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A luci spente (II)


Il binomio si è spezzato. E questa volta non ci saranno fili, saldatrici, mastici o collanti a poterci riunire. Per cinque anni sono stata legata a un'altra persona da una catena e adesso che l'anello si è rotto, sento solo il vuoto e la paura. Come faccio a esistere se ogni giorno era pieno di Marco e Marco adesso mi ha lasciata?

Scariche di singhiozzi fanno tremare le spalle. È finita. Il binomio, forte come un diamante, indistruttibile quanto il titanio, è ufficialmente morto, senza che Marco abbia lottato per proteggerlo.

Non mi merita. Dovrebbe solo annegare nella sua felicità con Celeste, sparire dalla faccia della terra, sparire dalla testa, dai ricordi. Non ce lo voglio più nel mio cuore. Voglio cancellarlo con il nero e partire da zero, come se Marco Zuccato non fosse mai esistito.

«Nina, dove stai andando?»

Procedo in salita per la Scalinata del Re. A casa, sto andando a casa. Yuri mi segue, con il fiatone e la sbronza in corpo. Le sue mani si avvicinano, ogni volta che le gambe cedono e sprofondo nella fanghiglia. Ma si trattiene e non mi sfiora, come se il minimo contatto potesse rompermi.

Quando arriviamo al parcheggio, la vedo. La via di fuga, l'àncora di salvezza, il tappeto volante che mi riporterà a casa. Casa. Voglio chiudermi a chiave nella mia stanza e non vedere più nessuno.

«Nina, che stai facendo?»

Sprofondo i piedi nella fanghiglia, spruzzi di melma che inumidiscono l'orlo dei jeans e si infilano nei calzini. Oscillo tra le auto in doppia e terza fila, sbattendo contro gli specchietti e seguendo la via indicata dalla luna.

«Casa. Me ne vado. A casa.»

Poche parole, solo l'essenziale. Ho la gola che brucia e nemmeno una tanica d'acqua potrebbe spegnere l'incendio. Ogni suono pronunciato fa tornare la voglia di piangere. Yuri mi sta alle calcagna e si infila nel sentiero tra le macchine. Tira pugni agli specchietti, quando la maglietta "I'm God" resta incastrata.

«Casa?» mi chiede. È qualche metro indietro. Raggiungo la Panda. «Tu non ci vai a casa in queste condizioni. Quindi vedi di non dire scemenze e di non fare cazzate!»

Voglio solo mettermi al volante e sfrecciare per i tornanti della Scalinata, sentire il motore ruggire, così forte da distruggere le parole in testa, smettere per una buona volta di pensare. Cerco le chiavi in tasca. È un attimo recuperarle. Più difficile trovare il buco della serratura.

«Nina, dammi quelle maledette chiavi!»

Yuri mi fissa con il terrore negli occhi. Ha ancora il cellulare con la torcia accesa e sembra incredibilmente pallido, quasi un fantasma, quando la serratura scatta e la portiera si apre. In salvo. Ora che siedo al volante, sono al sicuro.

«Dammi le chiavi!» insiste Yuri.

Devo andarmene da qui. Qui è il posto dove tutto è finito, è il cimitero del binomio, la tomba di un amore. Qui sa di morte e io ho paura della morte, sono sola, Marco mi ha lasciata. Marco. Il mio Marco. Le labbra liberano un singhiozzo.

«Dammi subito quelle dannatissime chiavi, Nina!»

Chiudo la portiera, ma Yuri la blocca con il gomito e salta nell'abitacolo della macchina. È per metà sopra di me, un braccio sul volante, uno che mi tiene imprigionata contro il sedile del guidatore. Schiaccio la frizione, giro la chiave, via il freno a mano, prima ingranata.

E accelero.

«Nina, che cazzo! Le chiavi!»

La macchina sgomma sul parcheggio sterrato, sfioriamo la Golf. Yuri totalmente sdraiato sul mio grembo e io che stringo il volante con entrambe le mani. Un tonfo. La portiera aperta travolge l'amplificatore. Pezzi di plastica si schiantano come falene contro il paraurti, schegge nere si infilano sotto i tergicristalli.

«Frena!»

Non mi muovo. Yuri tira la leva del freno e la macchina fa un salto sul posto, la cassa dell'amplificatore finisce sotto le ruote della Panda. Sbandiamo di lato e grido, quando il gomito di Yuri colpisce il clacson. I fari della macchina, accesi, illuminano un pino, il tronco a una spanna dal cofano.

«Merda, vuoi farci secchi tutti e due?»

La macchina è ferma e c'è puzza di bruciato. Yuri è uscito dall'abitacolo, la fronte imperlata di sudore e le gambe che dondolano per lo spavento. Ha sfilato le chiavi dalla Panda e ora le sventola, a dirmi che senza di loro non potrò scappare.

«Non posso restare qui» gli dico. Schiaccio la frizione e l'acceleratore, abbasso il freno a mano. Senza chiavi come si mette in moto? «Devo andarmene. Non posso tornare in quella tenda, non posso respirare la sua stessa aria, io...»

