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Andare lontano (II)


Ivan se ne è andato la mattina dopo con uno dei suoi aneddoti: Seneca il filosofo riteneva dovere dell'uomo saggio cercare la felicità in sé stesso, non negli altri. È sbagliato confidare nella ricchezza, nel patrimonio, nei figli e nella famiglia. Un giorno un crollo del mercato potrebbe azzerare la ricchezza; oppure una confisca dei beni privarmi della casa e di tutti gli averi. Quanto ai figli e alla famiglia potrebbero morire in un incidente, per un terremoto, oppure in guerra.

Se la felicità è invece custodita saldamente nel proprio cuore, sarà possibile uscire dalla fossa di dolore in cui siamo piombati, e gradino dopo gradino arriverà il momento in cui si riprenderà la vita di tutti i giorni.

Seneca era un filosofo e il suo modo di pensare l'ho sempre trovato esagerato. Perché non credo esista uomo in grado di superare la morte di un proprio caro. In questi giorni ho però riflettuto sulle parole di Ivan, e ho valutato il nocciolo del discorso. L'ho ritenuto giusto. Le persone spesso, nelle nostre vite, non sono che comparse. Vanno e vengono, talvolta restano per un minuto. Succede che la loro uscita dal nostro mondo avvenga per un caso – così Sirio si era staccato dall'orbita di Biagio, per colpa di un trasloco –, mentre può accadere che derivi da una decisione personale. Volontaria.

Rientra in questa seconda categoria il mio allontanamento da Marco, anche se non posso parlare di una vera e propria "fuga".

Al nono giorno di ritiro spirituale, con il calare della sera, arrivo quindi a una conclusione. Devo sentirmi realizzata da sola. È il primo passo per accettare i cambiamenti nel binomio. È il primo passo per diventare, in futuro, felice. Ho pensato talmente tanto in questi giorni da sentir scricchiolare il cranio. E così, quando il cellulare suona e il nome di Ivan appare sul display, di nuovo lo chiamo "mio salvatore".

"Oggi Nicola mi ha chiesto se so dove sei" mi dice dopo i primi dieci minuti di discorsi filosofici. "Dovresti sentirti onorata, Nina. Perfino quell'asociale di mio fratello si è accorto della tua scomparsa."

La voce di Ivan è sensuale anche dall'altro lato del telefono.

"Mi fai sembrare una vip, Ivan."

"Per occupare i pensieri di mio fratello due giorni di fila devi esserlo" ribatte lui. "Preso come era a mettermi sotto torchio con le sue mille domande, si è perfino dimenticato di andare al corso serale di russo."

Nella mia mente ormai piena di precetti filosofici, fa capolino il volto serio e corrucciato di Nicola Ulivieri, attorniato da montagne innevate e grandi fiocchi che gli cadono sulla punta del naso. E in testa ha un berretto di pelo che lo fa sembrare un cosacco russo. E devo riconoscere che Nicola Ulivieri ha un merito: anche a distanza, anche non essendo presente, riesce a mettermi di buon umore e a strapparmi un sorriso.

Le parole successive di Ivan congelano però la mia improvvisa serenità.

"Comunque, Nina." La sua voce esita, piegata in una lieve inclinazione che rivela di avere fatto qualcosa di sbagliato. "Ho dovuto ammettere di sapere dove ti trovi."

E dopo la scomparsa della serenità, ecco che una vampa di terrore e angoscia riprende a torturarmi. Resto in silenzio e calibro le implicazioni di questo "tradimento".

"Nina, ci sei ancora?"

"Sì, scusa. Non importa se Nicola lo sa. Non ti preoccupare. Di lui mi fido. E poi non ti ho detto che..."

Passo tutta la sera a raccontargli di Valentina che mi bombarda di chiamate, di Stefano e Yuri che sono riusciti a procurarsi il mio numero di telefono, e di come la mia migliore amica, incapace di tenere "segreta un'informazione segreta", non potrebbe mai lavorare nella NASA o tentare di far carriera nella CIA.

Ivan ride, lieto di trovarmi di buon umore.

"Certo che a quella poveretta potresti mandarlo almeno un messaggio" mi dice al cinquantesimo minuto della telefonata. Spero solo abbia una promozione che regala le chiamate gratis, altrimenti, a breve, finirà in bancarotta.

"Lo so, lo so" ammetto. "Ma cosa credi? Gliene ho inviati due, e appena le sono arrivati, ha iniziato a riempirmi di telefonate. Se rispondessi al telefono, sarebbe la fine. Mi chiederebbe dove sono e a lei non saprei mentire. Non a Valentina. Per questo è stato meglio filarmela senza una parola."

