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Due Discoboli sfrenati (I)

Premessa: chiedo venia per i refusi! In anticipo perché qui saranno tanti (purtroppo), ma oggi non ho proprio avuto il tempo di leggere. :(


Yuri non sbagliava quando mi ha accusata di essere nei guai. Essermi staccata da Biagio e buttata in un vortice di rimorsi era un grandissimo "guaio". Così, sul fondo del barile, non avevo compreso quanto mi servisse una mano tesa per uscire dalla botte e rinascere nello spirito. Come un serpente che ha cambiato la muta e striscia rinnovato tra l'erba, mi destreggio tra i giorni di marzo e aprile. Anche Biagio sta rinascendo con me. Lo vedo nell'impegno dei pomeriggi passati insieme, nelle battute che tenta, negli sforzi di memoria per tenersi allenato.

«Due cartoni di latte, una confezione di pasta e un etto di prosciutto» gli dico in fila al supermercato. È un esercizio consigliato dal neurologo. Biagio memorizza i prezzi dei prodotti e prima di arrivare alla cassa fa la somma.

«3 euro e 70.»

Ora che la stagione è più bella, allunghiamo le passeggiate a piedi al lago, Marlyn che ci guida e sostiene il suo padroncino. Spesso c'è anche Marco, il desiderio di non sparire nel giro di pochi mesi, come ha fatto dopo il risveglio di Biagio dal coma. Lo rende partecipe delle nostre peripezie scolastiche e dei progetti per il futuro:

«Ora che ho passato la simulazione con 12/15, voglio prendere Sette e Otto in tutte le prove e far vedere a mio padre che ce la posso fare a entrare a medicina».

«Inizierai a studiare?»

«Perché studiare quando puoi copiare?»

Il mese di aprile passa così, tra una soluzione di matematica appuntata sotto la suola delle scarpe, una versione di greco incollata sull'etichetta della bottiglia, formule di fisica mimetizzate sullo schienale della sedia, appunti di filosofia inseriti nel rotolo della carta igienica in bagno.

E qui ci troviamo: 14 aprile, aeroporto di Atene, dopo un lunghissimo volo con partenza Malpensa; Battisti e Sinistri come accompagnatori. Il professore di matematica si dà al melodramma: non ci voleva venire in gita, è stata una trappola del preside Frainz. Non solo deve portare al pascolo diciotto capre, ma gli toccherà pure sorbirsi il binomio.

«Perché di tutti i miei allievi proprio la Innocenti doveva rinunciare alla gita?» si chiede ogni due secondi.

«Forse dovremmo preoccuparci di qualcos'altro, professore» gli faccio notare, quando raggiungiamo il parcheggio delle corriere. «Che cosa vuole quel tizio da noi?»

Un uomo greco, abbronzatissimo nella carnagione olivastra, folte sopracciglia disordinate e naso aquilino da rapace, sventola la mano in un saluto. Non è un tizio qualunque, ma il nostro autista. Aria addormentata, filosofia di vita "relax, take it easy", butta una birra Mythos sotto il sedile del guidatore, si schiaccia gli occhiali da sole in faccia e piega il metro e ottanta di altezza in un inchino.

«Ego sum Thanatos

Un mix insensato di latino e greco, la cui migliore traduzione suonerebbe come...

«Io sono la Morte?» chiede Nicola.

«Perché parla metà in latino metà in greco?» gli chiedo io. E intanto Marco saetta lo sguardo da me a Nicola, da Nicola a me, chiedendosi quando sia rinata questa confidenza che credeva sepolta.

«Lascia stare il latino e il greco» dice Nicola, zaino in spalla, maglietta nera che profuma di pulito. «Crede di essere la Morte?»

Né Sinistri né tanto meno Battisti comprendono la battuta dell'Ateniese. E così solo io e Nicola rimaniamo preoccupati dall'affermazione. Il resto della classe butta gli zaini nel vano apposito, Marco sceglie per il binomio i posti in fondo. Quando la nostra guida gira la chiave, accende il motore e pigia l'acceleratore, capisco il significato di "Ego sum Thanatos".

