Guerra tra titani (I)
Il pavimento della stazione è un mosaico di vetri e gocce di sangue. Davanti a me non ci sono immagini precise, figure scolpite nei loro contorni, solo colori. Sfrecciano in ogni direzione, girano oltre l'edicola e la biglietteria automatica, oltre me e Valentina: il nero del cappotto di Massimo che corre dal figlio; il giallo dei capelli di Marco, trascinato in macchina da suo padre; il rosso del sangue, dell'estintore appeso alla parete, della maglietta di Valentina. E poi c'è il marrone che avanza – passi svelti, scomposti, disordinati –, corre nella mia direzione, scoppia la bolla del silenzio.
«Nina, ti assicuro che io...»
Stefano. Stefano che era con Marco, di fronte a lui, prima dell'urlo. Stefano che non lo sopporta. Stefano che sarebbe più felice se il binomio non esistesse. Stefano che vuole distruggerci. Oltre il rosso c'è una certezza:
«Che gli hai fatto?»
La mia non è una domanda, ma un movimento di labbra. E Stefano non lo comprende. Mi scuote per le spalle, mi prega di non fuggire in un mondo tutto mio, dove nulla può ferirmi.
«Che gli hai fatto?»
Stefano si scosta da me:
«Deve essere colpa mia per forza, vero?»
Non mi importa, né di Stefano, né della sua presenza, né dello sguardo ferito, né di averlo accusato.
«Nin, ti ha guardata, capisci. E poi camminava sui suoi piedi» mi dice Valentina. «Non può essere nulla di grave, quindi calmati.»
Mi importa solo che Marco stia bene e lei lo sa, perché è la mia migliore amica e a volte sembra sia nata solo per sostenermi e darmi il coraggio di andare avanti. Insieme siamo belle quanto un tempio greco. E io sono un complicatissimo architrave, decorato da fregi e rilievi, gradevole, ma inutile: perché se non avessi Valentina, la mia colonna, non sarei che un pezzo di marmo abbandonato sugli scalini del tempio.
«Non ti ha tolto gli occhi di dosso, Nin, finché l'Audi di suo padre non ha girato l'angolo» continua a dirmi. «Io non ho capito che è successo, ma ti prometto che non è nulla di grave.»
La gente spettegola, sussurri che coprono sussurri: rissa, estintore, vetro, sangue. Ma che significa? Le tempie pulsano, esplodono sotto il peso di troppe domande: "Perché?", "Come sta Marco?", "Dov'è?".
Valentina guida la macchina di Carlo, l'andatura a scatti di chi non sa pigiare con scioltezza acceleratore e frizione. E io conosco questa strada, l'ho già percorsa, a bordo di una Golf nera, odore di Drum, aria satura di paura, mentre stavamo andando da Biagio.
«Non di nuovo» sussurro. Il rosso sulle piastrelle, il rosso che colava dal corpo di Marco. Ma da cosa poi? Dalla testa? Da un braccio? Non ho fatto in tempo a vedere. «Non può succedere di nuovo.»
«Va tutto bene, Nin. Non ho visto molto, ma era in piedi e camminava e credo ti abbia chiamata, anche se non si è capito molto. C'era troppa gente in mezzo.»
Forse non era in piedi, forse Massimo lo stava reggendo, trascinando come un corpo morto sulle piastrelle della stazione. Eravamo lontani e io non ho visto niente e Valentina guardava me. Come fa a sapere?
«E se ti sbagli?»
«Non mi sbaglio» risponde Valentina. «Non è come l'altra volta.» I fari dimenticati spenti, la macchina di Carlo che si infila nel parcheggio dell'ospedale. «Sono sicurissima che non è come l'altra volta. Anche se è successo tutto troppo in fretta.»
Fretta. Sempre e ancora questa parola. Le tragedie non si abbattono sul genere umano con calma, lanciando preavvisi; non danno il tempo di prepararsi. Se solo io e Marco avessimo compreso che un nuovo nubifragio stava per abbattersi su di noi!
«Perché non l'ho impedito?»
«Come puoi impedire qualcosa che non si prevede?» mi chiede Valentina. Mi guida nei corridoi del pronto soccorso e cerco di capire in che reparto stiamo andando. Le infermiere rispondono alle domande, ma le loro voci sono suoni confusi. I cartelli con le indicazioni sono grandi, contrassegnati da lettere cubitali, ma sfocate. E mi ripeto che andava tutto bene ed eravamo felici e allora perché mi ritrovo qui?
«Signor Zuccato!» Valentina mi butta a sedere accanto a una vecchietta che conta gli acini del rosario. «Signor Zuccato, dov'è finito?»
Valentina, polmoni pieni d'aria, un megafono in gola, strilla il nome del primario.
