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Insieme (III)


Un gruppo di giovani passeggia nel parcheggio del porto, mi studia attraverso il cannocchiale del pettegolezzo. Pur non conoscendo le dinamiche della storia, balzano alla conclusione più logica: quella povera ragazza con i capelli rosso sbiaditi è stata appena lasciata. Fuggo all'ombra di un ulivo e studio il Nokia. È carico, la memoria svuotata per il timore che un messaggio di Marco trovi lo spazio pieno.

La lancetta dell'orologio segna mezzogiorno passato, più di due ore da quando ho sentito la sua voce. Polverizzo il display a forza di lanciargli minacce e promesse di morte. Perché quel dannato apparecchio infernale si ostina a non suonare?

Potrei chiamare io, ma non lo faccio. Poi, alle due di pomeriggio, il telefono squilla:

Celeste mi ha lasciato.

Rileggo il messaggio una ventina di volte per assicurarmi di non aver frainteso. Celeste. Che c'entra Celeste? Mi odio per aver sentito il cuore sorridere alla disgrazia; forse Marco è triste, arrabbiato, deluso; in me, invece, piccole farfalle di sollievo volteggiano nello stomaco. Le uccido con il DDT, dicendomi che non posso volare in un cielo stellato di gioia ed euforia. Devo spegnere l'entusiasmo e correre da Marco, essere al suo fianco per sostenerlo.

Dove sei?

Risponde in un baleno:

Alla Sirenetta. Mi accompagni a casa?

Balzo sulla bicicletta arancione, ordino alle gambe di scattare, alle ginocchia di piegarsi e stendersi manco dovessi vincere il Giro d'Italia. Concentro le forze sui pedali con i catarifrangenti e non smetto di prendere velocità nemmeno quando sono in discesa.

Marco è di parola. Lo trovo alla Sirenetta.

«Che è successo?» gli chiedo.

Scendo dalla groppa del mio nobile destriero e lo lascio cadere a terra. La bici tonfa con il rumore dei pedali che girano a vuoto. Marco mi guarda assente. Non sbatte le ciglia e gli occhi si arrossano.

«Celeste mi ha lasciato.»

Non c'è odore di pianto nella sua voce. Marco sembra solamente... stupito. E ora sbatte le palpebre e inclina leggermente le sopracciglia in una "v".

«Perché avrebbe dovuto?» gli chiedo. «Celeste non ha mai dato segnale di volerti lasciare e allora perché...»

«Per te.»

Marco taglia il "discorso di conforto" con un'accusa. Sapevo che Celeste era al limite. L'ho vista ingerire bocconi amari, privarsi della dignità, ringraziare per un mazzo di crisantemi, non indispettirsi per avere ricevuto un vaso come regalo di Natale, sopportare un "non ti amo".

Ma che ho fatto in questo preciso istante per causare la fine di una storia d'amore?

«Le ho detto che non intendo andare a Bologna a fare medicina» confessa Marco. «Mi iscriverò a ingegneria, a Nomi.»

Gli occhi si dilatano, un tuffo di sorpresa spiccica lo stomaco contro il cuore. Marco non andrà a Bologna, Marco non farà medicina, Marco si iscriverà a ingegneria, Marco andrà a Nomi. E io sarò a Nomi. Però...

«Tu hai sempre voluto fare medicina.»

I pomeriggi passati a studiare, i corsi accelerati di suo padre, i pisolini sui libri di anatomia quando la stanchezza premeva sulle tempie, i mille tentativi di copiare a scuola perché un futuro medico deve uscire con l'ottanta.

«Non me n'è mai fregato niente di medicina, Nanà.» Si è messo in piedi e tende la mano per convincermi ad alzarmi. «Non me n'è mai fregato molto di nulla, eccetto noi.»

Mentre camminiamo verso casa Zuccato, il grillo della coscienza mi sgrida: "È tutto terribilmente sbagliato".

«Non capisco» sussurro. Procediamo sul marciapiede fianco a fianco. Marco fa pendolare le braccia avanti e indietro, mentre io spingo la bici, un fastidiosissimo pedale che ruota e si conficca nello stinco. «Hai studiato medicina con tuo padre per tutti questi anni. Perché, se non ti interessava?»

