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I'm not Superman (I)


Ora del decesso: 3.57. Nome del paziente: Binomio. Data e luogo: 23 agosto 2008, Scalinata del Re.

Da tre giorni quel letto infangato si è trasformato nella mia tomba. Ho promesso a Yuri che avrei fatto del mio meglio per rimettermi in piedi, ma non mi sono più alzata. Quando la stanchezza vince ogni resistenza e il sonno mi avvolge, rivivo lo stesso incubo: Marco vuole Celeste, Marco mi lascia, Marco dice che è troppo presto. La clip finisce con me e Yuri davanti a una brioche. È in quell'istante che il nastro si riavvolge. E si riparte con l'incubo, da capo.

Sogno quella notte un miliardo di volte, al punto che provo a soffocarmi con il cuscino e a prendere a pugni le tempie per cancellarla dai ricordi. È inutile, non posso fuggire dall'incubo, né cambiare il finale. Il binomio è morto e la mia vita si è fermata. Papà continua a bussare alla porta e mi tartassa di domande e ipotesi: Si può sapere che è successo? Scommetto che sei agitata per l'università.

Sono grata a mia madre per avere capito, senza bisogno di una spiegazione.

Mi ha rassicurata con un bacio sulla tempia. Poi l'ho sentita sussurrare a mio padre di tacere, perché ci vuole del tempo per guarire da un cuore spezzato. Il suo, di cuore, va a pezzi insieme al mio: quando lascia il piatto con il cibo sul comodino, quando torna a prenderlo e lo trova pieno, quando si accorge che non reagisco.

Il cervello mi ordina di alzarmi: Andiamo, piede. Scivola da sotto le lenzuola. E voi, ginocchia, piegatevi e iniziate a camminare.

Non c'è niente da fare. Il cavo che legava la mente al corpo è saltato. Quando arriva il secondo giorno, 48 ore dal decesso, il cervello va in allarme rosso. Perché non mi voglio abbastanza bene?

Io mi voglio bene, ma dentro di me si è rotto qualcosa, un ingranaggio per cui l'anima non può più controllare il corpo. Forse è proprio la mia anima che si è rotta. Esteticamente credo di essere sempre io. Se mi guardassi allo specchio, troverei un riflesso. Se cercassi la mia ombra, studierei una sagoma nera. Sono io, in ogni atomo, capello, brandello di pelle, osso che mi compone.

Ma allora che cos'è quel vuoto in mezzo allo stomaco? Ripenso al passato, agli anni in cui gridavo al mondo intero che ero fiera di chiamarmi Nina. E ricordo il motivo per cui ringraziavo il cielo di essere me stessa: avevo Marco, il binomio, un legame talmente forte da provocare invidia nell'intera Viacampo, anzi, in chiunque conoscesse la nostra storia.

La vita di ogni umano è composta da miliardi di persone che si radunano nei giorni di fiera. Studiano le bancarelle, raccontano una storia divertente, offrono da bere. Queste persone sono solo delle variabili. Può capitare di incrociarle, ma quando il giorno di fiera finisce, ognuno torna alla propria vita. E non importa se le variabili non entreranno mai più nel campo del nostro radar. È facilissimo farne a meno.

Io però avevo una costante, un numero che tenevo saldo nel petto. Ed ero certa che nessuno me lo avrebbe portato via. Marco. Che cosa sono, ora che l'ho perso? Ho un nome, un corpo, un riflesso e un'ombra. Ma senza la costante, non sono più io.

«Sforzati e mangia qualcosa» dice mia madre. «Fallo per me e per tuo padre. Ti vogliamo bene e non sopportiamo di vederti così. Starai meglio con lo stomaco pieno.» Ha tagliato la crostata d'albicocche in cubetti. Ne mangio cinque, per metterla a tacere. «Brava. Ti lascio qui il piatto. Mi prometti che ne mangi ancora un po'?»

Annuisco, l'ennesima promessa che non so mantenere. Il cervello ordina una serie di istruzioni da seguire: "Adesso, bocca, mangia! Devi sfamare il corpo, altrimenti Nina diventerà una mummia."

Ma le labbra non si schiudono e il braccio non si allunga per afferrare il piatto. Azzurro, come i suoi occhi. Che stupido colore. Lo spacciano per la tinta della felicità e invece è l'angoscia di un cielo che ti inghiotte. È una persecuzione.

