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Ai cerbiatti non piace scienze (II)


Secondo Socrate ogni uomo per natura è portato al bene. Il tallone d'Achille della bontà è la conoscenza. Se un cittadino ignora i concetti di giusto e onesto, allora non li potrà applicare. È solo quando la società lo istruisce che egli si tratterrà dal compiere il male. Socrate non me ne voglia, ma mi permetto di dissentire. Ogni uomo per natura è portato al proprio interesse. So benissimo che rubare il quaderno di Anatolia è sbagliato, ma l'istinto di sopravvivenza mi incita a procedere.

Quando arriva lunedì, trovo Stefano e Marco in classe, intenti a confabulare quasi fossero amici del cuore.

«A ricreazione» mi ricorda Stefano. È la mente motrice del piano.

«Come farai a distrarla? Credi davvero di poterla tenere occupata per quindici minuti?»

«Anche trenta se ne hai bisogno» mi risponde.

Il modello "Anatolia sotto maturità" è ancora più acido del modello "Anatolia gli altri anni". Sembra Paperon de Paperoni, accovacciata sul banco e con lo zainetto fucsia stretto tra i polpacci, con l'unica differenza che il papero proteggeva dollari, lei appunti.

«Ho lasciato che tu, Yuri e Marco provaste a risolvere questo guaio, ma avete fallito» aggiunge Stefano. «Ora tocca a me guidare. E se riesco, anche domani pomeriggio toccherà a me!»

Lancia un guanto di sfida che non accetto.

«Tocca a me scegliere le posizioni» sbotto. «E questo giro ho anche studiato e ho un sacco di idee.» Stefano protesta che la priorità è sua. «Pensavo che potrei iniziare a sfruttare qualche abilità da ex ginnasta, come che so: l'elasticità.»

Stefano smette di imitare un pentolone di minestrone portato a ebollizione e curva le labbra nel sorriso di chi ha appena assaporato una fetta di torta al cioccolato.

«Credo che potremmo parlarne» accetta «Nel nome dell'elasticità.»

Gli rilancio il guanto di sfida e gongolo per la vittoria. La Lorenzi compare sulla porta ed è ora di lezione, l'ennesimo brano di Seneca da tradurre. I minuti che mi dividono dalla ricreazione sembrano decadi, le ore millenni, ma alla fine la campanella dà il segnale. Dall'angolo della classe Stefano raggiunge me e Anatolia.

«Ehi, ragazze, che ne dite se vi racconto una storia?» ci chiede.

«Sì, sì qui ci vuole proprio una bella storia!» strilla Marco. In men di un secondo io e Anatolia ci troviamo circondate dai due cospiratori.

«Non ho tempo per queste sciocchezze» replica lei. «Domani abbiamo una simulazione e devo ancora ricercare tutte le figure retoriche dei brani di latino quindi...»

«Quindi, dovresti rilassarti!» dice Stefano. «E io ti sarò d'aiuto. È una vecchia storia che mi ha raccontato mio nonno, su una dama e uno specchio magico e...»

«Non abbiamo altra scelta, vero?» taglia corto Anatolia. Chiude il libro di Seneca. «Allora muoviti!»

Ha abboccato all'amo con una facilità che ritenevo più impossibile della vita su Nettuno. Il quaderno di scienze è lì, a un panno dal mio naso, sbuca dalla cartella fucsia. Riconosco la copertina gialla e il titolo della materia scritto in indelebile nero.

«Dunque, vi dirò che c'era una volta, tanto tempo fa, in un castello molto lontano, uno specchio magico» inizia a raccontare Stefano. Anni di oratorio gli hanno insegnato a calibrare il tono. Poche parole e Anatolia si dimentica delle figure retoriche. «Questo specchio aveva il potere di stabilire se la persona che lo fissava fosse un bugiardo, oppure no. Se lo specchio avesse riconosciuto una menzogna, subito avrebbe fatto sparire nel nulla colui che l'aveva pronunciata.»

Ora o mai più. Il braccio scivola in basso, intrappola il quaderno giallo. Veloce lo nascondo nel raccoglitore di latino e via. In punta di piedi esco dall'aula assieme a... Dov'è Marco? Con i gomiti sulle ginocchia ascolta la storia di Stefano, rapito da un reame di magie e incantesimi.