Ho il terrore che Marco stia minimizzando, definendo il suo sacrificio una sciocchezza di poco conto, quando in realtà gli piange il cuore. Lui fissa la linea dell'orizzonte, tira un calcio a due sassolini e gioca a spingerli in avanti quasi fossero biglie di vetro.

«Non dire niente» mi prega. «Non importa adesso e non voglio più pensare. Mi basta che resti con me.»

Quando arriviamo a casa Zuccato, si trascina in camera e resta incantato davanti al letto a castello, quei due materassi sorretti da un'impalcatura in legno che hanno ospitato i nostri scherzi per cinque anni di liceo.

«Sopra o sotto?» mi chiede.

«Che hai detto?»

«Se vuoi stare sopra o sotto.»

In che senso?

«Il letto» puntualizza Marco, la voce meccanica non tradisce l'ombra di un sentimento.

«Sopra» gli rispondo.

Sopra perché i bambini scelgono sempre la cima della fortezza quando giocano alla guerra, perché in alto ci si sente più protetti. In casa non ci sono né Massimo né Rita, ma ora come ora io e Marco siamo privi di anticorpi. Qualsiasi attacco esterno potrebbe distruggerci.

«Celeste mi ha lasciato» ripete Marco per la millesima volta.

Ha occupato il materasso in fondo, concedendomi di stare dalla parte del cuscino. Schiene schiacciate contro il muro, buttiamo le gambe sopra la transenna del letto, quell'asse di protezione che impedisce ai bambini di precipitare nel vuoto durante il sonno.

«Ti dispiace tanto?» gli chiedo.

Il mio cuore soffre per medicina. Marco invece si preoccupa per Celeste.

«Ci devo pensare» mi risponde.

Sigilla le labbra e si concentra sul muro davanti a noi. Per più di mezz'ora restiamo immobili. Il ventilatore è spento, la finestra a vasistas chiusa, e il corpo di Marco, incollato al mio, genera brividi bollenti lungo la spina dorsale.

«Sì, mi spiace che Celeste m'abbia lasciato» conclude.

Rompe il silenzio con una frase che non mi sarei attesa, l'ennesimo riferimento a Celeste. Il suo nome sortisce l'effetto di un mazzo d'ortiche sbattuto in faccia.

«Stare con Celeste mi ha fatto bene» si giustifica. «A dire il vero, credo che Celeste abbia fatto bene ad entrambi.»

Deve essersi davvero spremuto le meningi per partorire questa grandissima cazzata! Quel giorno, sul pedalò, mi sono sentita uccidere da una pioggia di pugnalate al cuore. E di pugnalate ne sono arrivate a migliaia nei mesi successivi: quando si baciavano, quando si davano appuntamento, quando Marco pronunciava il suo nome.

«Celeste non mi ha fatto bene» ci tengo a precisare.

Ho sempre definito la sua presenza "sopportabile", ma ora che si sono lasciati... il pensiero di una loro storia piega lo stomaco in un crampo.

Marco mi guarda, divertito dal muso lungo che ho indossato. Si sistema sul fianco per studiarmi meglio, adagia il gomito sulla sponda del letto e con le punte dei piedi spinge via un paio di calzini sporchi.

«Celeste ci ha aiutati a restare quel che siamo, Nanà.»

Piego il capo nella sua direzione e le nostre fronti si sfiorano. Ho le mani sudate, il sangue che pulsa battiti di allarme, la mente che si appanna, un'insensata angoscia che graffia il cuore.

«Avrei fatto un sacco di cose stupide, se il pensiero di Celeste non mi avesse ostacolato.»

Cose stupide. Gli sguardi di Marco mi vogliono bruciare viva. Le guance avvampano. Eppure, mi ha fissata un'infinità di volte per un'infinità di anni. E allora perché il cuore è sotto pressione?

«Ad esempio?» chiede una pazza parte di me. «Ad esempio che cosa avresti fatto?»

