Anche le stelle muoiono (II)
Dove ho sbagliato? Ho le tempie che esplodono a forza di pensare, la nausea che vortica nello stomaco, in attesa che arrivi un messaggio di completamento a quel dopo.
Perché deve esserci un messaggio di completamento. Marco non può buttarci all'aria come un fastidioso strato di sabbia, finito nelle scarpe per una bufera. Non posso accettare che finisca così. Fino a ieri tenevo la felicità in un pugno. La notte l'ha trasformata in fumo che fugge dalle fessure delle dita e si sperde nel vento. E adesso il giorno rincara la dose di sventure, mi sbatte in faccia un altro errore che ho commesso.
Valentina è davanti a me, sulla soglia del garage. È in controluce, un'ombra nera per i miei occhi, ma distinguo comunque i pugni chiusi, tirati lungo i fianchi.
«Sai tutto» sussurro.
Premo il viso sul cuscino, in cerca di una via di fuga.
«So tutto» conferma. Due parole, poco per decifrare il tono. «Giacomo mi ha appena raccontato.»
Cinque parole danno un indizio: tono nervoso, scattante, una punta di acidità.
«Vale, mi dispiace, io...»
«Non dispiacerti.»
Stacco il naso dal cuscino. Valentina è immobile sulla soglia e il tono si è fatto più duro. Mi chiedo se sia sarcasmo, il suo. È famosa per gli scoppi d'ira, ma quando riesco a ferirla nel profondo, si chiude a riccio e mi impedisce di fiatare.
«Invece mi dispiace» ripeto. «Io morivo dalla voglia di dirtelo. Ero così felice, non lo ero mai stata tanto e...»
«Ma ti vuoi dare una svegliata, Nina? Con che coraggio parli di felicità?»
Marcia nel centro del garage, recupera la scatola nera e la mette davanti al letto, alla maniera di uno sgabello. La nuova sedia è troppo bassa e deve tenere il mento alzato per fissarmi negli occhi.
«Ascolta, Nina, tu adesso sei confusa. Ricordati che parlo per il tuo bene. Per una volta, metti da parte le tue brillanti trovate e fa' quello che ti dico io.»
Ora che è più vicina, intravedo i muscoli tirati, le labbra schiacciate al punto da creare una linea sottilissima, orizzontale.
«Io non volevo escluderti» le dico. «Non vedevo l'ora di dirtelo, però...»
«Se me l'avessi detto, ti avrei fermata» taglia corto lei.
Il cuore dà un unico battito. Non era lei a sostenere che io e Marco dovessimo mettere da parte il binomio e imparare a vederci come una coppia? Porto il pollice alla bocca e mangiucchio l'unghia. Non ci sto capendo più niente.
Valentina continua a fissarmi negli occhi: «Non ti avrei permesso mai e poi mai di farti tanto male.»
Stacco una mezzaluna dall'unghia e finalmente capisco. Valentina non è arrabbiata con me per avere tenuto il segreto. È incazzata nera con il binomio perché mi sta ferendo. Nonostante i miei errori, continua a essere il pilastro che sostiene lo stupido architrave.
«Non odiarlo, Vale.»
Dovrei adorare questa complicità che ci lega, invece un nuovo crampo chiude la bocca dello stomaco, mi costringe a irrigidire le gambe e a tirarle per un secondo al petto.
«Tu parli di Marco come se fosse il male assoluto» le dico. «E ti sembrerà impossibile, ma io non riesco a chiudere gli occhi e a non vedere l'infinità di bene che ci unisce.»
Proprio io che ho sempre distinto tutto in bianco o nero, amore o addio, felicità o dolore, percepisco mille sfumature di colore. Ma quando il viso di Marco si insinua tra i pensieri, una morsa stringe il cuore. Parlo e parlo di amore e voler bene, eppure quello stupido organo sta dalla parte di Valentina.
«Mi dispiace, Nina. Forse hai ragione, forse c'è anche il bene, ma non è un'infinità. È troppo poco rispetto al male che ti sta facendo.»
«Giacomo ha detto che non ha parlato di lasciarmi» ammetto. «Forse tenterà medicina a Bologna e noi...»