«Sarà davvero la nostra morte, se guida così!»

Una sgommata di partenza, odore di bruciato, i segni neri dei copertoni sull'asfalto, visibili dal finestrino impolverato. E tutti, ma proprio tutti, tranne me e Nicola, che cantano gli 883 e se ne fregano del serial killer che Sinistri ha assoldato come nostro autista.

«Sembra di essere in Formula 1, vero, Nanà?»

Sudo freddo, nonostante l'aria condizionata sparata a mille, la corriera che vola a 140 chilometri orari sulla strada bruciata dal sole d'aprile.

«Ego sum Thanatos» ripete l'autista. «No parlare come latino voi? Io avere collega chiamato Eros. Ego sum Thanatos. Vos avuto mortes. La vita est così. Vos oggi qui, vos domani lì.»

Grido quando lascia il volante per indicare il cielo. La corriera sgomma sulla corsia opposta, quasi investe un ciclista e ci schianta contro la roccia che costeggia la strada. Per sessanta minuti non faccio che supplicare gli dèi di farmi arrivare all'hotel, l'albergo più bello di tutta Atene, come ce lo ha presentato Sinistri nel programma di viaggio. Ampio poggiolo vista Acropoli, aria condizionata, vasca idromassaggio e colazione servita in camera. Nel migliore dei miei sogni, non nella realtà.

«È sicuro che sia il posto giusto?» chiede Sinistri all'autista.

Thanatos recita l'indirizzo:

«Οδός Γερανίου, Ομονία». Via Gheraniou, piazza Omonia. «Est right, est right.»

Una catapecchia, le ringhiere dei poggioli cadenti, la scritta hotel pendente, la porta che a stento resta chiusa.

«Αύριο!» ci dice Thanatos, mentre scala i gradini della corriera verde. «Domani.»

Ci vediamo domani, sì, se sopravvivremo alla nottata nell'Hotel dell'Horror. Anche Thanatos sembra voler fuggire dalla casa degli incubi e infatti accende il motore. Sinistri lo insegue:

«Non Avrio, niet Avrio, post Avrio, not tomorrow

È dopodomani che ci servirà la corriera, ma Thanatos se la cava con un "relax" prima di darsi alla macchia.

«Non è tutto perfetto?» dice Battisti. La Lorenzi gli ha davvero prestato la sua confezione di tranquillanti! «Nina Adami è a casa, Marco Zuccato a farle compagnia a Viacampo; e Celeste Innocenti non causerà guai. L'autista è una persona poliglotta e astemia. L'albergo è di lusso e quelle signorine sulla strada sono sicuramente monache.»

Inizia così il nostro soggiorno ad Atene, con Battisti che rimpiange Viacampo e Celeste Innocenti, con il proprietario dell'albergo che ci sbatte nelle nostre stanze, con Marco che strilla: "Non ci posso stare in camera con Nicola Ulivieri. Non è già abbastanza il comunista?"

E con il grillo parlante che mi vuole convincere: sarà una gita grandiosa. Ho forse qualche dubbio?

Mi basta vedere le "monache" lanciarci un bacio, tacchi dodici, calze a rete e venti strati di trucco, per dirmi che no, non ho un dubbio, ne ho almeno un migliaio.

*

Il giorno successivo ci prepariamo ad affrontare il vero inizio della gita scolastica. Procediamo a piedi verso l'Acropoli, colpa di Sinistri che si è scordato l'esistenza della metropolitana. Sotto un cielo uggioso che minaccia pioggia, ci infiliamo tra le automobili e i motorini, formiche impazzite che portano una conferma: Atene non è rimasta intrappolata nell'età d'oro della letteratura. È sfrecciata nei secoli, si è evoluta, ingrigita con le case in calcestruzzo, con l'antracite sbiadito dei marciapiedi, con la fontana squadrata di piazza Omonia. Ma dietro quei blocchi di cemento e le vetrine dei negozi, spuntano scorci di un passato glorioso: il resto di un porticato in un ritaglio di verde; un arco di trionfo ai margini della strada; e poi lei, l'Acropoli. Rampe di scale si arrotolano sul pendio, un sentiero che si snoda tra le macerie fino alla spianata del Partenone.

