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Alla ricerca di Atlantide (II)


Se dovessi usare poche parole per riassumere il nostro rientro a casa, direi "porte sbattute". Sette di sera, ora in cui dei nuovi coinquilini dovrebbero cenare e prendere l'occasione per conoscersi meglio, e gli affittuari di via delle Suore Orsoline numero 7 ingaggiano una gara a chi sappia chiudere la porta con maggior violenza.

Così Valentina sbatte la porta del bagno, Tania quella della tripla e Saul quella della singola. E io me ne resto sola soletta sotto l'arco del salotto, con la borsa della spesa e i buoni propositi di cucinare per tutti volati su per il camino.

Ma perché il destino si accanisce contro di me?

Il giorno successivo è lo scenario del decimo cerchio infernale. Saul si alza alle cinque e dimentica la sveglia accesa; Tania occupa il bagno e mi fa arrivare in ritardo in facoltà; Valentina lascia ciabatte e calzini appallottolati sul pavimento, così da rendere il tragitto letto – porta un percorso a ostacoli.

Finalmente, concluso il discorso del rettore su come l'università non sia il liceo, inizia l'ora di letteratura greca. Io e Tania sediamo in prima fila, un'aula striminzita che contiene quindici studenti.

La professoressa, Cornelia Crodelia, ci guarda affannarci su un foglio scritto in greco. Test di ingresso a sorpresa, un passo dal Simposio di Platone da tradurre. Sull'amore, ennesima beffa del destino.

«Nel mio corso sono ammesse solo le eccellenze» recita la professoressa. I capelli platino tirati in uno chignon mettono in risalto i lineamenti del viso, il naso aquilino, la mascella squadrata. «Gli studenti mediocri ripieghino pure su un altro corso. Beni Culturali, ad esempio.»

Il corso di Saul. C'è una nota di sprezzo nella voce di Crodelia. Sbatte le arcate di denti, quasi stesse sbriciolando un osso.

«Sono sicura che a Beni Culturali ci sia un corso di uncinetto o bricolage per delle femminucce come voi» continua a dire.

Se solo Saul la sentisse! Ieri ha dimenticato in cucina i libri di testo. E non mi pare di aver intravisto un corso di uncinetto. Ma non contraddirò Crodelia De Mon, il rossetto fuoco che ricorda le fiamme dell'Inferno, i tacchi talmente appuntiti da sembrare coltelli.

«Pretendo che sin da adesso i miei studenti sappiamo carpire l'essenza di un brano alla prima lettura» dice, mentre sfila tra i banchi. Tania allunga il collo per copiare la mia traduzione, Crodelia De Mon le sequestra la prova. «Il dizionario è superfluo, per liceali, e chi copia può tornarsene da dove è venuto.»

Tania mantiene il mento alto, non cede di un soffio alle minacce della professoressa. Fujiko potrà pur essere il suo modello di vita, ma nell'arte della truffatrice Tania è un vero fallimento.

«Vi premetto che all'esame non uso una convenzionale scala di giudizio. Per me o è 30 o ci vediamo al prossimo appello» recita la professoressa. Ora che ha sequestrato altri due temi, si siede sulla cattedra a gambe accavallate, le calze trasparenti che non nascondono le diramazioni di vene varicose. «E adesso consegnate, il tempo è scaduto.»

Crodelia alza i palmi nel gesto del Padre Nostro, attende che noi studenti le riportiamo i foglietti spiegazzati e infarciti di cancellature, asterischi, parentesi con varianti di traduzioni che non verranno mai accettate. Sfilo fino alla cattedra, a testa bassa e con una geniale idea: se mangerò il tema, la professoressa non potrà rimproverarmi per qualche errore.

«Vediamo da chi leggere la prima frase» dice Crodelia.

Torniamo impalati ai nostri posti, ci chiediamo chi sarà il candidato alla ghigliottina. O meglio, gli altri se lo chiedono, io no. Io so già che il destino sta marciando con un esercito contro la sottoscritta.