«Le storie a distanza non funzionano, Nina, lo sai meglio di me. Non con Marco.» Valentina massacra la speranza. «Ti devo ricordare l'Irlanda? È stato sufficiente un mese di distanza per mandarvi in pezzi.»
Passo a mordicchiare l'unghia dell'indice e tiro di nuovo le ginocchia al petto, creo uno scudo per difendermi dagli attacchi di Valentina. Ogni parola è un colpo a tradimento.
«Vale, io non ti capisco.»
Perché lo fa?
«Prendi il cellulare» insiste lei. Continuo a non capire che cosa voglia da me. Lascio cadere la mano sul materasso e scuoto la testa.
«Sono seria, Nina. Prendi quel maledetto cellulare e scrivigli che è finita.»
Le labbra si schiudono in una protesta, mentre la mente cerca di mettere in fila un pensiero sensato. Lasciarlo? Sto pregando con il cuore, l'anima e ogni organo che Dio ci conceda una seconda possibilità. E dovrei tagliare il filo della speranza?
«Se non lo farai tu, lo farà lui» mi spiega Valentina. «Stai solo per batterlo sul tempo e salvare un briciolo di dignità. Dopo tutto quello che ti ha fatto.»
Lo stomaco borbotta d'ansia e di nuovo gioco a strappare l'unghia dal pollice. Lasciare Marco. Valentina deve essere impazzita! Ma ha ancora lo sguardo dritto, incorniciato dalle sopracciglia che sprizzano rabbia. Recupera il cellulare dal materasso e mi costringe ad afferrare il Nokia.
Ritraggo la mano, come se la cover fosse una lamina di ferro incandescente.
«No.»
Non posso farlo.
«Invece sì» mi ordina Valentina. «Da qui a qualche mese mi ringrazierai.» Non posso farlo. «Te l'ho sempre detto che quello lì è un buono a nulla, che ti avrebbe spezzato il cuore.» Non è colpa sua. «Che questo stupido binomio che avete creato ti avrebbe distrutta, che...»
«Smettila! Tu dici così solo perché...»
Silenzio. So benissimo quale perché ho pensato, l'unico che può ferire la mia migliore amica, gettando un pugno di sale su una ferita storica. Anche se Valentina non mostra le sue paure al resto del mondo, io le conosco e le ho sempre rispettate. Fino a questo istante.
«Sentiamo» mi dice. «Per quale motivo ti parlerei così?»
Dire o tacere, confessare o negare. Non c'è l'ombra di una differenza tra queste azioni. Il mio silenzio ha parlato e Valentina l'ha compreso. L'ho attaccata perché mi fa male sentirla insultare Marco. E mi vergogno di essere così infima da ferire, pur di non essere ferita.
«Tu dici così, perché non ti sei mai innamorata.»
Valentina non sobbalza. Se lo aspettava. Si stringe nelle spalle e scuote la testa, i ricci biondi che si allungano e ristringono come molle alla minima vibrazione del corpo.
«Non venire da me, Nina.»
Conficco il canino nel labbro. Adesso non è stata la vita a sconfiggermi. Ho fatto tutta da sola. Valentina si alza dalla scatola nera e marcia verso la saracinesca. Interrompe l'ultimo passo e gira il mento all'indietro.
«D'ora in poi arrangiati.»
*
Valentina cerca da sempre l'amore. Tra i banchi di scuola, nella squadra maschile di pallavolo, durante le vacanze al mare, in internet. Ma solo perché lo cerca da sempre, non significa l'abbia trovato. Ha avuto qualche flirt, il primo bacio l'anno scorso, con un tizio della gelateria. Il sesso resta per lei una misteriosa incognita.
Non lo dice mai, ma le pesa essere vergine a vent'anni. Io e lei non passiamo i pomeriggi ad affrontare quest'argomento. Valentina lo evita, ripiegando sugli allenamenti di pallavolo o sulle bravate di Giacomo e Marina. A riempire i nostri incontri c'è poi il soggetto problematico e a rischio esaurimento che, ovviamente, sarei io.
