L'età del diamante (I)
Nei due giorni successivi, io e Marco ci scambiamo poche parole. Dopo l'episodio della caffetteria, i nostri discorsi si sono ridotti ai classici "ciao", "bene", "tu?".
Ogni risposta viene pronunciata con imbarazzo e non esiste sillaba priva di una striatura di rossore sulle guance o di uno sguardo abbassato, troppo timido per rialzarsi. Per mesi non ci siamo confrontati, e adesso è come se dovessimo studiarci, esaminare i nostri corpi, ogni minimo, impercettibile cambiamento. Si tratta di riscoprirci, con la speranza che ciò che amavamo l'uno dell'altra sia rimasto lì, immutabile, in nostra attesa.
La punizione di Battisti inizierà lunedì. Inutile dire che la mia maggiore età non mi ha salvata dalla ramanzina di mamma e papà. Quando sono rientrata a casa, mi hanno dato dell'irresponsabile, della "leggera". E in effetti leggera mi sento, un palloncino rosso che si lascia cullare dal vento, fino a sparire nella volta più alta del cielo. Ma questo senso di spensieratezza non è dovuto alla mancanza di responsabilità, è la gioia di sentirmi di nuovo completa.
Dopo mesi di buio, posso di nuovo annusare l'odore della libertà. Ho davanti a me un mondo tutto da scoprire, con Marco ancora al mio fianco, con una Celeste non più così insopportabile, e sono pronta a viverlo a pieno. Non mi dirò mai più: "Oggi non ho vissuto abbastanza". Vivrò ogni giorno come il secondo che respira un condannato a morte prima che il boia gli tagli la testa.
Resta da capire da dove muovere il primo passo. Da Marco, questo è certo, ma rimane quel lieve imbarazzo tra di noi, uno strato di polvere che si deposita sui nostri corpi, ogni volta che lo spazziamo via. Ora che non siamo più compagni di banco, non mi resta che accontentarmi delle piccole cose, di usarle come tanti mattoni per creare le basi più solide di un nuovo binomio.
Così, tra aspettative e ansie, arriva lunedì e mi scopro preoccupata quanto una bambina al primo giorno delle elementari. Ciò che mi stordisce non sono le interrogazioni della mattinata o le verifiche scritte. Sono quelle ore del pomeriggio che dovrò passare con Marco, per imposizione di Battisti. E allora la mente si riempie di panico: cosa dire, come iniziare una conversazione per farla sembrare normale. Tra me e Marco è sempre stato tutto così spontaneo che adesso, con il senno di poi, mi vergogno della semplicità dei nostri gesti. Mi chiedo come sarà, anche solo stringergli la mano o chiedergli di passarmi una penna, senza il timore di sentirmi sbagliata.
Sicuramente sarà complicato. Il binomio è diventato un vecchio orologio con gli ingranaggi arrugginiti e servirà tanto olio per rimetterlo in moto.
Quando suona la campanella della sesta ora e saluto Anatolia, Marco si avvicina per chiedermi di mangiare un trancio di pizza al bar della scuola. Lo maledico: la sua richiesta ha avvicinato l'ora dell'incontro. Stefano interviene in mia difesa assieme a Rocco e ci troviamo tutti e quattro nel localino a parlare di faccende scolastiche.
«Mio nonno ha alzato il tiro» si lamenta Stefano. «Se non passo con almeno Settanta, addio casale.»
«Settanta non è un voto molto alto. Ce la farai» replico io.
«Prendere Settanta per me è come prendere Cento per te» ribatte lui. Mi costringe a sospirare, a rimpiangere quel voto d'uscita che tanto ho sognato e che mai prenderò.
«Se non volete fare medicina, che ve ne frega del voto?» chiede Rocco.
Marco si sveglia come punto da una zanzara. Sembra effettivamente che un pungiglione gli si sia infilato nella carne e infatti guarda Rocco sorpreso, con gli occhi all'infuori, timoroso di restare imprigionato in un incubo.
«Perché?» gli domanda con voce tremante. «Per medicina cambia qualcosa?»
Rocco alza una spalla e gli risponde: «Ho letto sul giornale che il Ministero dell'Istruzione vuole cambiare il sistema. Se non si esce con un voto superiore all'Ottanta, si viene automaticamente esclusi dalla facoltà di medicina».