«Signor Zuccato! Signor Zuccato!»
È l'unico a conoscere le risposte. È scappato via con Marco, senza dirmi una parola. Lo ha fatto di proposito, lui che odia il binomio, un vincolo talmente forte da sfidare le leggi della natura.
«Signor Zuccato, finalmente!»
Esce dalla porta in fondo al corridoio, rimbeccato da un'infermiera che protesta: negli ospedali non si può gridare e se conosce quella bionda starnazzante, deve metterla al suo posto! Lo odio infinitamente.
«Nina» mi saluta. Lo so il mio nome. È di Marco che voglio sapere, ma non ho il coraggio di chiedere. Massimo si accomoda sulla sedia accanto alla mia. «Ascolta, ragazza, perché non vai un attimo alle macchinette?» chiede a Valentina.
«Ma anche no» ribatte lei.
«Sarà un discorso lungo.»
Lungo? Un discorso lungo vuol dire "complicazioni e complicazioni" in ospedale vuol dire "coma" e "coma" vuol dire "morte". E di nuovo il respiro è lì, bloccato, e il cuore esplode, la gola talmente calda da bruciare qualsiasi parola tenti di risalire fino alla lingua.
«Va' a prendere qualcosa alle macchinette» insiste Massimo. Mi mette una mano sulla spalla. Anche se la vista è appannata, immagino Valentina abbaiare contro il primario. «Non per te. Prendi qualcosa con molto zucchero.»
La mano di Massimo continua a stringermi la spalla in un massaggio, un tocco che non soddisfa il bisogno di sapere. Niente sceneggiate, Nina. Concentrati sulla penna, la biro che sbuca dal taschino del camice. Concentrati sui passi di Valentina, sempre più lontana.
«Dimmi, Nina.» Ha la voce calda. E continuo a odiarlo infinitamente, 3ppure il tono, piatto ma con una punta di dolcezza, mi rassicura, un filo di respiro scivola oltre il masso in gola. «Tu lo sai perché il tuo amico ha preso a pugni un estintore?»
Quel filo, al suono della domanda, si trasforma in un fiume d'aria che scioglie i nervi, rallenta il battito del cuore.
«Estintore?» lo chiedo, incredula. «Ha solo tirato...»
«Perché Nina» sospira Massimo. «Cosa pensavi fosse successo?»
Non lo so. In testa la logica si è spenta, in una maniera innaturale si è riempita di fumo e ho visto solo il sangue, permesso ai pensieri di sfrecciare a briglia solta verso gli incubi peggiori. Ho perso il controllo, come nessuno dovrebbe fare.
«Non lo so» ammetto
«Non sai perché ha tirato un pugno a un estintore?» mi chiede Massimo. «Ascolta, Nina, tu ormai per me sei come una figlia e quindi voglio essere sincero.»
E io ne vorrei delle cose, caro Massimo. Vorrei essere felice, vorrei che Marco lo fosse e vorrei che il binomio diventasse un'etichetta chiara, senza dubbi, doppi sensi, pugni tirati a estintori.
«Che mi devi dire?» gli chiedo. Ha lo sguardo abbassato, nascosto dalle rughe dei cinquant'anni, due zampe di gallina in più per il terrore provato nel vedere suo figlio ferito.
«Guarda come sei ridotta adesso, e guarda come si è ridotto lui in stazione. Dovete smetterla con questa invenzione del binomio. Non potete andare avanti così.»
Eccolo, Massimo, in tutto il suo odio per quello che siamo. Finge perfino di essere dispiaciuto per noi, quando in realtà vuole solo vederci lontani.
«È troppo, Nina.» Seleziona le parole per non offendermi. "È troppo" si inserisce bene nel discorso. Lo so: è intensità, vivere al massimo, sentire ogni emozione amplificata. È crollare a pezzi per un pugno a un estintore, vedere un mare di sangue al posto di una manciata di gocce, essere incapaci di mantenere il controllo.
«Dovete andare avanti» continua a dire Massimo. «O imparate a diventare qualcosa di nuovo, una coppia normale, con equilibrio, affetto, rigore, oppure...»
Interrompe il discorso. Sa benissimo che io e Marco non possiamo essere una coppia. Non ne abbiamo le capacità. L'ho voluto e ci ho provato, ma ogni volta ho sbattuto contro il fallimento; ogni tentativo boicottato da un fuorilegge che non si può denunciare alla polizia: il binomio. E quindi, non resta che la seconda ipotesi, la proposta di Massimo:
«Oppure dovrete dividervi». La mano lascia la spalla e scarabocchia un numero su un pezzo di carta. «Prima che uno dei due si faccia male sul serio.»