Così dopo i classici saluti e la "buona notte", lasciamo cadere la linea. È una notte che, nonostante l'augurio di Ivan, non sarà buona. La camomilla ha sul mio organismo un effetto opposto e finisce per irritare i nervi, stimolare i pensieri. Il tranquillo clima di montagna, poi, mi riempie di un'angoscia alla quale non so dare nome. È il silenzio totale. Il buio di una strada di provincia che non conosce lampioni. La ninnananna di gufi e civette che rubano il sonno.

Quando all'alba il gallo saluta il mattino, realizzo di essermi addormentata, ma per un numero così limitato di minuti che non compongono nemmeno un'ora. Allora do inizio alla routine dei nove giorni precedenti.

Carico la moka del caffè, mi lavo la faccia con acqua di sorgente. Gelida. Solo quando le gocce pungenti entrano negli occhi, mi sveglio al cento per cento. E sono pronta a correre, a fare anche oggi il giro del laghetto che buca la vallata, con il fiatone che brucia nel petto e nella gola, il battito cardiaco a mille, la determinazione a non farmi vincere dalla stanchezza.

Devo solo infilarmi i pantaloncini corti e cercare le scarpe da ginnastica, ma non arrivo a trovare il completo sportivo che un rumore cancella la priorità. È il crepitio di una marmitta calda, lo stridio dei freni di un vecchio motorino. I copertoni scivolano sulla ghiaia del cortile, e piccoli sassi bianchi rimbalzano sulla carrozzeria, imitando il tictac di una scarica di pioggia su un vetro.

Il proprietario del misterioso motorino non si preoccupa degli eventuali danni alla vettura. Quel che segue è il tonfo del veicolo che, senza riguardo, viene sbattuto a terra. E poi ci sono i passi che rimbombano sulle scale in legno. Passi affrettati, ansiosi di arrivare alla meta. Il rumore del chiavistello, sfilato dall'aggancio sul cancelletto. Un attimo di silenzio, forse una boccata d'aria per riprendere fiato. E infine l'infrangersi di un pugno sulla porta. Un battere veloce, insistente.

Aprire o non aprire? Il cuore scalpita, preso dal dubbio. Vorrei chiudermi in questa prigione di legno e oggetti vecchi, fingere di non vedere, oltre il vetro opaco, la sagoma di un uomo dalle spalle larghe, abbastanza alto.

Poi però incombe la curiosità.

«Nina, vuoi aprire?»

E quando riconosco la voce non so se sentirmi delusa, o sollevata dalla sua identità.

«Nina, lo so che ci sei!»

I pugni si fanno più forti. Se non apro, romperanno il vetro della porta e a me toccherà curare con garze e pomata una mano tagliata. Questa consapevolezza non riesce però a smuovermi.

Un ultimo pugno fa vibrare l'asse di legno. Da quanto è forte immagino i cardini della porta spezzarsi in due. Senza prestare ascolto al cuore, che mi scongiura di restare asserragliata nella fortezza, apro.

Stefano tiene ancora la mano alzata in aria, pronto a tirare un nuovo pugno alla porta. Non sembra di buon umore. Ha la mascella tirata, i denti serrati al punto da non far entrare un soffio d'aria. E il pugno è talmente stretto su sé stesso che le nocche sono arrossate e le vene sul dorso sporgenti.

«Sei impazzita?» mi chiede. Severo. Arrabbiato. Senza preavviso supera con un passo la soglia e si invita nella dimora degli Ulivieri. «Ti è completamente andato di matto il cervello?»

Stefano studia l'ambiente che ci circonda. Le pareti verdi del corridoio, i quadri di cavalli e boschi contornati da grandi cornici color muschio, la cassa rossa traboccante di legna per il caminetto, la porta bianca che dà accesso alla cucina.

È proprio lì che si dirige, in falcate talmente ampie che ben si sposano alla rabbia che lo divora. I suoi occhi continuano a cercare un "qualcosa" che per me è un mistero.

«Dove è il frigo?» mi chiede.

«Nello stanzino di là» gli rispondo.

Stefano esce con uno sbuffo. Da quanto preme i talloni a terra, le assi del pavimento – vecchie – tremano. Interrompe la sua marcia davanti al bagno.

«La stanza dopo» gli do istruzioni più precise. Questa volta la trova, procedendo con la stessa verve di prima. Una vera macchina da guerra. Aperto lo sportello del frigo, deluso dal suo contenuto, si gira a guardarmi con occhi che sparano missili.

«Dove è la birra?»

«Non ne ho comprata» ammetto. Poi intravedo un cartone rossastro che potrebbe diventare la mia salvezza. «Se vuoi ho del succo d'arancia!»