«I turisti sono peggio dei piccioni» sbotta Battisti. «Guardateli come spintonano pur di vedere quattro sassi che stanno in piedi per miracolo.»

«Professore, non è quello che stiamo facendo anche noi?» gli chiede Stefano. Con Sinistri alla ricerca dei biglietti, siamo ancora intrappolati nell'ultimo gradino della modernità, uno scalino prima di tuffarci nel passato.

«Ho sentito una mosca ronzarmi nell'orecchio» esclama il professore. «Ma per fortuna non ho portato un branco di capre in Grecia. Sinistri! Io vado a farmi un giro. Pensa tu al gregge.»

Sinistri, una montagna di biglietti e i conti che non tornano, non replica, preso ad assicurarsi che la signorina del botteghino non l'abbia truffato.

«Ma ci pensi?» chiedo a Marco. Abbiamo finalmente iniziato la scalata. I turisti giapponesi scattano foto, i flash illuminano i resti della cavea, Teatro di Dioniso. «Non ti sembra incredibile? Lo abbiamo studiato per anni sui libri e adesso è davanti a noi. Non fa uno strano effetto...»

«Nanà, hai visto che figa la maglietta di quello? Ha le scritte in greco e dice che grazie si dice tipo "Efharistò".»

Perché spreco ancora il mio tempo con lui? Abbiamo di fronte un'immensità di storia e letteratura. Abbiamo la prova concreta che i nostri studi non sono leggende e miti. A tutti quelli che mi dicevano "fai il classico, ma il greco non serve a niente", potrei dire che nessuno può sentire meglio di me le radici della cultura.

«Nanà, hai sentito? Teatro di Dioniso! E Dioniso è il dio del vino. Bisogna brindare, trovami dell'alcol!»

I resti del teatro ci guardano.

Marco oltrepassa una fune issata a due paletti come forma di protezione e atterra nel riquadro di una colonna.

«La tua Acropoli è una noia mortale, Nanà. Bel paesaggio, d'accordo; bella visuale della metropoli; bella idea di fare le colonne, però al terzo capitello che due...»

«Sei uno zuccone e un insensibile!»

Uno spintone a lui che uccide il sogno di visitare l'Acropoli dal primo giorno della quarta ginnasio. Ho studiato a memoria quelle colonne bianche che ritiene una rottura, nonché una perdita di tempo.

«Nanà, aspetta, dai! Ma te la sei presa? Non correre via!»

Scatta gradino dopo gradino. Si intrufola negli scatti dei giapponesi e di Anatolia. I turisti apprezzano la sua vitalità e lo fanno diventare il protagonista delle loro foto. È buffo quel ragazzo italiano con i Rayban nei ricci d'oro, la maglia azzurra sporca di caffè e i pantaloni beige impolverati. Anatolia apprezza solo il momento in cui inciampa su un gradino e ruzzola a terra.

Dieci passi più in alto, interrompo la scalata. Lo studio mentre un raggio di sole trafora il manto di nubi e lo illumina. È incredibilmente stupido e più cresciamo, meno mi capisce. È il mio lato infantile, il bambino che si agguanta all'orlo della camicetta a fiori e, appena muovo il passo verso un pensiero adulto, mi impedisce di diventare donna.

«La rubiamo una colonna greca per Biagio, Nanà?»

Prova a vedere come sarebbe togliere il filtro di Marco dalla tua macchina fotografica, Nina. Ma quando la carta lucida viene sviluppata, la trovo datata, uno scatto come mille, senza una scintilla di entusiasmo.

«Ne hai già scelta una?» gli chiedo, ferma sul mio gradino, la schiena volta alla punta dell'Acropoli. «La colonna per Biagio. L'hai già scelta?»