Marco uccide la distanza tra i nostri visi, e io indietreggio, fino a sedermi sul cuscino che profuma di Marsiglia, le spalle al muro. In trappola.

«Ti ricordi quella volta che eravamo insieme sul divano, all'ultimo dell'anno?» mi chiede.

Scuoto la testa in un no, una bugia perché ricordo benissimo. E mi pento di avere accettato questo gioco, di avergli chiesto degli esempi. Ho scherzato con il fuoco e ora che lo sento bruciare, so che è un errore buttarsi tra le fiamme, se si ha paura di restare scottati.

«Mangiavamo il tiramisù» dice Marco per aiutare la memoria.

Ora annuisco, un ciuffo ribelle che fugge da dietro l'orecchio. Marco gattona in avanti, blocca ogni via di fuga. Lo vedo tagliato a metà per colpa di quella ciocca che cade sull'occhio sinistro. Una vampa di coraggio risale dallo stomaco, un folle desiderio di essere bruciata viva.

«Lo ricordo» confesso.

Le dita di Marco si muovono a rallentatore, si accostano alla mia guancia.

«Tu avevi una piccola goccia di mascarpone a lato della bocca» dice.

Sistema il ciuffo dietro l'orecchio, il dito che scende a sfiorarmi la guancia, e indica il punto di unione tra le labbra, quel brandello di pelle macchiato sei mesi prima dal tiramisù.

«Sai, Nanà? Era solo una gocciolina, però io la guardavo e sentivo che il cuore batteva forte forte e non respiravo e volevo...»

È mio il cuore che batte forte forte. È mio il respiro che si spezza in gola. Marco annienta lo spazio tra i visi, silenzia la sua stessa voce contro la mia bocca. E io morirò, perché il cuore è impazzito e il respiro è imprigionato nelle narici e non dà ossigeno agli organi. Le spalle tremano, gli occhi si appannano, un pugno di nebbia buttato in faccia, il contorno di ogni oggetto sfumato.

«Che stai...»

Facendo? La punta della sua lingua tocca l'angolo della bocca, pulisce quella goccia di mascarpone inesistente. Marco lecca il labbro superiore, mi convince a separare le labbra, ma proprio in quell'istante un centimetro di vuoto si frappone tra di noi. E io resto come una scema con la bocca socchiusa e gli occhi umidi di vergogna.

Tutto qui? Mi ha schiacciata contro il muro e mi ha leccato il viso, spaventata con parole provocanti, ed è tutto qui? Ora che sono tra le braci attizzate, voglio il fuoco, la fiamma dell'inferno che squarti la pelle.

«Sei uno stupido. Un bacio così non valeva niente. Perché ti sei tirato indietro per così poco?»

La speranza di avere dell'altro fa vibrare la voce.

«Potevo farlo davvero?» mi chiede Marco.

Ha gli occhi puntati nei miei, due trappole azzurre che incantano e confondono. Il respiro sbuffa sulla pelle. Ed è un soffio che sa di birra, vino, tequila, scotch, Jack Daniel's, dell'infinita gamma di alcolici che abbiamo trangugiato per giustificare i finti baci del passato, per non dire che eravamo proprio noi a volerci alla pazzia.

«Mi sottovaluti, Nanà.» L'unica volta in cui siamo sobri, l'ebbrezza fa volteggiare la testa in giravolte. «C'è stata un'altra volta, al centro benessere, quando in piscina ti tenevo stretta a me.»

«Lo ricordo.»

Ero attraccata al mio porto sicuro, talmente vicina da cogliere i minimi difetti della pelle, le gocce di cloro che scivolavano sulle guance. Marco recupera le mie gambe, le invita ad allacciarsi attorno ai fianchi, come in quel giorno di cinque mesi prima.

«Anche io ti stringevo» gli dico. Porto le braccia attorno al suo collo, mi tiro seduta sopra di lui. «Ti stringevo proprio così.»

«Avevi le labbra che tremavano, Nanà. Blu per il freddo. E in ogni piccolo sussulto sembravano chiedermi di scaldarle.»

Anche adesso le mie labbra tremano e hanno freddo. Sei ancora disposto a scaldarle?