«Lo so.»

Yuri tiene la portiera aperta, l'avambraccio appoggiato al tettuccio della Panda. E mi guarda con una pietà che non merito. Cazzo, gli ho appena distrutto l'amplificatore. E ho rischiato di ucciderlo!

«Non sei nelle condizioni di guidare» mi dice. «Hai passato una sera a bere e...»

Si interrompe. Non ha il coraggio di sbattermi in faccia quanto sia patetica, una stupida ragazzina che non sa reggere la fine di una storia d'amore.

«Sei troppo ubriaca e basta.»

Non sono ubriaca. Sono infinitamente stanca. Schiaccio la fronte contro il volante e urto il clacson, un biiip prolungato che spezza il silenzio della notte. Lo so che è una pazzia, ho i nervi a pezzi, gli occhi talmente appannati da non vedere a un metro di distanza. E la Scalinata del Re è un susseguirsi di crepacci e strade scoscese, però...

«Yuri, ti prego. Lasciami andare.»

Lui mormora un "no". Sento le chiavi tintinnare e le immagino sparire nella tasca dei suoi jeans. Punto i miei occhi nei suoi e ci metto tutta la disperazione che conosco. Per convincerlo a cedere, perché può darmela vinta almeno una volta, almeno stanotte.

«Non ti darò le chiavi, Nina. Non voglio venire al tuo funerale. Vuoi andare a casa?»

Tiro su con il naso e annuisco. Yuri allunga la mano nella mia direzione.

«Allora scendi dalla macchina» sorride. «E gambe in spalla.»

Resto imbambolata a fissarlo, mentre scrolla la mano a dirmi di afferrarla, prima che ci ripensi. Gambe in spalla vuol dire mettersi di buon animo e camminare. La Scalinata del Re dista 15 chilometri dal centro di Viacampo e 15 chilometri corrispondono più o meno a tre ore a piedi.

«Se vuoi andare a casa, Nina, si fa così. Tu hai bevuto, io ho bevuto e nessuno dei due si metterà al volante. Siamo chiari?»

Chiarissimi. L'esatto opposto della strada che ci troviamo a percorrere. È da folli camminare per un sentiero buio, sperso nel bosco, in discesa, in una zona frequentata da orsi. Procedo a grandi falcate, i sassi che rotolano sotto le scarpe, i rumori del bosco che mi riempiono d'angoscia. E marcio, con il fiato che spacca il petto e la gola che continua a bruciare e Marco che è sempre lì, nel centro dei pensieri e non se ne va.

«Ehi, razzo!» Yuri mi chiama. «Frena che non ti sto dietro.»

Siamo ancora alla Scalinata del Re e l'aria è la stessa che respira Marco, è ancora il qui, lo sfondo della nostra morte, la scena dell'orrore in cui un incubo è divenuto realtà.

«Non ci riesco. Devo andarmene. Se vado via, non ci penserò più. Deve uscire dalla mia testa una volta per tutte.»

«Con calma. Con calma torneremo a Viacampo e con calma ti dimenticherai di lui.»

Si possono prendere cinque anni di ricordi e gettarli al vento? E che cosa diventerò, se perderò ogni memoria del binomio? Sarò ancora Nina Adami o diventerò un'altra?

Yuri accelera il passo e si mette al mio fianco. Stringe la mano e tira il braccio per farmi rallentare il passo. Sono le cinque del mattino e uno squarcio di cielo uggioso fa capolino tra le fronde degli alberi. È l'alba, l'inizio di un nuovo giorno, il primo senza Marco Zuccato. L'ugola trema e un singhiozzo si arrampica sulle pareti della gola.

«Sai, Nina.» La voce di Yuri lo copre. «A Milano conoscevo un ragazzo che a notte fonda ci pregava sempre di stare svegli per vedere l'alba.»

Le sue dita si intrecciano alle mie, mentre il cervello registra il discorso. È un'alba che sorge con mille novità: Nina senza Marco, Yuri che racconta un episodio della sua vita, proprio lui che non parla mai di sé, quasi noi di Viacampo fossimo spettatori indegni di sapere.

«Era un tipo strano che ascoltava Amedeo Minghi» dice, sguardo a terra per assicurarsi di non mettere la scarpa su un sasso pericolante. «E, insomma, io nemmeno so chi cazzo sia Amedeo Minghi.»

Yuri ride e le dita si fanno più strette alle mie. Non so perché mi stia parlando di questo misterioso sconosciuto, però il tono dimesso fa tornare l'angoscia, un buco in mezzo al petto, come quando non mangi da dodici ore e lo stomaco protesta perché ha fame.

Solo che io non ho fame e ci sono troppi verbi al passato in questa storia.

«Si è schiantato» dice Yuri. «A metà luglio, dopo un rave in un vecchio edificio abbandonato, quando tutti noi ci siamo rifiutati di fermarci a guardare l'alba. È salito in macchina con quella stupida mania di guidare a 50, perché ci sono i limiti di velocità e i limiti di velocità vanno rispettati. Si è schiantato ed è morto sul colpo.»

