Come Eco, grido (I)
Premessa: oggi, anziché le classiche note d'autrice, vi tedierò con questa premessa. Ho già lanciato un annuncio, ma ho pensato di spendere due parole anche qui. A breve, entro domani, pubblicherò tutti i capitoli restanti di questa storia (volume 2). So che è una pazzia e non pretendo assolutamente che ve li sorbiate tutti insieme. Non pretendo nemmeno che li leggiate, li ritengo i peggiori, però Binomio 2 stava diventando un peso e ho sentito proprio la necessità di liberarmene in tempi brevi.
Vi ringrazio anticipatamente per l'aiuto refusi, parole mancanti e cose simili. So che avrei dovuto rileggere tutto almeno una volta, e mi spiace propinarvi dei capitoli pieni zeppi di errori. Avendo manie di perfezionismo, mi costa non avere il controllo su quello che sto pubblicando, ma come si suol dire... "ora o mai più".
Grazie ancora a tutte le anime buone che hanno affrontato con coraggio la missione Binomio! Sopravvivere a questa telenovela è sempre un'impresa eroica e quindi, per chi vorrà finire il volume numero 2, che la forza sia con voi!
Ne approfitto per augurarvi Buone Feste,
Odiblue <3
Nei tempi antichi in cui satiri e centauri abitavano grotte e foreste, una ninfa di nome Eco si innamorò di un ragazzo chiamato Narciso. Quando lui morì, la fanciulla lo cercò in capo al mondo, gridando a pieni polmoni e consumandosi fino a rimanere solo voce. Quell'urlo straziante echeggia da millenni tra monti e vallate, si perde nel silenzio. Così, nella mia testa, rimbombano i suoni dell'ultimo quarto d'ora: il tonfo dei libri, il calpestio delle scarpe, lo sbattere della porta.
Come Eco, anch'io grido.
Marco ha lasciato l'aula e io, dimentica della buona educazione, l'ho seguito senza salutare la commissione, ringraziare il presidente, degnare di un cenno Yuri e Nicola. Perché abbandonarmi in Aula Magna e trafiggermi con il gelo di una fuga? In sella a Pink guido alla rinfusa per Viacampo, nella speranza che la vespa possa ritrovare Floyd, riuscire dove io fallisco.
"Puoi richiamarmi?" Messaggio in segreteria. "Ma perché devi reagire peggio di una primadonna e fare i melodrammi alla Valentina? Ho parlato a caso per zittire Battisti. Non sapevo che a Nomi non ci fosse medicina. Dimmi tu dove vuoi andare. Rinuncio."
Rinuncio. Basterebbe che Marco ascoltasse questa parola e i cocci tornerebbero a creare il vaso del binomio.
"Puoi richiamarmi?"
Un nuovo messaggio vocale. Un nuovo buco nell'acqua. È mattina e il sole rende le manopole della vespa incandescenti. La lancetta della benzina segna che sono a secco, Pink perde velocità e mi abbandona quando arrivo al cartello della zona pedonale.
E adesso come faccio a trovare Marco? Ordino ai piedi di non arrendersi. Non mi serve una vespa. Bastano le gambe, finché le ho, posso correre, girare in lungo e in largo, trovarlo.
Dove sei? Dove ti cerco?
Un viavai di uomini popola la piazza centrale e in ognuno di loro vedo Marco. Ma sono una menzogna. Nessuno di quegli uomini è lui.
Crollo su una panchina in riva al lago. Dopo Pink è il cellulare a tradirmi, batteria scarica. Come lo trovo adesso?
«Nina?»
Le pupille puntate sulle ballerine grigie e una voce che non riconosco, ma azzecca il mio nome. È un uomo alto, abbronzato, i capelli castani mossi e i pettorali ben scolpiti sotto una maglietta sportiva in lycra. Un atleta, con un sorriso provocante tra il naso appuntito e il mento coperto da una barbetta incolta.
«Sono Valter, non ti ricordi di me?»
Valter, l'allenatore di basket. Da cinque anni sono al corrente della sua esistenza, assisto alle partite, lo vedo esultare per una vittoria, rasserenare i suoi giocatori con un "pazienza" in caso di sconfitta. Cinque anni in cui non ci siamo mai parlati. Però mi conosce.
«Ho appena visto Marco e mi è sembrato fuori di sé...»
«Dove?»
Il nome di Marco genera l'ossigeno necessario per riprendere la corsa. Sono saltata in piedi, contro il petto dell'allenatore, le punte delle ballerine usate come trampoli per avvicinarmi alla sua altezza e confrontarlo occhi negli occhi.
«Anche tu mi sembri abbastanza fuori di te» constata. Indietreggia e io arpiono la maglietta in piccoli pugni.
«Dove?»