Dubito che qualche goccia di frutta schiacciata possa soddisfarlo! Devo ricredermi quando la sua mano arpiona la confezione e sbatte lo sportello del frigo.

Stefano torna in cucina. Prende un bicchiere dallo sgocciolatoio e si mette a sedere a tavola. Si versa un bicchiere di succo e resta in silenzio. Io mi metto di fronte a lui e lo guardo, ma Stefano preferisce fissare il liquido arancione piuttosto che degnarmi della sua attenzione.

L'orologio è alle mie spalle e non so quanti minuti passiamo così, a guardarci e ignorarci. A me sembrano miliardi, un tempo infinito.

«Che cos'è successo?» mi chiede alla fine.

Deve ancora bere il succo d'arancia. I minuti di silenzio, però, sono serviti a spegnere l'ira, a stoppare i missili che i suoi occhi volevano lanciarmi addosso. Quando Stefano torna a guardarmi, in lui leggo il desiderio di capire.

«Non ce la facevo a restare a Viacampo» ammetto. «Avevo bisogno di cambiare aria, staccare la spina, restare da sola per schiarirmi le idee.»

«Avresti potuto avvisarmi» ribatte. «Bastava un sms. Mi sarei accontentato.»

Lo so, però...

«Non volevo metterti in una situazione difficile. Se Marco mi avesse cercata...»

«Ti ha cercata» mi interrompe. Lo dice come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Sta facendo il diavolo a quattro, continua a suonare i campanelli di mezza Viacampo per scoprire chi ti ha rapita e rinchiusa in cantina.»

Non c'è stato nessun rapimento e Marco dovrebbe saperlo. Soprattutto dopo aver preso la mia lettera.

«Ci farà bene stare distanti» dico più a me stessa che a Stefano.

Lui non mi chiede quale motivo mi abbia spinta ad andarmene. Resta a guardarmi, il succo di frutta dimenticato sopra la tovaglia a scacchi bianchi e rossi. Sembra valutare la situazione.

«Nina? Se una persona ti vuole trovare, ma veramente trovare, nel senso che per nove giorni non chiude occhio e non pensa ad altro, alla fine ti assicuro che ti trova.»

Davvero se Marco avesse voluto trovarmi, mi avrebbe trovata? Proprio come Stefano? O forse è solo per un fatto di intelligenza che Stefano è qui, mentre Marco si ostina a suonare i campanelli di mezza Viacampo?

«Non hai pensato a noi» mi rimprovera Stefano. «Alle persone che ti vogliono bene, a Biagio.»

Biagio. Crederà che me ne sia andata, come se ne è andato in passato Sirio, dopo le medie, e come se ne sono andati molti dei suoi finti amici, dopo l'aneurisma.

«Mi sono dimenticata. Come ho potuto dimenticarmi di avvisarlo?»

Stefano libera una mezza risata. Si decide a bere il succo di frutta, che ormai deve essere diventato caldo.

«Gli ho detto che sei dovuta partire per un corso di aggiornamento. Cose di lavoro.»

Questa volta sono io a scoppiare a ridere.

«Stefano! Io faccio la gelataia!» gli ricordo. Gli sono immensamente grata per aver coperto la mia fuga e risolto i miei malanni, però... «Che corsi di aggiornamento mi possono servire?»

Stefano si fa pensieroso. Porta il pollice sotto il mento e rimane in fase di riflessione.

«Studi sulla forza di gravità, applicata alle palline su cono, secondo la formula di Einstein e=mc2.»

Dalla stupidità della nostra conversazione capisco che non è più arrabbiato con me. Dopo un'abbondante mezz'ora di battute e di risate, però torna serio.

«Dopodomani inizia la scuola» mi ricorda. «Torni a Viacampo, vero?»

Annuisco. Il pensiero di ritrovarmi stretta in quella cittadina di pochi abitanti spazza via la tranquillità di questi giorni. Ma soprattutto è il terrore di un faccia a faccia con Marco che mi porta a mangiucchiarmi le unghie.

Stefano se ne accorge:

«Vuoi che me ne vada?»

E d'improvviso il bianco delle pareti, in cucina, mi sembra opprimente. Il rumore delle foglie dei faggi che scivolano a terra un tormento paragonabile a una goccia d'acqua che sbatte sulle tempie. Una stupida goccia d'acqua che porta alla pazzia. Ma ancora più terrorizzante mi sembra il rumore della marmitta che si scalda, il rombo del motore che si accende, lo strisciare delle ruote sul ghiaino, sempre più lontano, fino a non vedere più il motorino scassato di Stefano all'orizzonte.

«Resta» lo supplico in un sussurro.

E Stefano accetta. Rimane.

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