«Così un giorno arrivò un cavaliere che si riteneva il più coraggioso di tutto il reame...»

Gli tiro la gomma di Nicola. "Muoviti!" dico in silenzio, mimando l'imperativo con le labbra.

«Ma io volevo sentire la favola» protesta lui, appena mi raggiunge.

«Te la farai raccontare dopo. Ora corri!»

Scivoliamo sulle scarpe come due pattinatori alle Olimpiadi Invernali, giù dalle scale, a tirare spintonate agli allievi in fila per brioche e pizzette; su da una rampa di gradinate, le strilla di Battisti che ci inseguono con i suoi "Non si corre a scuola". Arriviamo a destinazione. Tessera nella fotocopiatrice, quaderno aperto, luce verde accecante più del flash di una macchina fotografica.

«È una miniera d'oro» commento a fine lavoro. «Guarda che roba, scrittura leggibilissima, rinvii sulle pagine del libro, colori per dividere gli argomenti. Questo quaderno è una miniera d'oro.»

Che poi i colori non si vedono sulle fotocopie, ma la mancanza non diminuisce la preziosità del tesoro conquistato. Quando torniamo in classe per riporre la refurtiva nello zainetto fucsia, Anatolia lancia manciate di penne contro il povero Stefano. Strilla come un'anatra ubriaca:

«Sei la vergogna dell'umanità, Nisi! E io che ti stavo pure ad ascoltare, stupido pallone gonfiato, senza rispetto e buone maniere! E Nina è ancor più stupida a uscire con un beota come te!»

Barricato dietro una pila di dizionari, Stefano mi adocchia sull'uscio e mi invita a procedere. Arrabbiata com'è, Anatolia non si accorgerebbe nemmeno se Pirro le dichiarasse guerra con un seguito di cento elefanti. Quanto a me, appena mi libero del quaderno, sento la coscienza spaccarsi in due: il lato buio si complimenta per la velocità d'azione; il lato luce mi rimprovera.

Solo quando torniamo al casale, Marco pone la domanda.

«Ma poi come finiva la storia dello specchio? E perché mia cugina se l'è presa tanto?»

Stefano riprende la narrazione da dove l'ha lasciata, mentre io e Marco ci premiamo con dei tranci di pizza.

"Sono dunque il miglior servitore del re" disse il cavaliere allo specchio magico e con un puff sparì nel nulla. Poi arrivò la volta di un vetraio che si vantava di aver realizzato i più bei rosoni della cattedrale.

"Fui io a donare tanto fascino alla nostra chiesa" disse il vetraio e con un puff sparì nel nulla. Alla fine, arrivò una donna che si giudicava una signora per bene. Davanti allo specchio, convinta della sua bontà e bellezza, disse: "Ebbene, o specchio magico, io penso..." Puff.

«Non vorrai dirmi che finisce così?» Il trancio di pizza si affloscia sul cartone. Perfino la mozzarella, sesso femminile, sembra squagliarsi per la rabbia. Quale dovrebbe essere la morale della storia? Che le donne non sanno pensare?

«Ma dai che non lo credo, Nin!» mi rassicura Stefano. Si butta sul mio trancio di pizza, senza chiedere il permesso. «È solo che Anatolia diventa così suscettibile quando si tocca l'argomento. Come potevo non approfittarne?»

«Va bene» concedo. «Ma domani pomeriggio mi vendicherò.»

Per il resto della giornata ci tuffiamo in ore di studio folle. Tra tettoniche a placche, pietre e minerali, stelle e pianeti, neutrini e raggi gamma, arrivano le otto e il mio cervello è talmente consumato da sentirsi una buccia di arancia rinsecchita. Dopo avere salutato Stefano, torno con Marco a Viacampo. E se io sono ottimista per la simulazione, lui non fa che piagnucolare:

«Non ci può stare tutta quella roba in una testa, Nanà! È scientificamente impossibile. Ho la formula della catena protone-protone che mi esce dalle orecchie, le strutture cristalline dal naso e i nomi delle stelle da...»

«Ci vediamo domani. Dai che ce la farai» lo saluto.