Marco diventa più pallido di un muro. Passa la restante ora a lamentarsi: «Non uscirò mai con Ottanta, sono un disastro in latino e in greco e ora ho pure Battisti contro. Mio padre mi ucciderà».
Quando Rocco gli fa notare che l'anno è appena iniziato e le carte sono ancora in gioco, Marco replica con un: «Da solo non ce la farò mai!»
E allora una sprovveduta parte di me si aspetta che un "Nanà" esca dalle sue labbra. Non mi lamenterei di essere sfruttata intellettualmente, perché aiutare Marco a scuola rientra nel grande e intricatissimo puzzle chiamato "binomio". Lui però tace e io rispetto il suo silenzio.
Vorrei dire: "Di che ti preoccupi? Ci sono io al tuo fianco adesso. Tutto andrà bene". Ma forse è presto e forse lo crede anche Marco. O forse no, visto che mi guarda e, appena incrocia il mio sguardo, abbassa gli occhi. Tace e non dice niente nemmeno quando salutiamo Rocco e Stefano, direzione biblioteca.
"Marco, credi che la bibliotecaria ci darà tanti documenti da scansionare?" suggerisce il grillo.
La lingua tace e la domanda rimane un pensiero.
"Marco, non trovi che la gonna della bibliotecaria sia davvero brutta?" tenta ancora, quando nel campo visivo si materializza un lungo gonnellone a balze, decorato da fiori. Ma ancora la lingua tace.
"Battisti le ha detto sicuramente perché ci troviamo qui, che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. Non è insopportabile quel tono da "mi-raccomando-non-fate-guai"? Cosa sarà mai scansionare qualche documento?" Ma perché non riesco a parlare? "D'accordo, forse i documenti non sono poi così pochi".
E perché non parla nemmeno lui?
Il panico mi toglie il respiro. Protagonista ancora il silenzio, ci infiliamo nell'aula computer e accendiamo i dispositivi. L'unico rumore che spezza la mancanza di parole è il gracchiare dello scanner che si accende.
Afferro il primo plico, ma proprio quando tiro per separarlo dalle altre carte, il braccialetto a perline si incastra nella spirale. L'elastico si spezza e in meno di due secondi una ventina di palline azzurre schizzano in ogni direzione sul pavimento. È un tic-tic continuo, un rotolare di sfere tra rotelle di sedie e gambe di banchi. Mi piego per recuperare tre palline ancora vicine a me e, quando mi muovo per rialzarmi, qualcosa di morbido, la consistenza di un telo, si appoggia sulla testa.
«Che stai facendo?»
Marco si è tolto la felpa e l'ha stesa sopra le nostre teste, incurante delle palline azzurre che stavo cercando di recuperare. Sembriamo due bambini intenti a giocare agli indiani, asserragliati sotto una grande tenda rossa.
«Torno indietro» mi sussurra. La felpa copre le nostre teste, il viso di Marco è vicinissimo al mio, il respiro soffia caldo sulle guance.
«Indietro dove?» Indietro in classe? Indietro al bar? Indietro da Celeste? Per tornare indietro, bisogna muoversi e invece noi siamo prigionieri della stoffa.
«Indietro, quando eravamo piccoli» mi dice lui. «Non siamo mai stati piccoli insieme, non veramente. A quattro anni non ti conoscevo e a quattordici ci dicevano che eravamo già grandi.»
«Troppo per fare le capriole in giardino, oppure per il solletico sul divano» concordo, rammentando le parole di Valentina, di tutti quando io e Marco raccontavamo i nostri primissimi pomeriggi trascorsi insieme.
«Però noi abbiamo recuperato tutto» sorride lui, nel semibuio della felpa. «Abbiamo giocato a guardia e ladri, guardato i cartoni animati; ci siamo arrampicati sugli alberi e sbucciati qualche ginocchio, e poi siamo cresciuti. Quand'è che siamo cresciuti, Nanà?»
Non so se la domanda sia retorica o se Marco si aspetti una risposta precisa. Mi è chiaro dove voglia arrivare: finché si è piccoli, il mondo è una grande bolla di giochi e divertimenti, mentre quando subentra la ragione – la maledetta età adulta – si percepisce il dolore, lo smarrimento, la paura. Tutto smette di essere naturale.