Il viso di Marco si illumina di un sorriso. Ecco la foto sviluppata, ecco i colori che cancellano il nero, le persone prima immobili che prendono vita e diventano esseri di carne e ossa.

«Lo vedi, Nanà, che nemmeno tu sai essere seria?»

I pensieri filosofici li terrò per me, un segreto che mi accompagnerà, mentre cementerò un altro strato del nostro edificio. Così sfrecciamo per i gradini dell'Acropoli e troviamo la nostra colonna, dopo essere scivolati sotto una fune, tra le urla di una guida greca.

«E ora che facciamo?» gli chiedo. «Come pensi che la porteremo da Biagio?»

Marco ride di me:

«Nanà, e poi chi sarebbe il pazzo dei due? Ovviamente non possiamo davvero rubare una colonna e riportarcela a Viacampo! Dai, braccia sotto quel pezzo di capitello che Anatolia ci fa la foto per Biagio!»

Una foto. Tutta questa fatica per una foto. Lo sapevo benissimo di non poter rubare una colonna intera, ma speravo di poter prendere almeno un sassolino, un pezzettino di capitello, un fregio decorato da cornici greche. Anatolia scatta e via, prima che la guida ci intercetti con una ramanzina. Finché non arriviamo in cima all'Acropoli, una grande pianura di templi. Nuvoloni neri galoppano nel cielo. È metà aprile, fa caldo e sembrano volerci rinfrescare con una doccia di pioggia.

«D'accordo» commenta Marco, il fiato rapito dai polmoni. «Niente pensieri seri e filosofici, ma ammetto che queste quattro colonne hanno un loro perché.»

Il cielo sempre più nero, pochi raggi di sole che illuminano ora il tempio dell'Eretteo, ora la loggia delle Cariatidi, ora i gradini dei Propilei. La modernità non ha risparmiato nemmeno il Partenone. Sostegni di metallo rovinano la facciata, testimoniano che il tempio della dea Atena è in fase di ristrutturazione.

«Nanà! Una foto stupida prima che piova. Che facciamo?»

«Che ne so? Sei tu quello stupido!»

«Sì, ma tu quella colta. Ci serve qualcosa di unico, una posa da Greci, da eroi o atleti, o insomma, hai capito? Tipo quel tizio che era piegato sul fianco con il braccio indietro e una palla in mano.»

«Il Discobolo di Mirone.» Verifica di storia dell'arte, primo anno. Il Discobolo, atleta immortalato nell'attimo che precede il lancio del disco, altro che palla.

«Allora devi metterti così, Marco.»

Inizio a manovrare il suo corpo, quasi fosse un Pinocchio fin troppo ubbidiente. Lo stringo per le spalle per flettere il bacino sul fianco, poggiare il braccio sul ginocchio, alzare la spalla opposta.

«Aspetta il braccio va più in su. Il ginocchio così.»

E intanto sfioro la carne nuda per costringerlo a mettersi in una posa più simile alla statua. Passo alla schiena e a sistemare le spalle. Marco scoppia in una risata che preannuncia una presa in giro:

«Nanà, se mi tocchi ancora un po', quei giapponesi crederanno che stiamo per girare un porno».

Le spalle di Marco sono lastre infuocate che ustionano i palmi. Li ritraggo di scatto, aspettando di trovare la pelle rialzata in bolle e vesciche. E anche il viso deve essere marchiato dalla scottatura, perché le guance sono incandescenti.

«Sei uno stupido, sai? E uno zuccone!»

Come se la godono i turisti giapponesi e che vergogna! Ho toccato Marco così tante volte che il contatto fisico tra i nostri corpi è naturale, e allora perché quella battuta davanti a tutti? Sinistri, Anatolia, Nicola, Stefano. Stefano soprattutto!

Mi piego nella posa del Discobolo. «Arrangiati, Marco!»

«Nanà, ma guarda che scherzavo, a me piace quando mi tocc-»

«Zitto! Sarai un Discobolo imperfetto!»

Non vedo l'ora che finisca questa umiliazione. Sembra che tutti i turisti dell'Acropoli stiano rinunciando a fotografare il Partenone, per guardarci.