Azzurre le lenzuola;

azzurro il piatto;

azzurro l'orologio;

azzurro il quaderno sulla scrivania;

azzurra la striscia sul poster dei Pink Floyd, The Dark Side of the Moon.

Pink Floyd come la nostra canzone. E la parete con le foto e il diario dell'Irlanda e i fiori rinsecchiti e Marco che mi stringe ed entra in me, Marco che mi lascia. Per Celeste. Basta!

Tiro la sveglia contro le foto. Questa stanza è il luogo protetto dove Marco non può entrare. E invece ogni angolo grida "Marco". Marco è ovunque, Marco è sempre. Dipinto nel bianco delle pareti c'è il viso di Marco. E se chiudo gli occhi, sento solo la voce di Marco. E l'odore di Marco ha intriso i mobili, sta avvelenando l'aria, copre perfino la puzza di fango e di sudore, il tanfo che la maglietta della Lacoste emana.

Ora mi alzo, mi butto sotto la doccia, mi metto qualcosa di pulito ed esco. Oggi, 72 ore dal decesso, c'è una novità. Oggi sento il bisogno di respirare aria fresca e di disintossicarmi della sua presenza. Oggi il piede scosta le lenzuola e le gambe muovono un passo.

Oggi esco, sul serio.


*


Il problema sono io, non è Marco. Per cinque anni ho creduto che vivere in un binomio significasse fondere i miei desideri con i suoi, viaggiare sulla stessa lunghezza d'onda. E non ho previsto che l'onda Nina desiderasse procedere diritto, l'onda Marco svincolarsi e deviare per un sentiero che non potevo seguire.

Ho ritenuto che Marco fosse un'estensione del mio corpo e non aveva importanza precisare dove iniziasse lui e dove finissi io. Il fatto che rappresentasse una costante lo rendeva la parte più forte di me.

Gli ho imposto i miei sogni e lui se li è cuciti addosso in un'elegante giacca da matrimonio. A un primo sguardo gli è sembrata perfetta, ma poi, quando siamo arrivati alla Scalinata del Re, l'orlo si è sciolto, la stoffa sgualcita. E Marco ha capito che quella storia d'amore era il mio sogno, non il suo. Ha confessato di avere anche lui una storia da proiettare sul grande schermo.

Protagonisti: Marco e Celeste.

Esco sotto lo sguardo esterrefatto di mia madre. Devo prendere in mano la situazione, recuperare i pezzi e assemblarli in una nuova Nina, perché è colpa mia, se ho visto una storia d'amore che non esisteva.

Siedo su un divanetto in velluto blu, accerchiata dall'odore di lacca e shampoo. Due signore hanno la testa sotto il casco per la messa in piega. La parrucchiera taglia la frangetta a una cliente che si lamenta perché la vuole ora più lunga, ora più corta e forse no, forse vorrebbe i colpi di sole.

Mentre aspetto, studio il mio riflesso nello specchio. Ho gli occhi gonfi, occhiaie da strega che scendono fino a metà guance, le labbra tremanti. La parrucchiera mi squadra, chiedendosi se intervenire o ignorarmi. Sono un oggetto di distrazione, un paio di jeans stracciati, una maglietta bianca rattoppata e orrendi capelli sbiaditi.

Li tingerò di nero. Come Celeste.

«Sei Nina, vero?»

La donna si siede al mio fianco. I sonagli d'alluminio, appesi sopra la porta, tintinnano. È entrata nel salone da pochi secondi e sta cercando di fare conversazione. La conosco, ma non metto a fuoco.

«La mamma di Nicola, non ricordi?»

Lei sorride e perdona la mia sbadataggine. Si presenta con un "Maria Ulivieri". Ufficialmente non ci siamo mai strette la mano, solo incrociate di sfuggita per Viacampo.

«Io mi ricordo benissimo di te» dice. È bellissima con quei capelli neri che le scendono fino alle spalle. «Sarà che di tanto in tanto Nicola ti nomina e lui non è di molte parole. Così, quando spiccica due sillabe su una ragazza, è evento da crocetta sul calendario!»

Ride, portando il dorso della mano alla bocca. Sembra volermi rasserenare. È delle donne come lei che gli uomini si innamorano. Come lei e come Celeste.