«Adami» esordisce la professoressa.

Con un gesto automatico, alzo la mano. Solo che questo non è l'appello, questa è la condanna a morte. E Crodelia non è un'assassina diretta. Le piace tormentare la vittima, fare il gioco del gatto e del topo, lasciarmi morente e agonizzante ai suoi piedi. Fiumi di saliva scorrono in gola. Crodelia tiene il foglio appicciato al naso, gli occhi chiusi a fessura per mettere a fuoco le scritte.

Dio, e se ho fatto errori di ortografia? Non ho nemmeno riletto!

«Bene» commenta lei. Riadagia il tema sopra la pila sulla cattedra. Le labbra si piegano di un millimetro. «Correggerò le altre traduzioni a casa. Con la mia fortuna mi sono appena giocata la crème de la crème e nel fine settimana dovrò sorbirmi le ciofeche dei mediocri. Ora iniziamo.»

Per il resto della lezione ho il sangue che pulsa nelle vene, drogato di adrenalina, autostima alle stelle. Altro che caffeina! Potrei studiare la notte intera, tradurre tutti i classici della biblioteca, scrivere la tesi di triennale e magistrale, vincere un posto di dottorato. D'accordo, esagero, ma il commento di Crodelia mi ha così esaltata da non sentire nemmeno il mal di mano dopo venti pagine di appunti.

E mi sembra tutto così logico e sensato, ogni frase, ogni citazione, spiegazione dell'insegnante. Tutto di un livello così alto e pieno di rivelazioni, senza quel senso di banalità e scolasticità tipico del liceo che io... cavolo, Crodelia de Mon, colei che ha convinto centinaia di studenti a lasciare gli studi, mi ha appena definita la crème de la crème!

«La lezione è finita» dice, scaduta l'ora e mezza. Nasconde il gessetto bianco sopra la lavagna, perché qualche professore non glielo rubi. «Se avete qualche domanda intelligente è il momento, ma prima recitate cento volte l'alfabeto greco. Potreste lasciarvi sfuggire una corbelleria da albo d'oro.»

I miei compagni sono mummie. Il terrore ha scavato le loro guance, colorato i visi giallo papiro, tagliato le corde vocali e incendiato l'apparato respiratorio: in presenza di quell'Arpia scheletrica non è concesso nemmeno un respiro.

«Adami?»

Se i miei compagni sono le mummie, io sono il marziano appena approdato a Nomi con tanto di UFO.

«So che le potrà sembrare prematuro» le dico. Uso il tono di cautela. Lei mi invita a procedere con un cenno. Un grande respiro: «Potrebbe farmi da relatrice per la tesi triennale?»

I miei compagni sono sincronizzati quando liberano un "eh", traducibile con "questa è pazza o scema". Solo Tania è rimasta a bocca asciutta, la gola secca e l'orgoglio ferito a impedirle di parlare.

La professoressa fa passare la valigetta da lavoro di mano in mano per spostare il peso. Si gira di novanta gradi e varca l'uscio. Scema, decisamente scema. Ho avuto il contentino della carota e ora, pur di sentirmi eccelsa, ho preteso che mi regalassero anche un coniglio.

«A novembre tengo una sessione d'appello riservata agli studenti del secondo anno.»

È la professoressa che sta parlando. La sua voce arriva quando ha ormai varcato l'uscio e i tacchi a spillo hanno iniziato a macchiare il pavimento pulito, lucido di sapone e acqua.

E io non capisco, come questa frase possa essere una risposta coerente con la mia domanda. Ma ancora lei mi sorprende:

«Iscriviti con il tuo programma. Vediamo come te la cavi».

Voglio rimettermi in piedi? Adesso so da dove iniziare.


