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Come Eco, grido (II)

Nel giardino di casa mia c'è uno stagno contornato da sassi in tufo e nontiscordardimé. Un tempo un pesce rosso abitava nei cunicoli di pietra adagiati sul fondale. Un giorno, di ritorno dal mare, trovai il laghetto vuoto, il pesce morto tra quei cunicoli che erano stati la sua dimora. Grazie al resoconto dei vicini, scoprii che una scossa di terremoto aveva creato una fessura nel cemento, dalla quale l'acqua era fuggita goccia dopo goccia.

Il mio corpo è come quello stagno. Sul fondo ha una crepa che rende impossibile trattenere la rabbia, la delusione, le lacrime. Quando arrivo a casa, sono un fascio di nervi e pensieri esausti. Abbandono Pink sul cavalletto della vespa e mi precipito al cancello. Attaccato alla casella delle lettere c'è un pacco regalo.

Marco.

La confezione è stata realizzata in una lotta contro il tempo e Marco oggi andava di fretta. Potrebbe essere un segnale di pace. Recupero il pacchetto e lo slego dalla cassetta postale. Sotto un arco di luci e ombre, proiettate sul porfido dall'intreccio del gelsomino, disfo la confezione.

«Mi spiace, Nin. Dalla faccia che fai, chissà che ti aspettavi?»

Alcuni fiori cadono nella scatola scoperta e sovrastano il cappello da gelataia al suo interno. Seduta sull'amaca, c'è Valentina, i ricci biondi sciolti al vento, liberi dalla coda alta che le piace portare per comodità.

«Il cappello da gelataia?» Stupida Nina, credevi davvero che Marco avesse cambiato idea? «Vale, perché hai messo in un pacco regalo il cappello da gelataia e lo hai legato al cancello di casa mia?»

Il berrettino bianco è lo stesso che le ho passato l'estate scorsa, quando mi sono licenziata per fuggire da Viacampo.

«Non vorrai propormi di lavorare con te?» le domando.

Apro il cancello e la raggiungo. Valentina è persa in un sogno ad occhi aperti e non si accorge del taglio sul gomito, dei pantaloni sporchi di copertone o del trucco che per un'alleanza di caldo e pianto è colato nel viola delle occhiaie.

«Guarda che non è un regalo. Te lo sto restituendo e basta.»

«Che hai combinato per farti cacciare?»

«Non sono stata licenziata!»

Sfilo le ballerine e mi accomodo sull'amaca accanto a lei. Ora siamo in due a spingere a piedi scalzi quella finta altalena di tela rosa. Valentina tiene lo sguardo sulla siepe di tasso e sui rami da potare dell'agrifoglio.

«Noi non siamo il binomio, Nin.»

«Per fortuna!»

Lascio cadere la testa all'indietro, a penzoloni nel vuoto, i capelli che sfiorano l'erba. L'amicizia con Valentina è perfetta, proprio perché semplice e rilassante.

«Però, anche se non abbiamo un potentissimo rapporto che logora da dentro, alla nostra maniera funzioniamo» riprende a dire lei.

«E come potrebbe essere altrimenti?»

Ancora con la testa nel vuoto, lascio che i ricordi della nostra amicizia mi scaldino, versino acqua bollente nello stagno del corpo, cuociano ogni triste sentimento.

«Sono l'unica che ha abbastanza palle da sopportare le tue paranoie, i piagnistei e il binomio» mi dice Valentina. «Soprattutto il binomio!»

Lo precisa perché i piccoli dissapori che hanno inacidito la nostra amicizia gravitano proprio attorno al binomio. Valentina non lo ha mai tollerato, però lo ha accettato, perché sapeva che non potevo vivere senza, e ora Marco...

«Aveva ragione mio padre, Nin.»

Ora Marco non c'entra niente. Questo è un capitolo intitolato "Valentina" e scrivere di Marco significa andare fuori tema, prendere insufficiente. A Valentina glielo devo, di parlare dei suoi problemi.

«Tuo padre ha ragione su che cosa?»

«Non mi accontento di passare la vita a impilare palline su un cono, né di spiegare ai bambini che il gusto Puffo li trasformerà in Umpa Lumpa e il Big Bubble li farà soffrire di iperglicemia.»

Lo sapevo. Deve aver fatto qualcosa per farsi licenziare. Guerra a cucchiaiate con un lattante, minacce di morte a un adolescente o campagna pro-salute ai danni della gelateria?

«Non mi ci sono mai vista lontana da Viacampo» mi dice. «Non da sola per lo meno. Insomma, non voglio dire che Valentina Santoni non sappia imporsi nella metropoli, però mi spiaceva piantarti qui con i tuoi mille problemi esistenziali. Ora hai finito il liceo e le cose cambiano.»

Piantarmi qui con i miei mille problemi esistenziali. L'anno prossimo lascerò Viacampo per l'università e Valentina non verrà più sfruttata come una comoda spalla su cui versare fiumi di lacrime un giorno sì e l'altro pure.

«Nin, ti rendi conto che a Viacampo puoi assistere a sceneggiate da Oscar senza spendere i soldi per il cinema?»