Sono stanca, praticamente morta e non voglio sapere da quale altro buco fuggano le materie studiate. Per un'ora resto sdraiata sul letto. Ha ragione Marco. Non può starci tutto quel malloppo di argomenti in una testa umana. Faccio lo slalom tra formule e definizioni, mi impongo di non ripetere gli appunti di Anatolia, perché se solo verrò colpita da una parola in più, il cervello andrà in cortocircuito. Ma un suono alla fine arriva alle orecchie: il campanello.

«Nina?» Mia madre. «Al cancelletto c'è un tuo compagno di classe che ti vuole parlare.»

Dite a tutti che sono morta e non intendo risorgere prima di domani!

«Aspetta, mamma!» Salto seduta, svegliata da un incubo improvviso. «Quale compagno di classe?»

«Nicola. Dovresti scendere a vedere cosa vuole o farlo salire.»

Nicola? Non mi ha mai cercata per primo, ma è sempre stato il destino a farci imbattere l'uno nell'altra. Perché è qui?

Quando apro il portone, mi accorgo che ha iniziato a piovere. È acqua mista a neve. Corro al cancelletto e Nicola è lì, inzuppato da cima a piedi, gocce che scivolano dalla fronte fino alla punta del naso. Si ripara sotto il tettuccio che protegge il cancelletto. Ha scordato l'ombrello.

«Ciao,» lo saluto, anch'io sotto al tettuccio, «come mai qui? Aspetta, cerco le chiavi così ti faccio salire all'asciutto.»

«Il quaderno» dice lui. Di fretta, con il fiatone che pulsa ancora nel petto. «Ti ho portato il quaderno di scienze.»

Mi passa la busta oltre un quadrato in metallo. Non capisco perché portarmelo alle nove di sera, quando il giorno prima mi ha sbattuto la cornetta in faccia.

«Ascolta, per ieri mi dispiace. Non sarei dovuta venire a disturbarti e nemmeno io sapevo perché ero lì. Del quaderno in realtà non mi importava...»

«Il quaderno, Nina.»

Sta iniziando a riprendere fiato. Deve avere corso per raggiungermi. Gli dico che sì, lo prendo il quaderno. E intanto con una mano cerco le chiavi per aprirgli, con l'altra mi libero della borsa.

«Ma questo è il mio quaderno!» La copertina verde raffigura un cerbiatto dai grandi occhioni neri. L'ho cercato per un giorno intero e, adesso che smette di essere utile, è tra le mie mani. «Non ci credo. Si può sapere dove l'hai trovato? Ho rovesciato il mondo per cercarlo...»

«L'avevo io.»

Le chiavi, appena recuperate dalla tasca, scivolano per terra. Nicola si toglie gli occhiali e li asciuga con la manica della giacca.

«Dai, non scherzare. Perché avresti dovuto averlo tu?»

Ora che le lenti non gli coprono un quarto di faccia, riconosco i lineamenti nobili di Ivan, più giovani, eppure estremamente delicati.

«Perché lo avevi tu?»

«Lo zuccone ha dimenticato la chiave nell'armadietto.» Fissa il portachiavi con l'orsetto, abbandonato tra due cubetti di porfido, le gocce d'acqua che schizzano sui nostri pantaloni. «Sapevo che usciva scienze. Così l'ho preso.»

Se la confessione venisse da Marco, capirei il motivo: copiare gli appunti. Ma il giovane uomo davanti a me è Nicola Ulivieri, e Nicola Ulivieri non ha bisogno di copiare.

«Non credo di capire» ammetto. Capisco benissimo. È la legge divina del "commetti un torto e riceverai un tormento". È il prezzo da pagare per avere trascinato Nicola nel gioco del binomio. Nelle iridi color pece trovo solamente pigmenti di disprezzo.

«Lui.» Corregge il tiro. «Voi, il binomio. Voi credete di poter fare quel che volete. Vi mettete nei guai, vi approfittate della gente e alla fine cadete sempre in piedi.»

È un getto di lava che mi travolge e riduce in cenere. Nicola ha lo sguardo duro, il tono colmo di astio, le mani che lasciano la presa dalla stanghetta degli occhiali, facendoli cadere tra i cubetti di porfido, vicino al portachiavi.

«È ingiusto. Non rispettate i sentimenti degli altri. Ci siete solo voi e sareste disposti a massacrare l'intera Viacampo, pur di restare uniti.»