*


«Ma a Viacampo vi fanno tutti con lo stampino?» mi chiede Tania per l'ora successiva, letteratura latina, dimentica del fatto che io "nuova studentessa modello" vorrei seguire lezione. «Cos'è? Avete la scritta "ambiziosi e secchioni" come marchio di fabbrica?»

Per nostra fortuna, l'aula è gremita di cento studenti e la professoressa parla con un microfono, il suono profondo, tale da coprire gli insulti della furia fucsia. Lei e il suo odio proclamato per Viacampo! Un giorno, davanti al sesto bicchiere di tequila, le chiederò spiegazioni, ma per il momento devo mantenere la rotta, impedire a distrazioni di farmi perdere tempo. Novembre. Sembra un mese così lontano per chi si è appena lasciato alle spalle l'afa dell'estate e invece sento già sulla pelle il soffio freddo del mese dei morti.

Poco tempo per studiare, zero per dormire, meno uno per socializzare, meno due per reggere Tania. Nei tre giorni successivi diventa la "donna ombra", perennemente attaccata alla mia gonnella. Mi segue in libreria, si siede accanto a me per copiare le versioni, si infila sotto le coperte nel mio stesso letto, con la scusa di uno spiffero che entra dall'imposta della finestra.

E poi mi tortura, con i suoi "dobbiamo uscire, ci sono gli happy hour, esistono gli studenti di ingegneria a cui spillare denaro".

Più scoccano i minuti, più ho la sensazione di guardare un treno ad alta velocità. Sono ferma in stazione e i binari volano sulle rotaie, talmente lunghi da farmi perdere l'orientamento. E così non capisco se il treno sia in dirittura d'arrivo o di partenza.

Tania è come quel treno: mi stuzzica, mi provoca e punzecchia. Però dice di voler essere mia amica. E allora perché si è posta come obiettivo svegliare il lato peggiore di me? Perché vuole la Nina amante della vita, delle feste, di una birra in compagnia, quando ho chiuso con quel capitolo?

Da quella notte, in quel posto, ho imparato a sopravvivere di corsa, senza lasciare attimi di vuoto tra un'attività e l'altra, ma al tempo stesso senza metterci il cuore, l'energia, l'amore, la passione. Appena do il via al primo compito dell'elenco, la tessera cade e spinge la seconda, e la seconda la terza, così da innescare un effetto catena. Un dovere porta a un dovere e un dovere a un dovere ancora, non un secondo libero per darmi il tempo di pensare.

Studiare, fare carriera. Sono queste le uniche attività permesse dal gioco. Niente più spazio per l'amore e i sentimenti e i ricordi. Basta con gli uomini, le menzogne, i pensieri.

Per ogni attimo di cedimento, per ogni mia debolezza, mi punirò con dieci pagine in greco da tradurre. Per lo meno diventerò un'ottima studentessa, la più invidiata dai compagni di corso, la più amata dai professori.

Un pomeriggio dei primi di ottobre, torno a casa con una sacca di dieci libri. Ho prelevato il massimo dalla biblioteca, faldoni talmente vecchi che le rilegature in filo sono saltate e le pagine svolazzano libere nella borsa di tela. Studierò almeno un volume stanotte, ma appena apro il portoncino...

«Ti odio!»

Lo strillo rimbomba nell'atrio, seguito dal fracassare di una pila di piatti, e io conosco benissimo questa voce: Valentina.

«Ti odio perché sei una zoccola!»

Altro che nottata di studi! Nel mio appartamento sta per esplodere la bomba atomica e io... che aspetto? Su per le scale, borsa dei libri buttata sull'ultimo gradino, faccio le scale quasi un flusso di lava stesse risalendo i gradini in pietra.

«Ti odio anch'io allora!» strilla Tania. «Perché tu una zoccola non lo sei per niente!»

