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Come Eco, grido (III)

Non ne parliamo più. La sua fuga, la lite, Nomi, il futuro. Non ha senso portare alla luce gli argomenti che ci fanno male. La decisione è stata presa e non bisogna avere rimpianti: no a Nomi, sì a Bologna. Se anche l'intero corpo docenti di Viacampo dovesse supplicarmi di ripensarci, il gioco non varrebbe la candela: non posso rompere il binomio.

Passa una settimana e Marco mi studia pensieroso. Lo colgo in fragrante a più riprese, ma il buon senso impedisce di indagare. Sul poggiolo di casa Zuccato tracanno un Daiquri al lampone. La granella di ghiaccio, gustata in un sorso, congela il cervello con una fitta.

«Mi aiuti a studiare medicina, domani?» mi chiede Marco.

«Ti aiuto a studiare letteratura!» lo correggo io. Appoggio il bicchiere sul tavolo di plastica, accanto allo zampirone che mamma Rita ha acceso per allontanare zanzare e pappataci.

«Nanà, ma letteratura è una palla. A che mi serve sapere che si fumavano Dante e Leopardi per superare il test di ingresso?» Letteratura rientra in cultura generale e cultura generale, da sempre, è richiesta a ogni test di ammissione.

«Scusa un po', zuccone, ma chi tra di noi è il migliore a scuola?»

Sono usciti i risultati di maturità e il cartellone d'istituto ha sfoggiato i miei 99/100, una beffa del destino, un ammonimento per i posteri: "Mai addossarsi la colpa per verifiche non rubate nell'anno della maturità".

«Fisica dovresti ripassarla con Celeste» aggiungo. «Le è sempre piaciuta quella materia! La cocca di Battisti.»

Pronuncio il nome della nostra amica per gettare l'amo dell'indagine. Dopo quell'accenno a un "non la amo", Marco non ha più nominato la sua ragazza e nell'ultima settimana non si sono incontrati nemmeno per un tè alla pesca.

«Sai che anche Celeste vuole provare medicina?» mi chiede Marco.

Non abbocca all'amo del pettegolezzo, ma al contrario butta in lago una nuova esca. Quel pezzettino di pane attaccato all'uncino sembra davvero delizioso al primo morso, nocivo a un secondo assaggio.

«Medicina?» gli chiedo. Per la sorpresa tiro una pedata allo zampirone, pezzi di cenere e carboncino che cadono sul tavolo e lo macchiano di nero. «E come farà a reggere?»

Gli esami per Celeste sono stati un disastro, tanto che perfino Marco e i suoi 78/100 sono riusciti a batterla. Da parte mia so benissimo che il fallimento alla maturità non corrisponde al fallimento nella vita, però...

«Guarda che Celeste è sveglia» mi dice Marco.

«Non sto dicendo che non lo sia.» Un nuovo sorso al Daiquiri al lampone. «Dico solo che non ha più voluto vedere Biagio perché le fa impressione. Mica potrà rifiutarsi di entrare in una sala operatoria quando sarà il momento!»

Con la cannuccia premuta sul fondo del bicchiere, Marco imita un'aspirapolvere con il sacchetto per lo sporco pieno. Se dovessi rispondere al suo posto, replicherei che Biagio è un nostro amico. Nemmeno i medici riuscirebbero a mantenere la lucidità, se dovessero curare i propri cari. Poi però mi ricordo che Celeste sviene quando vede il sangue...

«Credo faccia medicina per restare con me» commenta Marco.

Non serve essere Einstein per arrivare a questa conclusione! Certo, io non sono nessuno per esprimere un giudizio su Celeste. Non ho forse rinunciato a Nomi, pur di stare con Marco?

«Non ci pensiamo» conclude lui. «Spetta a lei decidere.»

I giorni successivi sono un'alternanza di divertimento e studio. La mattina al lago con il libro dei quiz e un mazzo di carte per svagarci. Il pomeriggio, dopo i tuffi dalla Casa Rossa, da Marco, attaccati al ventilatore o sdraiati sulle piastrelle per rubare al pavimento un brivido di fresco, le sere in spiaggia. Il padre di Pietro ha rilevato un chiosco che fa grigliate e ci invita per l'inaugurazione. Non manca nessuno all'appello.

«Dici che dovrei dire a Celeste di non fare medicina?» mi chiede Marco. Lei lo sta aspettando su una panchina con il piatto di plastica colmo di braciole.

«Direi che dovresti lasciarle fare quel che vuole!»

«Ma è sbagliato fare medicina solo perché vuole restare con me!»

L'accusa è un pizzicotto. È sbagliato che Celeste faccia medicina perché non vuole perdere Marco. Ed è giusto che io rinunci a Nomi per restare con lui?

«Ascolta, Marco.» Da lontano Yuri sventola una bottiglia nella nostra direzione. «Credo non importi il motivo dietro alla scelta. Celeste ti è sembrata sicura della sua decisione?»

Lui bofonchia un sì, sta studiando notte e giorno, per la paura di restare indietro. Quindi sì, direbbe di sì.