«Quanto era più facile essere piccoli» ammetto.
«Per questo!» ride Marco. «Per questo voglio tornare lì. Ai nostri quattordici anni, quando tutti ci dicevano che eravamo grandi, ma noi ci sentivamo piccoli e liberi. Tieni.»
Mi costringe ad aprire il palmo.
«Che cos'è?» C'è un dado nella mia mano, ma le sue facce non sono sei, bensì trentadue.
«Un dado da "Magic"» mi dice. «Il gioco, non lo conosci?»
«Forse l'ho sentito nominare» confesso. «Dove l'hai preso?» E soprattutto... perché? Marco ride con l'aria di una vecchia volpe, furba e scaltra.
«Nell'armadietto di Battisti.» Confessione che non lo rende per niente furbo e scaltro. Se solo il professore venisse a sapere di un secondo furto, ci taglierebbe le mani e caverebbe gli occhi. «Credo lo usi per scegliere chi interrogare e lasciare il tutto al caso.»
Una modalità di insegnamento che avrei detto più nella mentalità di Sinistri, vista l'indole del filosofo. Fisso il dado viola, le facce intagliate con trentadue numeri dorati, uno per faccia. Sembra quasi un manufatto prezioso di qualche epoca passata. "Magic", mi chiedo se davvero questo oggetto sia magico e se questa magia possa curare le ferite del binomio.
«Nanà?» Marco mi chiama. Devo essermi persa nel labirinto dei pensieri, tra strade di ricordi e meandri di antiche paure. «Lancialo, se è pari decidi dove vuoi andare, se dispari decido io.»
Continuo a non capire. Le ruote del mio treno non sanno su che binario curvare, hanno perso velocità e si sentono stanche e vecchie. Sono però ruote desiderose di viaggiare, pronte a giocare, a rimettersi in pista. Lancio il dado: 12. Tocca a me...
«Marco! Era 12! Il primo turno era il mio!» protesto, perché con un colpetto di mano Marco ha fatto fare un salto al dado: 11.
«Non ho detto che non potevo barare. Voglio iniziare io! Del resto, il gioco l'ho inventato io, il dado rubato sempre io ed è giusto quindi che a iniziare sia io!»
Passiamo un minuto buono a fingere di litigare sulla precedenza, ci tiriamo colpetti di spalla e solletichiamo pancia e lato sinistro del collo, finché le mie risate non si fanno troppo alte e allora Marco mi zittisce con un buffetto sul naso.
«Vuoi che quella vecchia strega della bibliotecaria ci sgridi?» mi rimprovera.
Complici come nei vecchi tempi.
«Hai visto che orrenda la gonna a fiori?» Finalmente lo dico.
«Quella in passato doveva essere una strega!» commenta Marco.
«Magari lo è! È scappata con un incantesimo dal rogo e si è teletrasportata nel futuro.»
«Allora lo voglio anche io quell'incantesimo!» ride Marco. «Però per tornare indietro.»
«Tornare indietro quando?»
Ed è così che cado nella trappola. Con la mia domanda attivo il meccanismo del gioco, gli faccio capire di avere ceduto il turno e decretato la sua vittoria, e Marco lo sa. Senza pensare sputa fuori dalla bocca la sua risposta:
«Alla festa di Ayman, quella della quinta ginnasio, quando abbiamo rubato il motorino di Carlo Santoni e tu hai conosciuto Ivan Ulivieri.»
Il cervello raggela. Di tutti i bei momenti del binomio, perché voler ricordare la nostra prima lite?
«Avrei potuto essere migliore e venirti a salvare da quel diavolo travestito da eroe» commenta lui. Sa leggere ogni smorfia ed espressione del mio viso. Pensare a Ivan come a un diavolo, lui con la bella abitudine di salvarmi, mi fa sorridere.
«Io vorrei tornare indietro...» dico quando è il mio turno. Che poi il mio turno non è: non ho lanciato il dado, ma penso che barare, arrivati a questo punto, sia legittimo. «Vorrei tornare alla Prima Classico, quando mi sono rotta la gamba. Te la ricordi la nevicata che nessuno si aspettava?»