Possibile che quelle due non possano resistere nemmeno un'ora senza scannarsi? Le immagino lanciarsi in un combattimento tra lottatrici di sumo e invece no. Quando arrivo in cucina, Tania tiene un grande bicchiere della coca cola in mano. L'ha riempito d'acqua e sta versando una ventina di gocce sulla superficie d'acqua.

«Lo vedi? Sei una drogata e io i miei spazi non li divido con te» grida Valentina, le guance paonazze di rabbia.

Sono sulla soglia aperta, trafelata e senza fiato, la giacca di mezza stagione che scivola di spalla, i capelli in disordine. E quelle due ignorano la mia esistenza.

«Le pagine gialle o bianche o di un qualsiasi colore» continua Valentina. «Voglio un muratore o meglio un fabbro. Così gli faccio fare una gabbia e ti rinchiudo a vita. Stupida bestiolina!»

«Ma taci, GGS! Che se non fosse per me, staresti a battere su un marciapiede!»

«Ah sì? Perché sono forse io quella che se ne va in giro con le tette in fuori?»

Dovrei intervenire, vero? Ma sono improvvisamente stanca e le loro voci non arrivano più alle orecchie. Sfiorano i timpani come sussurri e il mio corpo si rifiuta di continuare ad ascoltare. Resto adagiata alla porta, nella speranza che la bomba atomica non esploda, quando una mano mi sfiora la spalla.

Sussulto di scatto per trovarmi faccia a faccia con Saul. Appena rincasato, le labbra viola perché oggi fa freddo, una goccia di colore rosso in mezzo alla guancia destra. Sembra sangue, ma non lo è, tono troppo chiaro.

«Andiamo a fare due passi?» mi chiede.

È un giorno pieno di sorprese. Fino a ieri io e Saul non ci scambiavano un solo ciao. Io lo schifavo perché subdolo e falso, lui mi ignorava perché... confesso di non sapere cosa pensi di me. Però accetto:

«Molto volentieri».

Tutto pur di fuggire dall'esplosione. E magari proverò che il detto "l'abito non fa il monaco" è esatto e sono stata meschina a etichettarlo come "antipatico", solo per un maglione sgualcito e una smorfia fuori luogo.

Ci ritroviamo a camminare sul marciapiede che dà all'Ateneo di Lettere, tra gli studenti che spintonano per non perdere l'ultima corriera, oppure giocano a farsi i dispetti. Il silenzio di ottobre mi avvolge in una bolla e punge più del gelo artico. Mi pento di avere accettato quest'uscita, di aver rinunciato alla vitalità e al rumore di Tania e Valentina per la tranquillità di Saul.

Camminare con lui è come essere soli. Ha le gambe più lunghe delle mie e muove ampie falcate sui sampietrini del centro storico. Non mi aspetta, né controlla se sia in grado di mantenere il passo. Si limita a studiare il mio viso, ma non è uno sguardo di interesse. È il tentativo di bucarmi la pelle e vedere se riesce a trovare un punto debole, l'asse marcio per far crollare l'edificio intero.

«Non te l'hanno detto che si può parlare mentre si cammina?» gli chiedo. Se c'è qualcosa da far crollare, è il silenzio.

«Parlare mi disturba» sbotta Saul. Antipatico, contrariato dal fatto che abbia rotto le regole del suo gioco. Ma di che gioco parliamo, poi? A suo confronto, le carte di Tania sono sempre scoperte e di facile lettura.

«Non ti capisco» ammetto.

«Parlare non mi fa vedere bene i dettagli» nota Saul. E allora capisco che non stava studiando solo me, ma l'intera Nomi: le foglie gialle screziate di rosso che costeggiano il marciapiede, davanti alla chiesa in mattoni del centro; le gocce di condensa posate sulle vetrine della pasticceria; la ruggine che ha intaccato le grate di una panchina in ferro.

È proprio lì che Saul si siede, senza avermi chiesto se una pausa mi stesse bene. Nel centro di una panchina in ferro, smaltata di rosso, il colore che macchia la guancia di Saul e che ricorda i miei capelli e la ruggine sul ferro e il rosso che screzia le foglie d'autunno.