Non siamo così. Siamo egoisti ed egocentrici come tutti gli esseri umani e spesso agiamo senza pensare al peso delle conseguenze, ma non abbiamo dentro una simile mole di crudeltà.

«Fate male, a molti, forse a tutti. A quelli che vi invidiano perché vorrebbero essere voi. A quelli che vi odiano perché non vi lasciate amare. A quelli che si ritengono indegni di starvi vicino, perché siete proprio voi a non farli sentire all'altezza.»

È una scossa elettrica che risveglia il cervello dal letargo invernale. Io non sono così malvagia, così cattiva. La corrente scorre nel corpo, spacca vene e arterie, sgretola le ossa, fa esplodere le tempie.

«Non siete delle belle persone.»

Le dita cercano il sostegno del cancello di ferro. Ripenso al semaforo dove ho accettato il regalo di Nicola, al messaggio con cui l'ho rifiutato. Ripenso a Stefano, sfruttato per consolarmi, abbandonato e riusato. Ripenso a Celeste che elemosina la più piccola attenzione e, a forza di sostenere il principio dell'accontentarsi, accetta ogni violenza. E mi dico che Nicola ha ragione e l'ho sempre saputo. John Stuart Mill diceva che la libertà di un individuo finisce laddove inizia quella del prossimo. Né io né Marco ci siamo mai chiesti dove si trovasse questo confine invisibile.

«Lo so» ammetto. «So che non siamo delle belle persone.»

Le pupille di Nicola si dilatano; il viso, prima contratto dall'accusa, si addolcisce. Il suo silenzio sembra chiedermi scusa, perché tocca a lui, adesso, ferirmi. È la regola del gioco, un turno a testa. Il cancello continua a essere lì, tra di noi, uguale all'inferriata che divideva Lancillotto da Ginevra, prigioniera nella torre di Meleagant. Ma questa non è una storia d'amore e dedizione, è rancore.

«Mi dispiace» gli dico.

Nicola raccoglie gli occhiali. Prima di rimetterseli sulla punta del naso, piega la testa in un cenno di saluto, e mi sembra rilassato, privo di quel macigno di amarezze che voleva scagliarmi contro da chissà quanto tempo.

«Nina?» È girato verso la strada, pronto a fuggire dal riparo, a tuffarsi sotto la cascata di pioggia. «I capelli. Ti stanno meglio sciolti.»

Gli offrirei un ombrello, se sapessi parlare, ma il pianto è sulla punta della lingua, le lacrime intrappolate dalle ciglia. Alla fine, quando Nicola si getta sotto quel secchio d'acqua versato dal cielo, una lacrima scende, nascosta da una tenda di finta neve. E mi dico di aver meritato tutto: il furto del quaderno, la sfuriata, il non complimento sui capelli. A partire da domani, avrò come unico obiettivo essere una persona migliore.



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Mi scuso per il ritardo degli aggiornamenti, mi scuso anche di non avere risposto ancora ai vostri commenti. Credo che in questo periodo la nuvoletta di Fantozzi si sia imbattuta sulla mia testa. E così, dopo i ladri, ci sono stati in ordine: il tubo dell'acquedotto comunale che è esploso e ha allagato la mia cantina, un fulmine che ha centrato il mio carrello scorrevole, qualcosa di storto alle mie mani per cui ho sempre i crampi (sarà l'età). In breve... credo che qualcuno mi abbia lanciato il malocchio.

In realtà, assoluto protagonista di questi giorni è stato l'editing di "Come vento". Rileggere tutto in pochissimo tempo per trovare refusi è stato devastante, ma sono soddisfatta del risultato finale e soprattutto... dichiaro ufficialmente terminato il processo di editing! Ora la mia storia è nelle mani dell'impaginatrice e poi sarà quel che sarà, io il mio lavoro l'ho finito. ;)

Del capitolo di Binomio di oggi, non dico nulla se non che è idiota (come sempre) e pieno di refusi (di nuovo come sempre).

Ora passo a rispondere ai vostri commenti dell'altra volta. Per il prossimo capitolo spero di riuscire a fare una rilettura velocissima per essere un po' meno "pessima".

Grazie di tutto <3

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