Marco fa sì con la testa e provoca un leggero tremolio nella felpa. Nelle nostre menti ci sono gli stessi momenti dello stesso passato.
«Tu sei venuto a trovarmi, mi hai presa in braccio e portata in giardino, e lì c'era Biagio al volante di Floyd e una grande slitta attaccata alla vespa. Ti ricordi quel giorno?»
«Come dimenticarlo! Ci siamo fatti trascinare per tutta la via e tu dicevi di volermi spedire a Timbuctù!» Si finge offeso, proprio come aveva fatto quel giorno.
«Solo perché tu volevi barattarmi in Egitto per dieci cammelli!»
«Ma se all'epoca non sapevo nemmeno cosa volesse dire "barattare"! Sei tu che non credi mai alla mia innocenza» conclude. «Così per punirti ho deciso di voler tornare indietro al marzo 2005, quando abbiamo fatto guerra con i gavettoni colorati e te ne ho spiccicato uno in testa.»
Questo non è mai successo.
«Eh no, caro mio! I gavettoni colorati sono una priorità del grande Yuri Conte. Voglio tornare indietro all'ultimo giorno di scuola dell'anno scorso, quando Yuri è diventato blu come un puffo!»
È impossibile non ridere nel ricordare la scena: la sorpresa sul viso del nostro amico, le grida e i pugni che dimenava in aria minacciando di spezzarci in due.
«E se l'è cercata, così forse un giorno la smetterà di chiamarmi pivello!» dice Marco.
«Ma tu sei un pivello!» replico io. «Anzi no, sei uno zuccone! Il mio zuccone!»
«Ah sì?» Un sorriso di scherno si dipinge sulle labbra, segno che è l'inizio della guerra. «E allora voglio tornare indietro a quando ti ho quasi fatta arrestare sulla strada di Nomi perché ero ubriaco secco e intonavo motivi su Adami il poliziotto.»
Il ricordo di Marco che imita Laura Pausini e sfida i due carabinieri fa traboccare il vaso. Non mi importa di spezzare la magia, tolgo la felpa dalle nostre teste e scoppio a ridere.
Passiamo i successivi dieci minuti a cantare, intervallando qualche strofa con un "Tornare indietro a quando". Ignoriamo i plichi di carte da scansionare. I fogli ci guardano come se li avessimo sedotti e abbandonati, ma la gioia è talmente tanta che nessuna nube potrebbe oscurare il sole. E mi viene da piangere, perché non dovrebbe essere concesso agli uomini essere tanto felici, forse non lo sarò mai più per il resto dei miei giorni.
«C'è una cosa che devo dirti e non approverai» ammetto ad alta voce. «Un segreto che in questo mese non ho ammesso nemmeno a me stessa.»
Marco è colto in contropiede, strabuzza gli occhioni azzurri e forse pensa che la pazzia mi si sia infilata su per il naso e abbia raggiunto la mente. Come posso parlare così seriamente e rischiare di rovinare tutto?
«Me lo vuoi dire lo stesso?» mi chiede.
«Solo se lo vuoi sentire.»
Marco si accarezza il mento con quel mezzo millimetro di barba che di recente ha scoperto: un uomo, non più un bambino. Valuta attentamente la situazione, come non avrebbe fatto nei nostri quattordici anni di età.
«Non adesso, Nanà.» Mi rilassa leggere nei suoi occhi una nota di serenità. «Adesso romperesti la magia. Un'altra volta sarebbe sicuramente meglio.»
Riafferra la maglia e me la getta sulla testa. È pronto a tornare al gioco del dado a trentadue facce, a immergerci di nuovo nei ricordi e in un oceano di gioia. Mi lascio cullare dalle onde di un mare in stato di quiete. Glielo dirò un'altra volta.
*
Passiamo la prima settimana di rientri pomeridiani a giocare e a ricordare i tempi trascorsi, a rivivere le tappe salienti di un'amicizia che sembrava appassita e invece aspettava solo la primavera – ottobre – per gettare nuovi fiori. Di tanto in tanto, durante queste sessioni di lavoro, scorgo l'ombra di Celeste affacciarsi alla porta. Ci guarda con i suoi occhi color ghiaccio, eppure incredibilmente caldi. Non dice mai una parola e spesso credo che Marco non noti nemmeno la sua presenza. E invece lei è lì, spettatrice immobile e silenziosa di un binomio che sta per essere forgiato più resistente di prima.