«E allora lascia che faccia di testa sua e vedrai che non si pentirà.»

Il telefono suona, una chiamata. Non faccio in tempo a rispondere che scatta la segreteria. Subito il simbolo della cornetta ricompare sul display, una nuova telefonata in entrata.

«È mio padre» dico a Marco.

Strano, non chiama mai, nemmeno quando faccio le tre di notte e barcollo a casa mezza ubriaca, giocando a tennis con scarpe e borsetta e stonando Quindici uomini sulla cassa del morto stile vecchio lupo di mare alticcio. In genere è mia madre l'addetta alle ramanzine.

«Pronto, papà, dimmi.»

Dall'altro lato della cornetta, due sillabe gracchianti si informano sulla mia posizione.

«Sì, al lago con Marco. Sì, torno presto, ma non devi aspettarmi alzato se sei...»

Indaga sul preciso orario di rientro. Mi sento un aereo uscito per errore dal campo del radar e ora la torre di controllo si sta impegnando a fornirmi le giuste coordinate. Non essendo però un velivolo, è davvero importante sapere se rientrerò a mezzanotte oppure all'una?

«D'accordo, torno tra un'oretta. Se proprio mi devi parlare.»

Da quando tra i piani di mio padre rientra sabotare una festa e costringere l'unica figlia a rincasare alle nove? Ho un'ora di libertà, ma il dubbio assilla la mente, stila liste di possibili drammi.

«Io vado a casa» dico a Marco.

E così riduco l'ora di libertà a cinque minuti. Marco, ipnotizzato dalla bottiglietta che Yuri sventola a distanza di dieci metri, rompe l'incanto e mi fissa. Un pizzico di smarrimento gli copre la punta del naso, si mescola alle lentiggini che il sole ha scurito.

«Vuoi che venga con te? Credi sia successo qualcosa?»

No.

«Ho solo un padre tremendamente invidioso della mia giovinezza e della bella vita da ex liceali!» rido per smorzare l'atmosfera.

Quando arrivo a casa, lo trovo seduto in cucina davanti a una replica di Superquark e a una tazza di caffè freddo.

«Sei tornata presto!» commenta, senza staccare lo sguardo da Piero Angela.

«Mi hai messo paura.»

Ora che ho rinunciato a un piatto di braciole e a un paio di birre gratis, potrebbe almeno spegnere la televisione. Mio padre, invece, resta inebetito a guardare una riproduzione della Battaglia di Canne.

«Papà, non avevi fretta di parlarmi?»

"Parlarmi" è il verbo che resetta la mente, cancella il documentario e lo fa tornare ai buoni propositi. Schiaccia il tasto rosso sul telecomando e la farfalla scurisce lo schermo del televisore.

«Ho visto Massimo oggi» mi dice.

Usa il tono da "previsto bel tempo per tutta l'estate", ma sono troppo grande per lasciarmi fuorviare dalla casualità del discorso. Massimo è il suo ex migliore amico e uno dei pochi nomi che se pronunciati producono sguardi capaci di radere al suolo una metropoli.

«Mi ha detto che farai Lettere a Bologna» riprende a dire. «E ne è felice perché così terrai sotto controllo Marco. Così mi chiedevo, perché non hai scelto Nomi?»

È davvero per questo che ha boicottato l'inaugurazione del chiosco? Rintontita dalla piega della conversazione, appoggio la pochette sul tavolo e mi sistemo sulla sedia.

«Beh sì» ammetto. «Ho scelto Bologna, ma solo perché non sono pronta per un cambiamento troppo grande.»

Mio padre inarca un sopracciglio. Deve credere che assieme alla birra abbia trangugiato un farmaco che avvelena la logica. E in effetti, pronunciata ad alta voce, la mia confessione sembra un controsenso.

«Che assurdità» sbotta. «Bologna dista più di 300 km da casa, Nomi solo 50. E allora come può Bologna essere il cambiamento minore?»

Il cambiamento non è la distanza che mi separa da casa, ma i chilometri che mi terrebbero lontana da Marco, quell'autostrada fatta di caselli, cartelli verdi e automobili che percorrerei ogni giorno pur di vederlo.

«Ascolta, papà.» Lo prego in silenzio di seguire il cuore e non la ragione. «Tu e la mamma avete o non avete sempre detto che la vita è mia, scelgo io, responsabilità e conseguenze sempre mie?»

Lui salta sulla sedia e sbatte i gomiti sul tavolo. Un nervo che parte dalla gola si ispessisce fino alla tempia. Proprio io che non ascolto mai i consigli, mi sono ricordata del discorsetto "La vita è tua, Nina".

«È vero la vita è tua» mi concede. «Ma solo se agisci seguendo la ragione e non il cuore.»

«Perché il cuore vale meno del cervello?» Il mio tono si fa duro. «Da quando si usa dare un prezzo ai nostri organi? Se il cervello è cento e il cuore novanta, quanto valgono i reni e i polmoni e il fegato?»