A volte, però, colpevole un bicchiere di troppo, mi confessa le sue debolezze, dà voce ai pensieri che la accompagnano di giorno in giorno. Chi mai si accollerebbe una ventenne vergine? E come fare con il mito del grande amore? Valentina non capisce. Ha sempre ritenuto giusto attendere, ha sempre avuto troppo rispetto per sé stessa.
Forse non le pesa la verginità. Forse le pesa non avere trovato l'amore. Nei suoi silenzi, Valentina sogna un uomo con occhi solo per lei, capace di capirla senza bisogno di parole, di apprezzarne i difetti e gli sbotti d'ira, di dirle che è bellissima al primo risveglio, quando strati di fondotinta devono ancora mascherare i difetti della pelle.
E io ho commesso il grandissimo errore di farglielo notare.
Dopo la nostra lite, riparo a casa con la coda tra le gambe, in cerca di un farmaco per rimuovere i ricordi. Voglio cancellare Valentina, voglio cancellare Marco, poter dire che oggi è davvero un bel giorno.
Frugo nella scatola rossa in cui mia madre nasconde i medicinali. Ma quando leggo i foglietti delle istruzioni, resto a bocca asciutta. Nessun farmaco è una cura adatta alla mia malattia.
Alcol. Alla fine è sempre lui, il rimedio al dolore. Bere per dimenticare. L'ho fatto a diciotto anni, quando Biagio era in coma all'ospedale. Ma da quella bottiglia di scotch non avevo ottenuto che disastri. Adesso stringo una fiaschetta di whiskey. In camera, sul letto, mi dico che male non farà. Il primo sorso brucia la gola. Non bevo superalcolici da troppo. Il secondo aumenta la nausea. Il terzo fa arrivare il conato di vomito dritto in bocca. Veloce lo ricaccio nello stomaco.
La fiaschetta scivola sul parquet e il liquido si riversa a macchia sulle assi del legno. Mia madre le ha appena fatte smaltare per togliere alcuni graffi e ora l'alcol corroderà la vernice trasparente.
Mi acciambello con le gambe tirate al petto. Solo tre sorsi di whiskey e la voglia di vomitare è ancora lì. Per ore resto immobile e penso alle persone più assurde: Anatolia proporrebbe una marcia femminista per bruciare vivo suo cugino; Celeste gioirebbe; Nicola mi sgriderebbe – non l'hai capito che l'alcol ti fa stare peggio? –; Ivan mi direbbe che è l'occasione d'oro – staccati da lui, vivi per te –.
E Marco...
«Nina?»
Marco ha deciso che quel dopo è adesso ed è arrivato l'attimo di parlarmi.
«Hai lasciato il cancello aperto e la porta d'ingresso socchiusa. Io ho suonato il campanello, ma ho visto che non rispondevi e c'era Pink parcheggiato nel cortile e allora mi sono preoccupato e sono salito e...»
Dio, ma come fa? Ho il viso schiacciato nelle mani. Devo ancora imbattermi nel suo sorriso felice, perché finalmente il figlio al prodigo è tornato a casa e la pubblicità del Mulino Bianco può andare in onda. Però sento la voce. Parla come niente fosse.
«Non mi stai ascoltando, vero?» mi chiede.
Fino a un istante prima speravo corresse da me e adesso che è qui non lo posso vedere. La sua allegria è una pugnalata alle spalle.
«Nina, per favore, non fare così e lasciami spiegare.»
Ancora non lo guardo, ma sento le sue scarpe calpestare le assi del parquet. Toglitele, zuccone. Mia madre ha appena fatto smaltare il pavimento e lo graffierai subito.
«Hai bevuto?» mi domanda. Sbircio con la coda dell'occhio e lo vedo inginocchiarsi e recuperare la fiaschetta. Immerge le dita nella pozza di liquido che bagna il parquet e le lecca.
«Whiskey» commenta. «E pure di marca.»
Il materasso oscilla, quando si siede sul bordo. Ora che è troppo vicino, nascondo di nuovo gli occhi nelle mani. Un marasma di sentimenti sconvolge lo stomaco. Delusione, tradimento, odio, panico.