«Anatolia, dai, scatta!»

Anatolia preme il tasto e io sono veloce a raddrizzarmi. Forse troppo, la foto potrebbe essere sfocata, ma non importa. Partenone visto, Partenone fotografato, tutti felici e possiamo andare a mangiare, ma appena la suola delle All Star scivola sul sentiero in pendenza, due braccia mi intrappolano da dietro.

«Anatolia, aspetta!» Marco. «Ci fai un'altra foto?»

È un attimo, il lampo di un fulmine in un cielo che dichiara tempesta. Marco mi gira e mi trascina a sé, la testa piegata in un tuffo verso il mio viso. Pericoloso, pericolosissimo, allarme rosso. Le labbra sulla mia pelle, metà sull'angolo sinistro della bocca, metà sulla guancia. E non so quale fosse il vero obiettivo dell'assalto – un bacio di passione o un bacio d'affetto? –, ma la mira di Marco è in entrambi i casi terribile.

«Wow» commenta Anatolia.

La luce del flash mi ha abbagliata, ha catturato i miei occhi dilatati dallo stupore, quelli di Marco chiusi. Ma una foto non è che una riproduzione imperfetta della realtà. Se uno sconosciuto vedesse il rollino sviluppato, penserebbe che io e Marco siamo una coppia. E non saprebbe dell'esistenza di Stefano, il Drum ancora intero scivolato a terra, né di Celeste, all'oscuro di questo attimo.

«Credo che a Celeste piacerà da pazzi questa foto, sapete?» ridacchia Anatolia, mentre inizia la discesa dell'Acropoli. «E a te, Nisi? A te piace?»

Se gli sguardi potessero parlare, quello di Stefano direbbe: "Taci, vecchia bisbetica".

«Stefano Nisi è stato avvertito» canticchia lei. Ci stiamo infilando per le vie della Plaka, in cerca di una taverna dove mangiare. «Tra i membri del binomio non si mette il dito.»

Pranziamo in un locale che dà su una stradicciola secondaria di Odos Adrianou. Quando torna il sereno, ci godiamo il pomeriggio libero tra le vie del quartiere. Ci infiliamo tra i muri bianchi, lontani dal traffico della metropoli, osserviamo i negozi di chincaglierie, compriamo un narghilè, ci perdiamo nelle botteghe di henné, nei negozietti che profumano di incensi.

«Facciamo una foto anche noi?» chiedo a Stefano. «Mi piacerebbe avere un nostro ricordo.»

Stefano mi studia in cerca dell'inganno e guarda Marco, aspettandosi che si frapponga tra i nostri corpi. Alla fine, un sorriso gli increspa il viso.

«Sicura, Nina?» Si sistema lo zaino in spalla, Anatolia pronta allo scatto, un ulteriore capitolo del libro "Amori e ripicche in Grecia". «Se vuoi fare una foto con me, guarda che rischi.»

Mi sono persa qualcosa.

«Rischio che cosa?» gli chiedo con un coraggio timido che si finge grande. Il ghigno di Stefano si ingigantisce e lui, con la carnagione scura, l'orecchino a noce di cocco e il pacchetto di Drum che fuoriesce dalla tasca, mi sembra uno zingaro troppo furbo per un'innocente fanciulla come me.

«Rischi che ti baci sul serio.»

Ho ancora una risata bloccata sulle labbra, quando la bocca di Stefano si unisce alla mia. Non un bacio a stampo, ma completo, con la lingua che accarezza l'arcata dei denti e si diverte a intrecciarsi e a scappare dalla mia. Anatolia scatta la foto e il bacio si fa totale, fino a cancellare le taverne, i negozi, Anatolia, Marco. No. Marco, no. Marco è sempre lì. È lì, perché il bacio con Stefano non è lo sfogo di un sentimento d'amore, ma una sfida. Questo è un vero bacio, Nina. Sembra dirmi. Perché il bacio con Marco non lo era. Un bacio con Marco non sarà mai reale. 

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