Uno scossone. Il contachilometri attaccato alla cinghia dei pantaloni trema, per la vibrazione rischia l'impatto con il lastricato di Viacampo.
«Alla fontana della Sirenetta» dice Valter. «Di fronte al tabacchino e alla biblioteca civica, vicino a quel simpatico chiosco dove fanno il gelato artigianale alla menta e...»
Mollo la presa. Fontana della Sirenetta. Sfreccio tra la folla e mi infilo nei viottoli di Viacampo. Devo fare in fretta, perché Marco ha Floyd, se ne frega della zona pedonale, ed è più veloce di me.
«Marco!» Il nome è un boccheggio, un grumo di saliva bollente tra le labbra. Un ultimo slancio per uscire dalla via. Eccola, la Sirenetta!
In mezzo a una pioggia di zampilli, una donna in pietra siede su uno scoglio. La Sirenetta, la chiamiamo a Viacampo, anche se non ha la coda di un pesce. Io però spero sia davvero una sirena, un prodigio con il dono di incantare grazie alla voce, e spero che adesso stia intrappolando Marco in una rete di melodie, costringendolo a non scappare prima del mio arrivo.
Dieci passi tra la folla che scroscia lungo la pendenza del terreno. Marco. L'ho trovato. Seduto a bordo fontana, il profilo proiettato dal sole di mezzogiorno su un negozio in marmo rosa, una sigaretta tra le labbra, un pacchetto di Marlboro stritolato dalla morsa della mano.
«Marco!»
Lui sussulta e preme sui palmi per scattare in piedi, adocchia Floyd parcheggiato accanto alla rastrelliera delle bici.
«Aspetta! Fermati!»
Un salto e mi butto contro di lui, entrambe le braccia attorcigliate al collo e la punta del naso premuta nell'incavo.
«Mi hai piantata in Aula Magna» boccheggio. «Perché non mi hai aspettata?»
Con una gomitata allo sterno Marco rompe il contatto. E quegli occhi sempre sereni, chiari quanto un cielo di maggio, mi puntano lanciando accuse. Più li tiene fissi nei miei, più le iridi sembrano scurirsi, fagocitare il nero delle pupille.
«Tu mi avresti aspettato?» mi chiede. Fa oscillare la sigaretta e la cenere cade sui jeans. I suoi occhi sono ormai il blu della notte; i miei diventano trasparenti, un velo d'acqua che lava ogni difesa.
«Ma certo che ti avrei aspettato, devi almeno lasciarmi spieg-»
«Da quanto macchini di nascosto per liberarti di me? Mi hai illuso, Nina. Mio padre ha fatto l'università a Bologna ed era logico volessi andare lì, e tu intanto pensavi a Nomi, senza dirmelo.»
«Stai esagerando.»
Lo guardo spostarsi i capelli incollati alle sopracciglia, ricci biondi inumiditi dal sudore e scaldati da una palla di sole che splende in cielo.
«Ridevi in silenzio, Nina? Ridevi senza che me ne accorgessi, quando ti consolavo e ti dicevo che saremo stati felici e inseparabili? Sapevi già che ci saremmo divisi?»
Perché dici così? Il suono non giunge alle sue orecchie. Sono tappate dalla rabbia, dalla delusione per la mia scelta universitaria. O forse sono io a non parlare.
Se solo mi lasciasse spiegare...
«Come hai potuto, Nina?»
... capirebbe che è un equivoco, che di Nomi non mi importa niente, che Lettere c'è anche a Bologna, che volevo andarci perché credevo lo desiderasse lui. Stiamo gonfiando una bolla di malintesi grande quanto la Terra, quando basterebbe un niente per scoppiarla.
«Come hai potuto, Nina? Dopo che ti ho detto che non è affetto, dopo che te l'ho confessato chiaramente?»
Il cuore perde un battito.
«Non c'è affetto?»
Marco ascolta quel filo di voce a occhi sbarrati. Non può dirmi che tra di noi non c'è affetto, che non mi vuole più bene, solo per una leggerezza.
«Non lo è mai stato» mi dice. «Quando avevo quattordici anni forse, ma solo perché ero troppo piccolo per dargli un altro nome. E tu invece...»
«Io che cosa?» Adesso urlo, perché Marco non può maltrattarmi per una svista. «Stai facendo un dramma per niente!»
Devo trovare il punto storto cucito nella tela di un errore, scioglierlo e ripartire da capo.
«Ascolta, non dici sempre che non mi devo preoccupare?» gli chiedo. «Non è la fine del mondo, rinuncio...»
«Non è la fine del mondo?» Marco balza sulle punte, si schiera davanti a me e la sua ombra è tanto grande da condannarmi al buio. «Non mi hai detto di Nomi!»