«Nanà, ti prego.» Si piega su di me e scosta una ciocca di capelli dal viso, bacia la tempia e accarezza la guancia. «Dammi una possibilità di spiegare, io non voglio farti del male.»
Ma l'hai fatto.
«Oggi ho parlato con mio padre. Ha cercato di spiegarmi le sue ragioni e ho capito di voler fare medicina. Lo voglio sul serio.»
Sei tornato a farti comandare da lui, a inseguire i suoi sogni, a pensare che Massimo possieda la chiave per aprire il portale sul futuro perfetto. E intanto continui ad accarezzarmi e a strofinare il naso sulla guancia. E parli, parli, parli. Ma la mia testa sta per esplodere, il cranio scricchiola e vorrei gridare per metterti a tacere.
«Ho pensato a Biagio mentre mio padre mi diceva di medicina. Ho pensato che, se non fosse esistito il medico che lo ha operato, lui non sarebbe più con noi. Voglio essere io, Nina. Voglio essere il neurochirurgo che un giorno salverà un ragazzo come Biagio, capire che esisto perché so fare del bene.»
È stato tuo padre a sussurrare il nome di Biagio. È il nostro punto debole.
«Devo ancora passare il test. Se fallirò, mi toccherà iscrivermi a biologia o farmaceutica, però potrò provare l'anno successivo, non trovi?»
Spero che ti distruggano a quel dannato test, ti facciano sputare il sangue e in fondo al tuo foglio ci mettano una nota che recita "Il signor Marco Zuccato è negato per questa professione, non ha talento. Lui i cuori li spezza, non li aggiusta".
«Nanà, è una decisione che ho dovuto prendere. Puoi guardarmi, Nina?»
Stamattina non cercavi il mio sguardo, non ti interessava sentire la mia voce. Dovevamo essere in due a proteggere il nostro amore, quell'ampolla di cristallo, plasmata dopo essere rimasta sabbia per anni. Tu l'hai sbattuta al suolo e ti sei divertito a polverizzarla.
«Nina, io ti amo, lo capisci? Ti amo e ti amerò per sempre e questo non potrà cambiare mai. Nemmeno se saremo lontani, nemmeno se un giorno avremo dei periodi di crisi e ci capiterà di uscire con nuove persone.»
Scatto seduta e lo allontano da me con una manata. La spinta lo fa retrocedere, ma è il mio sguardo colmo di rabbia a ferirlo. Anche io ti posso distruggere, Marco. Siamo entrambi dei campioni mondiali in questo gioco.
«Nina, ti prego.»
Sento le guance bagnarsi, gli occhi trovare le lacrime che si erano scordati di conoscere. E tu distogli lo sguardo, perché non sopporti di avermi ferita.
«Ci proveremo» sussurri. Ti concentri sulla pozza di whiskey. «Ci possiamo impegnare e io so che noi due ci riusciremo.»
Schiaccio una mano sulla bocca per impedire a un singhiozzo di prendere suono. La storia del binomio è un circolo vizioso. Io e Marco ci amiamo, ma dal nulla compare sempre un ostacolo a dividerci.
«Non parlo a caso, Nanà.» Osi appoggiare una mano sulla mia spalla. «Ho un piano, sai? Ho fatto un compromesso con mio padre.»
Hai la voce carica di speranza. Sei davvero convinto che le nostre ali di farfalla ci spingeranno sopra il baratro della distruzione. Sei sicuro che non verremo risucchiati dall'abisso.
«Mio padre ha detto che mi darà tutti i soldi che voglio per venirti a trovare. Guarda, ho scritto tutto, Nanà.»
Dallo zaino nero dell'Eastpak tiri fuori un foglio. Non è un volantino come l'A5 dove Giacomo ha annotato la conversazione con tuo padre. È un A3 piegato con cura, simile a una mappa. E ci sono date, orari e costi. Un piano studiato nel minimo dettaglio.
«Ho guardato su Trenitalia. Il venerdì finirò le lezioni. Prenderò il treno e verrò da te a Nomi. Resteremo insieme per tutto il weekend. Poi domenica sera tornerò a Bologna. Sono tre ore e mezza di treno con un solo cambio.»