Si alza dandomi le spalle e mi abbandona con un foglietto in mia mano: stanza 17. Tra centoventi minuti dovrò essere in quella stanza, dove terminate le visite mediche, ci sarà Marco. Ancora non so come sta, perché abbia tirato un pugno all'estintore.
«Ma come si permette, quel medico da strapazzo?» Valentina, di ritorno dalle macchinette, mi allunga una lattina di tè alla pesca, dopo aver stappato la linguetta. «Solo io posso odiare il binomio e voglio che questo sia messo agli atti sin da ora.»
Un sorso di bibita dolcissima e il sarcasmo della mia amica sono la formula segreta per recuperare le forze e cacciare dalle gambe la stanchezza di un pomeriggio di terrore. Per le due ore restanti rimaniamo sedute sulle sedie, Marco il chiodo fisso dei miei pensieri.
«Potresti iniziare a raccontarmi della gita, intanto, no?»
«Oppure potrei prevedere con che parole Stefano mi lascerà!»
Ora che Marco è fuori pericolo, ora che so che non è mai stato in pericolo, ripenso a quell'onda di odio che nella mia testa ha ucciso ogni logica, a quanto sia stata scorretta ad accusare Stefano.
Valentina schiocca la lingua in un "non ci pensare". «Quello lì è pazzo di te, Nin. Ti toccherà l'amaro compito di lasciarlo, se vorrai liberarti di lui.»
Valentina non capisce molto di storie d'amore. Non la penserebbe così, se sapesse che cosa è successo in Grecia! Ma a Stefano penserò domani, quando il nome di Marco smetterà di infilarsi in ogni pensiero. Intanto aspetto, guardo la lancetta compiere due giri d'orologio, due tondi perfetti, annunciarmi il momento di entrare nella stanza diciassette.
«Hai una faccia» sospira Valentina. «Sembri una sopravvissuta a un rave party tra ecstasy e anfetamine. Forse dovresti darti una sistemata, perché sei hai delle occhiaie tremende e...»
«Hai reso l'idea, grazie.»
Sono inguardabile, ma non ho un attimo da perdere. E so benissimo che Marco non mi giudicherà per essere brutta, anche perché lui non sarà più bello di me, dopo aver fatto a botte con un estintore.
Lo è. Nonostante la mano bendata per non infettare la ferita, e la doccia gessata sul braccio, nonostante le borse sotto gli occhi e i capelli arruffati, è mille volte più bello di quanto sarò mai. E sorride, quasi stessimo per andare a divertirci in discoteca, e invece siamo in una stanza asettica, con un carrello colmo di garze e disinfettanti, un lettino coperto di bianco.
«Andiamo, Nanà! Non guardarmi così. Non è successo niente, lo sai!»
Lo guardo come lo guardo sempre, e in me non c'è pietà o pena o voglia di piangere. Sono stanca e incredibilmente felice. La paura è passata.
«Vedi, Nanà? Mano fratturata, gesso nuovo di zecca e a casa in serata. I vantaggi di essere il figlio del primario di neurochirurgia. Mi hanno fatto perfino saltare la fila!»
Troppo entusiasmo, troppa gioia, troppa idiozia nello sbattere il braccio contro il comodino, per provare che non ha niente. Non gli fa male, perché lui è il mio supereroe e nulla al mondo potrebbe allontanarci.
«Nanà, non piangere.»
«Ma io non sto piangendo.»
Ho gli occhi secchi, il respiro calmo, le guance asciutte. Dentro di me, però, c'è un marasma di emozioni in tempesta.
«Io ti vedo piangere comunque.»
Il terrore alla vista del sangue, il discorso di Massimo, quell'aut-aut che mi ha consigliato, la stretta alla spalla, la battuta finale: "Prima che qualcuno si faccia male sul serio". E che sarà di me, se Marco, la prossima volta, non sarà su quel lettino con un braccio ingessato, ma dovremmo lottare contro qualcosa di più grave?
Lo guardo mentre mi fa segno di raggiungerlo.
«Non dire niente» lo supplico. «Non dire niente, ti prego.»
Acciambellata accanto a lui, premo il viso sul suo petto, costringo il braccio sano ad avvolgermi la schiena. Non ho bisogno di parole per riunire le due metà del binomio. Il contatto dei corpi è un ago perfetto per creare una giuntura tra di noi. Mi basta restare attaccata a lui e fingere che il futuro non conoscerà taglierini, motoseghe, forbici e coltelli capaci di dividerci.
«Ma come non dire niente, Nanà? Non lo vuoi sapere perché il tuo Marco è ridotto così?»
«Adesso non dire niente» gli ripeto.
Le sue labbra umidicce mi piazzano un bacio nel centro della fronte.
«Stefano ti vuole lasciare. E io non posso accettarlo.»
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