Il binomio è la sceneggiata da Oscar di cui parla Valentina, lei che ha sempre assistito alle nostre peripezie dalla prima fila, senza spendere un centesimo per farsi quattro risate o due pianti.

«Vale, non ti seguo.» Invece sì, ma non voglio illudermi. «Stai forse pensando di...»

«L'università, sì, economia» rivela, una punta di orgoglio e autostima nella voce.

Di colpo mi tiro seduta, con gli occhi che luccicano e le labbra che oscillano dalla commozione. L'immagine di quel puzzle è un quadro che attrae più della Notte Stellata di Van Gogh e dei Papaveri di Monet. In mezzo a una nuova città, a nuove avventure, a un appartamento tutto nostro, a pile di padelle da lavare e vestiti disordinati buttati sul divano, ci siamo Valentina ed io. E insieme a noi Marco che si lamenta perché parliamo di cose da donna.

«Allora, Nin, dove andiamo io, te e il binomio?»

Dove potremmo restare tutti insieme, io, Valentina, Marco, Stefano.

«Bologna!» grido.

«Nina! Giù! Troppo contatto, ferma!»

Ma le suppliche della mia migliore amica non servono a bloccarmi. Mi sono buttata sopra di lei e ora la spettino, la stringo forte forte per non farla scappare via, perché con Valentina pronta a sostenermi posso smontare e rimontare il mondo intero, tirare uno schiaffo a Marco, convincerlo a darci una possibilità.

«Oh cielo» bofonchia Valentina. Un sospiro le scuote le spalle. «Sono ingenuamente capitata in uno di quei momenti dramma che vi inventate per rendere il binomio meno noioso e mantenere alto il livello d'ascolto dell'intera Viacampo?»

Valentina si svincola dall'abbraccio e spinge il mento in avanti, indica la figura di un giovane uomo, nascosta tra i ricci di gelsomino avviluppati alle griglie di ferro. Oltre i petali bianchi scorgo l'azzurro di Floyd.

«Ti chiamo dopo» sussurra Valentina.

Cerco la sua mano per fermarla, per chiederle di restare al mio fianco, ma Valentina si è già infilata le Birkenstock ed è fuggita in strada. Non sono pronta. Proprio io che mezz'ora prima mi sarei incatenata a Floyd pur di fermarlo, tremo nelle spalle. E non voglio che in quello stagno, colmo di felicità, si formi una nuova crepa.

Marco prende grandi respiri e ha gli occhi rossi. Martoria l'orlo della camicia, tagliando con le unghie una cucitura e giocando a disfare la bordatura.

«Ti sei calmato o sei ancora in vena di sceneggiate?»

Un giro di filo attorno alla prima falange dell'indice. Ora che mi guarda, leggo nei suoi occhi scuse silenziose, il panico di aver parlato senza riflettere.

«Non ci capisco più niente» mi dice.

Se non fossimo Marco Zuccato e Nina Adami, gli tirerei contro il casco della vespa e cancellerei il numero dalla rubrica del cellulare. Mi ha cacciata, rifiutata, spinta a terra, quasi investita. Ma a che serve giocare alla partita dei "se", quando lui sarà per sempre Marco Zuccato e io Nina Adami?

«Nanà, io non voglio che rinunci ai tuoi sogni per me.» Schiaccia la bocca con la mano e impedisce a un sospiro tremulo di prendere suono. «Però sono qui che ti prego e ti supplico in ginocchio di farlo. Io non sono pronto a lasciarti...»

Le mie labbra lo zittiscono. Un bacio casto e puro, due bocche appoggiate in uno stampo appena sfiorato. Il contatto è secco, il suo respiro mozzato. E anch'io, alzata sulle punte e issata alle sue spalle, mi trovo a corto di fiato.

«Felici e insperabili» sussurro. I piedi mi hanno riadagiata a terra, sulle labbra un soffio di vento al posto della sua bocca. «Lo hai detto tu, ricordi? Lo hai detto quand'eravamo, qui. Proprio qui.»

Indico l'amaca, una conca al centro lasciata dal corpo di Valentina. Marco si concede un grande respiro e io lo guido verso quel brandello di tela scolorito dal sole, per ricordargli che non fa niente.

«Non volevo» mi dice. «Mi dispiace. Non so che mi è preso. È stato tutto così improvviso. Ho pensato al nostro futuro e ci ho visti divisi e non riuscivo più a calmarmi e a riflettere.»

«Non fa niente. Non devi avere paura.»

Marco apre le braccia per accogliermi e mi ritrovo acciambellata al suo petto, l'olfatto pieno dell'odore di benzina e olio. Ha sporcato la camicia da esame di macchie nere e unte. Deve aver controllato i livelli di Floyd, un'attività che lo rilassa, quando i pensieri diventano preoccupazioni.

«Mi perdoni, Nanà? Sono un inguaribile egoista. Mi perdoni per averti imprigionata?»

Nascondo un sorriso contro la sua camicia.

«No» gli rispondo. E poi un bacio sulla guancia. «Ti ringrazio per averlo fatto.»

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