È un calendario preciso. Le vacanze di Natale e le festività sono evidenziate in giallo. Poi ci sono gli orari dei treni, il numero dei chilometri che ci dividono, i soldi che tuo padre ha promesso di passarti.
Dio, sta succedendo davvero. Ci stiamo davvero separando.
«Nanà, ti prego. Dì qualcosa. Mi stai uccidendo. È temporaneo, è solo per qualche anno. Poi quando finirò medicina, cercherò di fare il tirocinio qui e saremo di nuovo insieme, per sempre.»
«Solo qualche anno?»
Trovo la voce, un filo roco, mangiato dal magone. Prendo un respiro, mentre Marco cerca il minimo contatto, intreccia i nostri mignoli.
«Io non riesco a pensare a un giorno lontana da te e tu mi parli di anni?»
Anni senza vedere Marco a ogni risveglio. Niente più giochi, niente più scherzi, niente più eccitazione a mille, voglia di rendere ogni attimo speciale. Niente più colori, solo il grigio, solo un'esistenza in attesa... in attesa di cosa?
«Dobbiamo abituarci, Nina.» Ora non si accontenta del mignolo, mi prende entrambe le mani. «Papà ha detto che mi compra il wifi per l'appartamento, così possiamo stare ore e ore in chat. E quando non hai lezioni importanti, le puoi saltare e venire a Bologna da me. I soldi te li do io.»
Ha deciso, ha scelto quale piega assumerà la nostra storia, senza lasciarmi voce in capitolo. È inutile tenere il broncio, disperarsi, scoppiare di rabbia, sentire la delusione sbriciolare il corpo e trasformarmi in niente.
«Vuoi vedermi felice, Nanà?»
E tu, Marco. Tu vuoi vedere felice me? Cerco la risposta nei suoi occhi, ma Marco non ha sentito la domanda, l'ho solo pensata. È il mio cuore a parlare, mentre il suo, egoista, tace. Sì, voglio vederlo felice. Sì, devo accettare le condizioni. Deglutisco un boccone caldo.
«Dovresti studiare medicina, allora» sussurro. «Altrimenti non lo passerai mai quel dannato test.»
Forzo un sorriso sulle labbra e mi costringo a sostenere il suo sguardo. Ma quando il verde incontra l'azzurro, il sorriso si sgretola e le guance si piegano in una grinza. E io e Marco torniamo a essere un binomio, uno specchio delle medesime emozioni. Perché anche le sue labbra tremano e gli occhi si riempiono di pianto.
«Forse dovresti dirmi che non sto facendo una cazzata, Nanà.» Singhiozza, quando pronuncia il mio soprannome. «Io mi fido di mio padre, ma questa volta...»
«Stai facendo una cazzata.»
L'opposto di quel che vuole sentirsi dire. Non lo faccio perché ho le scarpe piene di sassi appuntiti e voglio togliermene almeno uno, per sfizio. Lo faccio perché non posso mentire.
«Io però mi sto comportando da bambina.» Scarico la colpa su di me, che sono viziata, capricciosa e infantile. «Me la farò passare, ok?» Non so da dove venga la forza, ma ora un sorriso splende sul mio viso, non si sgretola in un singhiozzo. «Tu studi per medicina e io... io ho una questione in sospeso con Valentina.»
Marco si tuffa sulle mie labbra, un bacio a stampo e un fiume di "grazie", mescolati a due singhiozzi e a una lacrima solitaria. Non ricambio il bacio, ma lascio che mi stringa con tutta la sua forza.
«Sarà solo un po' più difficile, Nanà. Ma alla fine siamo sempre noi.»
La nostra storia è iniziata sotto i migliori auspici. Prima di oggi il ritornello era "felici e inseparabili". Sono bastate due settimane per modificarlo in "difficile, ma sempre noi". Con un colpo di vanga, seppellisco l'ultimo briciolo di dignità e accetto il compromesso.
«Già» ammetto. «Più difficile, ma sempre noi.»
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