Mio padre scuote la testa. I capelli brizzolati ondeggiano nel chiuso della cucina, mi accusano di non essere lucida, ma è questo discorso che si sta costruendo da solo, mattone per mattone, a risultare assurdo.

«Quando parli del futuro, non puoi pensare con il cuore, Nina.» Recupera dallo sgocciolatoio un bicchierino pulito e si versa due dita di grappa. «Nomi è un'ottima università. Le tasse sono molto più basse rispetto a Bologna e potresti andare a stare nell'appartamento di un ex collega. Mi fa un prezzo di favore.»

Adesso sono io a scattare in piedi, la sedia che sbatte contro l'anta del frigo chiuso, la pochette che si incastra nello schienale e scivola a terra, le mani battute con violenza sul tavolo.

«Soldi?» La voce si fa stridula. «Stai davvero misurando l'importanza del mio futuro con i soldi?»

Il cuore non va bene, la ragione sì e i soldi ancora di più? Che ne è stato della principessa di papà che doveva inseguire i propri sogni e preoccuparsi di essere felice? Lui tossisce e si tira un pugno sul petto. Mi guarda di sbieco come se fossi troppo piccola per capire.

«La nostra situazione economica è cambiata, Nina, e dobbiamo tutti scendere a patti con questo cambiamento.»

La rivelazione è un getto d'acqua gelida in faccia.

«Cambiata? Perché? Che è successo?»

«Crollo del mercato edilizio.» Non mi dà il tempo di porre un'altra domanda e si lancia in un resoconto oggettivo, sintetico. «La ditta dove lavora tua madre è in crisi. Entro la fine del mese, metà dei dipendenti verranno mandati a casa. Siamo in tre, Nina, con bollette, spese, tasse, un unico stipendio e il tuo amore per la bella vita.»

Occhi bassi per la vergogna, mi risistemo sulla sedia, i pugni chiusi sulle ginocchia, stretti per la rabbia. Sono sbottata per un capriccio, saltata a conclusioni affrettate.

«Mi dispiace. La mamma non me l'ha detto.» La colpa non va nemmeno a lei. «Sono un'egoista, così presa da me stessa da non aver sospettato nulla.»

Non mi sono fatta mancare l'ombra di uno sfizio negli ultimi mesi, non le banconote da spendere in alcolici, non i vestiti nuovi, non i pasti consumati al bar o in pizzeria. Ho dissipato verdoni su verdoni, dimentica che i soldi non crescono sui rami degli alberi. Da un centesimo seppellito nella terra concimata non germoglia la pianta degli euro.

«Ora capisco» ammetto. Il discorso, la maschera malvagia e severa, il tono spazientito, il bicchierino di grappa buttato in gola. Ma anche se capisco, non posso cedere. «Sono grande, papà. Posso essere autonoma e indipendente. Troverò un lavoro e riuscirò a pagare le tasse universitarie e l'affitto da sola. A Bologna ci sarà Marco e se avrò bisogno di qualcosa...»

«Marco?»

Mio padre mi interrompe con una risata di stupore e scherno. Scrolla la testa e mi dà le spalle. Rubinetto aperto, lo scroscio d'acqua che scende nel lavabo, il bicchierino buttato sotto il getto.

«Quando morirono i nonni, ero sul lastrico. Sai che fu Massimo ad aiutarmi? Il primo mese. Poi la bella vita era diventata più importante di me.»

Marco non mi abbandonerebbe mai, non mi getterebbe come un vecchio motorino dalla marmitta bruciata e dal motore fuso.

«Marco non è così» lo strillo, di nuovo in piedi, gli occhi in quelli di mio padre, in una sfida di sguardi che non intendo perdere. «Marco è diverso da suo padre.»

È la parte migliore che mi compone e se mio padre non ha imparato a conoscerla in questi cinque anni, significa che non conosce nemmeno la sua unica figlia.

«Tutti sono così» replica lui, sempre più stanco. «Quando si affonda, si affonda da soli. Il resto del mondo si preoccupa troppo di restare a galla per porgerti una mano e salvarti.»

D'un tratto il suo viso si trasforma in quello del signor Iachemet e mi sembra di venire catapultata in un discorso del passato, un déjà-vu limpido. Tutti hanno lasciato Biagio. Tutti sono fuggiti, hanno smesso di chiamare, di volergli bene, e lui si è sentito sprofondare, proprio perché nessuno tendeva una mano per salvarlo.

La pensano uguale, i due padri di famiglia.

«Non è solo una questione di soldi, Nina. In questo momento, io e tua madre abbiamo bisogno di saperti vicina.»

"Ti prego, no" lo supplico. "Ti prego, non chiedermelo. Non farmi scegliere tra la mia famiglia e Marco. Mi sentirei spaccare a metà. Dimmi che sono libera di fare le mie scelte. Ho diciannove anni e voglio pensare solo a me stessa e al mio futuro."

Mio padre sorride con rammarico:

«Mi spiace, Nina. Ma dovrai restare con noi. Il più vicina possibile».

ANomi.

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