Ma l'ago che possiedo non è abbastanza appuntito da sciogliere quel punto sbagliato. Qualsiasi giustificazione cerchi di ricamare nella tela, Marco la storce, senza raddrizzare il tiro.
«Ti ho vista davanti alla commissione» strilla. «Tu splendevi e gridavi al mondo che stavi per arrivare. E un giorno troverai un papiro o una colonna o una tavoletta con una nuova tragedia greca e sei così brava che la tradurrai e la tua foto finirà sulle riviste di letteratura.»
Al "così brava" la voce di Marco perde ogni punta d'acidità, diventa un singhiozzo trattenuto, dolce.
«Tu diventerai qualcuno, Nina, e io non ci sarò.» Si morde le labbra. La sigaretta ancora intera scivola a terra, la scarpa da ginnastica la spegne. Marco inchioda lo sguardo sui brandelli di carta e tabacco. «Mi hai lasciato dietro le quinte e sei partita per prenderti la gloria.»
Si gira di novanta gradi. Il suo profilo ora è stagliato su di me, una piccola rotazione del corpo che preannuncia la fuga. Sta di nuovo scappando e io non posso permettermi di restare indietro.
«Come puoi dirlo?» gli domando. Lo fronteggio, entrambe le mani strette alla sua. «Mi conosci meglio di chiunque altro.»
Meglio di Valentina, meglio dei miei genitori, meglio perfino di me stessa.
«Da quando ti ho conosciuto sono incollata al tuo fianco.» Stringo la mano con tutta la forza che mi resta. «Vuoi stare dietro le quinte? Dietro le quinte ci resto anch'io. Non importa se non brillerò su una passerella in cerca di gloria. Perché non me ne farei niente della fama, se non avessi...»
«Smettila, Nina.»
Uno scossone per sciogliere il nodo di dita. Quando non mollo, Marco mi svincola con la mano libera e mi costringe a muovere un passo indietro. Di fronte alla brutalità della spinta, indietreggio, cado seduta sul bordo della fontana. Perché lo sta facendo?
«Spero che ti divertirai a Nomi.» C'è un sorriso sulle labbra. «E che diventerai una grande donna in carriera.»
Nel campo visivo trovo le sue spalle, la camicia azzurra appiccicata al corpo come una seconda pelle. Non sono io ad andarmene, è lui che sta rinunciando a me.
«Perché non mi ascolti?» gli strillo contro. «Rinuncio!»
Marco ormai è su Floyd, in sella, senza casco. La chiave girata, il cavalletto scattato. Agguanto il suo gomito, quando la prima nuvoletta di fumo esce dal tubo di scappamento.
«Non sapevo che a Nomi non ci fosse medicina e non mi hai mai detto di voler andare a Bologna» gli rispiego. «Parlavi di andare a vivere insieme e io credevo intendessi a Nomi. Ho rinunciato nello stesso istante in cui ho capito che ti avrei perso.»
Marco non mi guarda. Dà gas e spinge la ruota posteriore all'indietro per fare manovra. Veloce mi butto sulla carrozzeria azzurra, attaccata al faro spento e al manubrio di Floyd, le unghie conficcate nella gomma delle manopole. La ruota anteriore preme sui pantaloni, il segno dei copertoni sporca la stoffa.
«Devo aspettarti, Nina?» Non c'è più quel blu troppo scuro nei suoi occhi. «Ho detto a Celeste che non la amo e lei ha accettato di restare con me.»
Allento la presa dalle manopole. I pensieri scoppiano come rumorosissimi fuochi d'artificio e io, disorientata, cerco di dare una data a un fatto che ignoravo. Quand'è successo? Marco spinge la ruota di un ulteriore millimetro.
«Quindi adesso mi devi una risposta, Nina. Vuoi che ti aspetti?»
Schiudo le labbra. Dobbiamo ripercorrere all'indietro le caselle di una conversazione a senso unico. Le nostre pedine sono sul 50, ma ci siamo giunti con un balzo, senza confrontarci sui 49 numeri che lo precedono.
«Perché dovresti aspettarmi, quando sarò con te?»
Marco mi spinge a terra e se ne va. Mi ritrovo stesa sul lastricato di Viacampo, il gomito sbattuto sulla rastrelliera in ferro, sbucciato dalla collisione inattesa. Lo massaggio e un fiotto di sangue riscalda il palmo, macchia i pantaloni grigi già chiazzati dalla striscia del copertone. La proprietaria del negozio abbandona i clienti alla cassa e mi aiuta a tornare in piedi.
«Va tutto bene, signorina? Si è fatta male?»
Un piccolo "no" abbozzato con la testa.
«È sicura di stare bene?»
No. Ma nel mio corpo è tornata ad abitare la buona educazione e so che non bisogna farsi vedere deboli, approfittare della gentilezza altrui. Anche se quel "no" è una risposta sincera, la congedo con un "sì".
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