancione al contrario.

«Sei ancora qui?» gli chiedo. Non intendi scappare?

Marco ondeggia il braccio lungo il fianco, mi sfiora il polso, un braccialetto color arcobaleno che Valentina mi ha regalato come portafortuna per la maturità.

«Sono ancora qui» conferma. I polpastrelli mi passano la scossa, un brivido elettrico che ridà la speranza.

«E non ti sei pentito, vero?»

Il respiro si incastra nel petto, quando Marco non risponde. Il suo pollice si poggia sul mio mento, lo alza, stabilisce la giusta angolazione della testa, la posizione perfetta che preannuncia l'incontro delle labbra. Quel tocco di bocche è il suo no.

"No, non mi sono pentito."

Di tanti baci rubati e negati è il più prezioso. Segna l'inizio della nostra storia d'amore. Perché siamo entrambi qui, con i difetti, le ansie e i timori, ma anche con un coraggio da leoni che ci vieta di scappare. Quando le labbra di Marco si staccano dalle mie, resto abbracciata a lui. Un pianto di gioia risale la gola. Lo sopprimo, deglutendo un boccone di saliva.

«Tu e io saremo un terribile disastro insieme» ride Marco.

«Tu, io e il binomio. Che dice il binomio?»

Marco mi avvolge con le braccia e cerca una nuvola in cielo, finge di pensare alla risposta. La trova e io rivedo sul suo viso quell'enorme sorriso da Stregatto che mi ha fatta innamorare, quando eravamo in quarta ginnasio.

«Dice che siamo sempre noi, Nanà, tu con le tue paranoie e i film mentali, io con la mia zucca bacata e le cose dette al momento sbagliato.»

Ridiamo insieme, mentre Marco strofina la sua fronte contro la mia. In un'altra giornata lo rimbeccherei che è colpa sua, se mi faccio i film mentali. Ma oggi non ci devono essere lamentele. Oggi deve essere tutto perfetto.

«Siamo sempre noi» ripete Marco. Un bacio sulla punta del naso. «Tu che sei pesante e io che sono uno stronzo. Tu che sei intelligente e io che sono stupido.»

Sfioro le sue labbra a dirgli che sì, lui è uno stupido, ma spesso lo fa di proposito, solo per darmi la possibilità di essere intelligente, solo per renderci un binomio anche nella mente.

«Tu che ti preoccupi e io che ti dico che andrà tutto bene.»

Oggi non mi preoccupo, so che siamo troppo forti per vacillare alla prima difficoltà. Però voglio sentirmelo dire, sapere che Marco farà di tutto per proteggerci.

«Andrà tutto bene?» gli chiedo.

Un cenno conferma che non stiamo rischiando di perderci, perché siamo destinati a funzionare. Marco schiaccia la mia testa contro il suo petto e anche se non vedo più il suo viso, solo l'arancione della maglietta storta, so che il sorriso da Stregatto è ancora lì.

«Non ti preoccupare, Nanà.»

E non lo faccio.  

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