Da quattordicenni io e Marco siamo stati il rame, semplice da lavorare eppure estremamente friabile, al punto che sarebbe bastato un solo colpo di spada per spezzarlo.
Dopo il viaggio in Irlanda siamo diventati il bronzo, più complesso, eppure ancora facile da scalfire.
Infine, dopo il dramma di Biagio e l'ingresso nel binomio di Stefano e Celeste, ci siamo fusi nel ferro, il metallo delle armi più resistenti, quello con cui i grandi eserciti dell'antichità hanno creato vasti e potentissimi imperi. Forse in futuro ci fonderemo in qualcosa di ancor più resistente, forse non saremo un metallo, ma un diamante puro, indistruttibile.
Quando arriva fine ottobre, si avvicina il compleanno di Marco, i famigerati diciotto anni. In circostanze normali temerei la presenza di Celeste, ma adesso non riesco a preoccuparmi. Celeste non mi sembra altro che una macchiolina di contorno su una bellissima cornice di fiori profumati.
«Non voglio niente di esagerato» mi confessa Marco, in un pomeriggio come un altro. Siamo seduti sul divano di casa sua e giochiamo a Final Fanatsy IX, continuando a rubarci il joystick della playstation.
«Pensi di uscire a cena con Celeste?» gli chiedo. Sono stupita dal tono della mia voce. Non è finto, non trema, non ritiene nemmeno più che la loro relazione sia una farsa.
«No, non credo» ammette Marco. A suo agio, proprio come lo sono io. Sembra quasi che ci siamo calati tutti i calmanti venduti ai saldi della farmacia di paese. «Vorrei qualcosa di tranquillo.»
Schiocco la lingua, mentre uccido un mostro e mi concentro sulla via da seguire nello schermo della televisione. Sarebbe il turno di passare il joystick a Marco, ma lui è preso dalle chiacchiere e così ne approfitto, continuo a dirigere il gioco.
«Vuoi forse farmi credere che Marco Zuccato intende festeggiare i suoi diciotto anni senza uno strabiliante festino organizzato dal grande Yuri Conte?» gli chiedo. «Niente casse di superalcolici nascoste negli armadi, canne rollate sui tavoli, musica sparata alle stelle fino a far arrivare la polizia?»
Marco ha sempre descritto i suoi diciotto anni come l'evento del secolo e ora sembra volersi accontentare di una veloce festicciola tra amici.
«Niente di tutto questo» confessa lui. «Dobbiamo guarire.»
Non dà una grande spiegazione, ma le due parole bastano per comprendere le sue intenzioni. "Dobbiamo guarire" significa curare il binomio, lasciare che il tempo e la vicinanza cuciano gli strappi e le ferite che ci siamo inflitti in quest'ultimo anno di vita. Non possono essere l'alcol, gli amici, le canzoni urlate al cielo e le risate forzate a velocizzare il processo di guarigione. Possiamo essere solo io e Marco i dottori di noi stessi. Ci vorrà pazienza e coraggio, ma insieme possiamo farcela.
Quando Marco recupera il joystick, mi stringe la mano e sembra premere con forza, come a dire che stare lontani ci ha fatto troppo male e ora dovremmo annientare la sofferenza, fondendoci in un corpo solo, uno che non potrà mai essere diviso, perché solo diventando da due un'unica entità potremmo affrontare ogni difficoltà della vita.
I giorni passano monotoni, senza variare di una sfumatura di colore o di una virgola nella loro bellezza. Io e Marco siamo sempre insieme, come se quella mano che tanto ci stringevamo si fosse davvero fusa in una lega di metalli. Anche quando siamo lontani, mi sembra ci sia un filo legato ai nostri polsi, un laccio che ci impedisca di perderci. È il filo che Arianna donò a Teseo per guidarlo fuori dal labirinto del Minotauro, per noi è il filo che ci permetterà di ritrovarci, ovunque siano diretti i nostri passi.