C'è odore di caldarroste nell'aria, i primi tendoni che preparano il vin brûlé. Mi siedo accanto a lui e provo a studiare i dettagli, i pugni chiusi, per resistere al freddo.

«A Beni Culturali esiste un corso di uncinetto?» gli chiedo.

È solo una battuta, un motto di spirito per spezzare il silenzio e allacciare i nostri interessi. Ma Saul appoggia la cartelletta con i disegni sulle gambe e fa scattare l'apertura.

«Tu sei proprio strana.»

Strana come in pazza. Non come in interessante. Punta nell'orgoglio, realizzo: non gli piaccio. E ne ho la conferma, amarissima tortura, man mano che apre l'album da disegno e mi mostra gli schizzi che ha abbozzato nelle prime settimane di convivenza. Tania e Valentina.

«Le hai disegnate moltissime volte» ammetto. «Mentre litigano, mentre dormono, mentre sono sovrappensiero. Qui addirittura sbadigliano.»

Saul è bravo a cogliere gli attimi, a far trasparire una sensazione. Io guardo un disegno di Valentina e da quel semplice schizzo riconosco la sua anima: battagliera, fiera, fedele. Dovrei restare estasiata nel contemplare il suo talento, ma un piccolo puntiglio mi rende amaro il cuore.

Io non ci sono mai.

Nemmeno di sfuggita, nemmeno in un angolino, nemmeno nello sfondo, nemmeno mentre cucino. E io cucino sempre per loro! Saul mi guarda. Manco fosse un prestigiatore, gli è comparso un carboncino tra le dita. E proprio mentre mi fissa, inizia a disegnare la curva del mio mento e una ciocca di capelli che mi cade sulle guance, il taglio di un occhio.

E poi li cancella. Incazzato nero, con rabbia e forza, al punto da spezzare il carboncino. Il mio viso diventa una macchia nera.

«Tu non compari in nessun disegno» mi dice. Corrucciato, quasi la colpa fosse di un altro, una terza persona, assente. Invece è lui a disegnare. E se non ne è capace, che colpa dovrei avere io?

«Immagino di non essere un soggetto interessante.»

Non è la prima persona a questo mondo a scartarmi come una nullità. Smetto di guardarlo, di nuovo il velo dell'indifferenza sul mio viso. E più sento il volto diventare impassibile, più vedo quello di Saul adombrarsi.

«Già» sbotta. Uno scatto e chiude il faldone, ributta l'album nella cartella in pelle graffiata. «Non sei interessante proprio per niente.» Poi scatta in piedi, un terribile paradosso per cui lui offende me e si sente la vittima della situazione.

«Non riesco a vederti» mi rimprovera. «Sempre tranquilla, educata, studiosa, composta. Ti fingi impassibile, ma non sei che una montagna di bugie!»

Il tono è alto e, a dire il vero, non suona più come metallo, ma ci sono mille sfumature di colori nella sua voce: il grigio della rabbia, l'antracite della delusione, il rosso dell'ira, il vermiglio dell'imbarazzo. I passanti al negozietto delle caldarroste credono di assistere al diverbio di una coppia. E invece io e Saul ci conosciamo di sfuggita.

«Non mi era mai capitato di non vedere qualcuno, di non riuscire a disegnarlo» sospira. Si sistema la tracolla della cartelletta in spalla e non mi aspetta, ma calca i piedi nel manto di foglie cadute dagli alberi rinsecchiti. «Sei come Atlantide» dice, un metro in avanti. Ora anche io cammino su quel tappeto giallo e rosso. E forse un'espressione, per un secondo, attraversa il mio viso: stupore.

«Sei un grandissimo mistero» mi spiega Saul. «E a me, i misteri, non sono mai piaciuti.»

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