«E ti avrei trascinata sott'acqua per baciarti, perché sott'acqua non ci avrebbe visti nessuno.»

«Perché non l'hai fatto allora?»

Le parole prendono forma a contatto con la sua bocca. Marco scivola contro la pediera, trascinandomi con sé, e io annego in un mare di lenzuola, quando mi adagia sul letto, le gambe ancora intrecciate ai suoi fianchi, le braccia avvinghiate al collo. Ed è assurdo che muoio e annego in quest'istante, di tutti gli attimi possibili proprio quando sono ancorata al mio porto sicuro.

«Io non lo so se mi sarei fermato a quel bacio, Nanà.» Le bocche si cercano, le lingue intrecciate in un nodo che si scioglie e riallaccia e disfa e riunisce. «Non l'avrei fatto quando mi picchiavi per Celeste.»

"Ricordi?" dice il suo silenzio.

"Ricordo" conferma il mio. I crisantemi di San Valentino, quei fiori che con il loro linguaggio hanno pronunciato un messaggio chiarissimo: Marco non voleva Celeste. E io non lo accettavo, perché dopo Celeste ci sarebbe stata un'altra donna e avrei sopportato una donna diversa da me?

«Tu avevi addosso un cappotto rosso ed eri arrabbiatissima e io...» Un bacio frettoloso sul lato del collo. «Io volevo portarti qui, sul letto e pian pianino...»

Slacciarlo, il maledetto cappotto rosso che indossavo come un'armatura, una corazza per proteggermi da sentimenti indesiderati. Perché anche io quel giorno, sull'uscio di casa, mentre sganciavo scariche di pugni, volevo attaccarmi alle sue spalle e far scendere la cerniera della felpa. Ora non c'è la zip di una maglia, solo dei jeans. La abbasso, mentre Marco libera dall'asola i bottoni della camicetta a fiori.

«E volevo toglierti il maglioncino grigio.» Parla, quanto parla. Parla sempre troppo. «E baciarti il cuore.» Via alle spalline del reggiseno. «E liberarlo da tutto il male che ti ho fatto.»

«Fallo adesso» gli ordino.

Fallo adesso e non pensare e non parlare più. Perché se penserai e parlerai, il cervello ci fermerà e ci dirà che è uno sbaglio, un terribile sbaglio sognato, desiderato, sperato, ma pur sempre uno sbaglio.

Marco costella di baci il collo e il viso e la fronte e il naso e il seno. Preme le labbra su ogni millimetro della mia pelle, la vuole marchiare, firmare con la sua presenza, dire che finalmente siamo noi e siamo insieme. Stiamo tornando a essere quel cerchio perfetto che gli dèi invidiosi hanno separato alla nascita in due metà.

Passo le dita nei suoi capelli, lo prego di non ripensarci. Il mio silenzio confessa di averlo sempre voluto. Marco mi bacia, fa scendere gli slip di pizzo fino alle caviglie, li butta sulla ringhiera del letto.

«Lo hai mai pensato, Nina?» E adesso bacia l'ombelico e la pancia e il cuore, mentre conficco le unghie nella carne delle sue spalle. «Possono esserci mille ragazze irlandesi, mille Ivan, mille Celeste, mille Stefano, ma alla fine siamo sempre noi.»

Noi troppo testardi e impauriti per ammetterlo e trovare il coraggio di scoprirci, come solo un uomo e una donna uniti dal destino possono fare. Ed è improvvisamente chiaro. Marco entra in me e una fitta di piacere risale nel ventre.

Siamo sempre stati noi.

È sempre stato lui.

«Sei sempre stata tu.»

I suoi baci mi fanno rinascere. Non sono più un albero spoglio incapace di donare amore e di lasciarsi amare. Marco mi stringe e il corpo si riempie di gemme, splendidi fiori di primavera fino ad ora chiusi nella linfa dei rami. Occhi negli occhi troviamo le nostre certezze. In quel mare di azzurro manca il dubbio, la paura, il rimpianto. O forse un rimpianto c'è. Perché adesso, perché non prima, perché aspettare cinque anni per diventare completi? Siamo un incastro di voglie e desideri taciuti troppo a lungo. Siamo un gesto naturale, istintivo, tremendamente giusto nella sua semplicità. Siamo reciproca appartenenza. Immobili e uniti in un intreccio di braccia e gambe, senza acrobazie, posizioni inusuali, prove di elasticità, tentativi di fingerci esperti.