I tasselli del mistero vanno tutti al loro posto. Perché Yuri fosse scomparso senza lasciare notizia. Perché tardasse a tornare da Milano. Perché mi stia costringendo a camminare per tre ore.

"La macchina, dammi la chiavi, Nina. Non voglio venire al tuo funerale."

«Mi dispiace» sussurrò. Per il suo amico e per avergli fatto rivivere quella notte con la mia sceneggiata. «Scusa.»

Yuri mantiene il silenzio per non so quante ore, parecchie visto che non sento più le ginocchia per la fatica. Ma alla fine, in lontananza, intravedo il segnale bianco con la scritta "Viacampo".

Quando giro in direzione di casa, Yuri mi strattona nella pasticceria del paese, quella che tiene aperto tutta la notte e chiude alle nove di mattina. Ci accomodiamo nel tavolo all'angolo e lui ordina due cornetti alla marmellata. Non ho fame, ma uno sguardo di rimprovero mi convince ad addentare un morso di brioche.

«Ho pensato a Biagio» confessa, il viso pallido e le occhiaie da post sbronza. «Per quel ragazzo mi spiaceva, ma non lo conoscevo tanto. Sono rimasto a Milano per il sostegno morale. Però ho pensato a noi, in quel corridoio bianco, all'ospedale. E a tutti i giorni successivi. E mi sono detto che non può più succedere, non deve più succedere.»

Yuri addenta la brioche, la divora in tre bocconi e poi si pulisce le labbra con il palmo della mano. Granelli di zucchero restano attaccati a quell'accenno di barba corta e ben curata. Yuri ci ha sempre voluto troppo bene. A tutti noi, Biagio, Stefano, Marco...

«Lo odio» sussurro. Non devo precisare il soggetto. Yuri mi guarda comprensivo, si stropiccia gli occhi stanchi. «Lo odierò per sempre.»

«Ne avresti tutte le ragioni del mondo, ma anche lui ha le sue attenuanti.»

Attenuanti? Salto sulla seggiola di alluminio. Adocchio il pasticciere disporre nuovi bignè nei vassoi di carta, spolverali di zucchero e sistemare il cartellino del prezzo. Marco non ha nessuna attenuante.

«Certo che ce l'ha!» ride Yuri, manco mi stesse leggendo nei pensieri. «È un pivello con uno stratosferico complesso edipico per il padre! Che vuoi farci?»

La butta sul ridere, spera di accendere la scintilla del buon umore, ma non mi unisco alla risata. C'è tempo e tempo per i sentimenti e nel mio cuore è la stagione dell'inverno. Una bufera sbuffa, con scariche di gelo e tempeste di neve. Giro su me stessa, persa, con il freddo che ghiaccia le lacrime. Scavo tra la terra coperta di bianco, in cerca di quel filo che mi lega a Marco, ma quando trovo il cordone di lana e lo tiro, scopro che è monco. Lui stesso lo ha tagliato.

E io... come faccio a uscire dalla bufera da sola?

«Yuri, se ti rivelo un segreto, non lo dici a nessuno?»

Penso al mio futuro, ai giorni che verranno e vedo il niente, un vuoto che mi divora. Il groppo lega di nuovo le corde vocali e un singhiozzo alza il petto.

Yuri annuisce, il viso serio.

«Io non credo di farcela.»

Il nome genera una nuova ondata di lacrime. Accarezzo il labbro con i denti e spingo le pupille in alto, studio l'angolo del soffitto nel locale, il colore giallo con cui una ditta ha appena riverniciato le pareti, effetto spugna.

Yuri appoggia la mano sopra la mia.

«Stronzate» grida. Il pasticciere sobbalza, un bignè sfugge alla pinza e si sfracella dietro il bancone dei dolci. «Tu sei Nina Adami e sei troppo forte per permettere a un coglione di distruggerti.»

Accarezza le nocche per poi tirarmi una piccola sberla sul dorso della mano.

«Adesso vai a casa, ti fai una doccia e dormi qualche ora» ordina. «L'importante è che poi ti alzi, esci e non ti rintani nel letto a piangere. Prometti che non lo farai?»

Prometto. Un'ora dopo, genitori evitati e doccia scampata, riparo nella mia stanza, i vestiti infangati ancora addosso. Dormo un paio di ore, rispettando gli ordini di Yuri. Sono talmente stremata che mi risveglio alle quattro di pomeriggio.

Ma quando il cervello ordina al corpo di mettersi in moto, le ginocchia non rispondono, le gambe restano paralizzate sotto il lenzuolo azzurro. Il letto reclama la mia presenza, il cuscino si offre di raccogliere le lacrime. Ho promesso a Yuri di non rintanarmi sotto le coperte e di reagire. Ho giurato di non lasciare che il dolore mi distrugga. Ma adesso che sono sola, tutte le promesse spariscono nel vento. Nel chiuso della stanza resta un'unica convinzione: non ce la posso fare.

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