Il compleanno di Marco scorre tranquillo, senza un goccio di alcol o una canzone che non sia un "Buon compleanno" intonato da Massimo. Ceniamo a casa Zuccato, aspettiamo la torta, soffiamo insieme le candeline e ci addormentiamo come da piccoli nello stesso letto. Nulla di eclatante o megalomane, come avrebbe prescritto Yuri, ma ai miei occhi non poteva esserci compleanno più riuscito.
«Studiamo insieme oggi?» mi chiede Marco appena svegliato, senza nemmeno il buongiorno. Abbiamo dormito in un intreccio di braccia e gambe che sembrava una culla di rami, finché il sole non si è posato sui nostri visi. Nascondo la faccia nella maglietta di Marco per non restare accecata.
«Di domenica?» gli chiedo.
«Hai altri impegni?» mi domanda lui. Sento il petto sobbalzare e il braccio che avvolge la mia schiena irrigidirsi.
«No, certo che no, ma da quando ti piace studiare di domenica?»
Marco torna a fare la perfetta imitazione di sé stesso: a lui non piace studiare, ma bisogna farlo. Non ho forse sentito cosa ha detto Rocco al bar vicino alla scuola? Che sarebbe di lui se non riuscisse a entrare a medicina?
«Devi ancora festeggiare con Celeste» gli ricordo, senza voler rompere l'armonia. «Non l'hai capito da questo grande casino che è successo tra di noi che non bisogna trascurare le persone?»
Qualcuno potrebbe darmi della pazza. Tutto sta andando a gonfie vele, navighiamo in mare calmo, con abbondanza di pesci nelle reti e la riva del porto che si fa sempre più vicina, e io mi intestardisco a trovare lo scoglio che mandi a picco il veliero. A quel qualcuno direi che sono cresciuta. Non nascondo più la testa sotto il piumino, ma accetto la vita nella sua realtà. Se voglio stare con Marco come un binomio, devo accettare Celeste.
«Non pensi che Celeste si sentirebbe trascurata se non festeggiasse il compleanno con te?» gli chiedo.
«Non ho mai trascurato Celeste» borbotta lui. Ha la bocca schiacciata sui miei capelli e le parole escono ovattate.
«Hai trascurato me» lo rimprovero, pizzicando la pelle da sotto la maglietta. Devo avergli fatto il solletico: Marco si dimena come un'anguilla catturata dalla rete di un ragazzino dispettoso. «E adesso stai trascurando Celeste.»
Marco bofonchia alcune scuse, minimizza la questione. Mi passa le dita tra i capelli, talmente lunghi e aggrovigliati da aver bisogno di una spazzola e di un buon parrucchiere, disfa qualche nodo e arrotola la punta delle ciocche attorno all'indice.
«In tutta la mia vita ti avrò trascurata solo un paio di volte, nulla di più.»
«E ti pare poco?» protesto, fingendo di voler scappar via. Marco mi stringe ancora più forte. «E comunque altro che un paio di volte! Ha ragione Battisti. Hai seri problemi in matematica.»
«Ah davvero?» Un sorriso diabolico gli imbratta il viso. La dose di calmanti immaginari che ci siamo calati sembra finire per miracolo. Marco torna a essere il ritratto della vita. Mi punisce con le pernacchie sulla pancia e io scalcio, ma le sue braccia sono più forti del mio corpo e non conosco colpi di karate o judo per salvarmi dalla trappola.
«Ti faccio vedere io! Quanto sei malvagia, Nanà!»
Quando siamo senza fiato, smettiamo di lottare, l'effetto dei calmanti di nuovo su di noi.
«Dovremmo alzarci, Marco. Tua madre ci aspetta per fare colazione.»
Improvvisamente sembra lontano. Vaga con la mente in chissà quale sogno. Mi stacco dal suo petto per studiare meglio l'espressione distante, mi preoccupa quello sguardo perso nel vuoto, quasi fosse finito in una dimensione parallela dove non posso esistere anch'io.
«Andiamo da qualche parte» dice poi. Di nuovo con me, di nuovo al mio fianco. Presente e pieno d'affetto come non mi è sembrato mai. «È autunno. Non lo abbiamo ancora fatto quest'anno.»
La mia mente si illumina, svegliata dalla scarica delle sue parole. In quella dimensione parallela adesso c'è posto anche per me. So senza l'ombra di un dubbio o di un sospetto che cosa vuole fare Marco.
E conosco il posto adatto.
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