Marco mi bacia la fronte, mentre si schiaccia al mio petto in un'ultima spinta. Quando lascia cadere la testa nell'angolo tra collo e spalla, lo intrappolo per i ricci biondi. Un fremito gli scuote la schiena, un brivido che dal suo corpo scivola nel mio.

«Non avere paura» lo supplico.

Perché io ne ho abbastanza per entrambi. Paura che Marco se ne penta, paura che muova un passo indietro, paura che non mi voglia più. Appena esce da me, il vuoto si diffonde a macchia d'olio nello stomaco.

«Sei pentita?»

Come può pensarlo? Per diciannove anni una donna ha dormito nel mio corpo da bambina. Posso aver fatto sesso e giocato e sperimentato e dire che mi sono divertita e sentita appagata. Peccato che con Stefano avessi dimenticato il cuore sullo zerbino, accanto al campanello. Adesso invece ci sono. Sono presente in ogni bacio e carezza, sono con Marco in ogni atomo di me e non c'è organo che vorrebbe essere altrove. Per la prima volta un'onda d'amore mi riempie e voglio lasciarmi sommergere senza opporre resistenza.

Premo le labbra sulle sue per silenziare ogni dubbio, per dargli il coraggio e impedirgli di tirarsi indietro.

«È giusto» gli dico. «È così giusto che fa male.»

Marco ha ancora un sorriso stampato sul viso quando si ributta sulla mia bocca. Mi solleva per i fianchi, li pizzica in cerca delle maniglie dell'amore. Rientra in me e spinge con maggior sicurezza, intrappolato dall'incanto cui abbiamo dato vita, una magia di gemiti, sussurri all'orecchio, labbra che si accarezzano. Finché il telefono di casa suona.

Risponde la segreteria telefonica della famiglia Zuccato.

Chiunque sia, è troppo tardi per fermarci. Marco tira il lenzuolo a coprire i nostri corpi, come se Rita potesse uscire dall'apparecchio elettronico e fissarci inorridita.

Marco, sono Celeste.

Non mi fai più paura, cara, piccola, dolce Celeste. Non sei che lo spettro del passato. Ora ci sono io tra le braccia di Marco, a fargli il solletico con le punte dei capelli e a graffiare le scapole con le unghie affilate.

Avevi il cellulare spento e ho pensato di telefonarti qui.

Marco mi stringe al petto con una forza tale che la cassa toracica scricchiola, le costole rischiano di incrinarsi, quasi volesse farmi entrare nel suo torso, imprigionarmi tra cuore e polmoni. Mi stritola per non lasciare nemmeno un millimetro tra le curve e le irregolarità dei nostri corpi, per dimostrarmi che combaciamo alla perfezione.

Mi dispiace, mi dispiace tantissimo.

Non adesso Celeste. Zitta. Non rovinare questo momento. È sacro e non lo puoi profanare con la tua presenza. Io non ero con voi mentre facevate l'amore, non mi immischiavo, non vi interrompevo quando sentivate il piacere spaccare lo stomaco.

«Non è mai stato così» sussurra Marco, il petto alzato da grandi respiri. «Con Celeste, non è mai stato così. Con Stefano?»

No, nemmeno per me. Nemmeno con Stefano. Ho la bocca bollente, la saliva che fa da collante, le parole incastrate in gola, la risposta che non prende vita. No, mi ripeto, con Stefano è stato un intruglio di sesso e voler bene. Divertente, molto. Coinvolgente, spesso. Amore, mai.

Ho fatto un errore grandissimo oggi. Non le pensavo le cose che ti ho detto. Ti voglio, ti voglio ancora.

Io e Marco restiamo immobili, fianco a fianco, gli occhi puntati sul soffitto della stanza.

«Ti amo.»

«Ti amo.»

Ti amo.

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