«Sei venuta a studiare da noi una volta» aggiunge.

Resto ammaliata a guardare l'anello che tiene all'indice, una pietra rossa, incastonata sulla montatura d'oro giallo. Rosso sbiadito, proprio come i miei capelli.

«Nicola si è iscritto a giurisprudenza, a Nomi» racconta. Il viso si illumina, quando parla di lui. È più solare dei faretti incastrati sopra gli specchi del salone. «Ma forse già lo sai, forse te l'ha detto. Siete amici, vero? E tu in che università andrai?»

Studio l'anello che Maria porta all'indice. È divertente come quel colore sui miei capelli provochi un effetto pagliaccio, mentre su una montatura d'oro sembri il tesoro di una regina.

«Nina, va tutto bene?»

Non rispondo. Intrappolo una ciocca di capelli sciolti. Sono ancora inumiditi dalla doccia, sfibrati e di una tonalità più scuri rispetto alla norma. Ma quando accosto il ciuffo all'anello di Maria, capelli e pietra si fondono nella stessa tinta.

«Sono uguali» commento. «La pietra è bellissima e allora perché i miei capelli sono così brutti? Perché ha scelto lei? Perché non gli sono bastata io?»

Vorrei che l'anello si trasformasse nello specchio di Biancaneve e recitasse il famosissimo ritornello: "Sei tu la più bella del reame." E invece l'anello non parla.

«Una volta stavo pensando di cambiare il colore della tinta» dice Maria. Anche lei stringe una ciocca dei miei capelli. Li fa scivolare tra le dita quasi fossero fili d'argento. «Vivo con tre uomini, ma ci tenevo ad avere il loro parere e così ho chiesto un consiglio sul colore da scegliere.»

Ride con tutto il corpo, con gli occhi e le guance. Quando la guardo, immagino i lineamenti di Nicola farsi severi di fronte alla domanda della madre: lui deve studiare e non ha tempo per queste sciocchezze!

«Mio marito e Ivan si sono rifiutati di metterci il becco. Nicola ha detto rossi. Senza un dubbio. Il rosso del cielo al tramonto.»

Il respiro si blocca in gola. Rosso chiaro, come la pietra sull'anello e i miei capelli, il colore che Marco ha deciso di sostituire con il nero, con Celeste, la normalità. E Nicola invece... nonostante il male che gli ho fatto, sceglierebbe sempre me?

«Quando gli ho chiesto perché, lo sai cosa mi ha risposto?» Maria lo chiede con fare scherzoso, quasi stesse giocando. «Perché c'è una ragazza, mi ha detto, ed è unica.»

Talmente unica da avere perso la costante. Mi sfugge un singhiozzo, Maria mi abbraccia. Il naso si piega sul vestito di seta, il profumo di rose rilassa i nervi. Non conosco questa donna. E lei non conosce me. Eppure, sembra aver letto con uno sguardo il dolore che marchia il cuore.

«Non permettere mai a nessuno di dirti che non sei speciale» mi dice.

Trattengo le lacrime, appena mi stampa un bacio sulla testa. Non posso piangere davanti a una sconosciuta, non quando rischio di bagnarle il vestito.

«E non cambiare per chi non ti ama per quella che sei, Nina.»

Non sono io a essere sbagliata. La colpa è di Marco. È stato lui a farmi credere che il binomio fosse una forza della natura, più potente di un uragano, più potente di Dio. E alla prima difficoltà ha rinunciato al nostro amore e scelto la strada più semplice.

Maria allenta l'abbraccio. Trattengo le lacrime e scivolo dalle sue braccia, un sorriso timido in viso. D'ora in poi lui sarà Nessuno e non avrà più il permesso di ferirmi.

«Grazie» sussurro.

Non cambierò nulla di me, nemmeno quei capelli che detesto. Sarà durissima incollare i cocci di un cuore spezzato, ma non posso accettare di essere finita. Sono Nina Adami, brillante studentessa con una super memoria e un dono innato per le traduzioni. E anche se queste abilità potrebbero sembrare parole vuote, restano un punto d'inizio. Procederò a piccoli passi, metterò in fila i giorni, troverò una nuova costante. Perché da oggi in poi quella costante non potrà più essere Marco Zuccato.

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