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A luci spente (I)


Quando torno al falò, mi sembra di avere fatto un salto dentro un film western, una pellicola in cui due cowboy duellano in una stradina sabbiosa, pistole pronte allo sparo. Yuri Conte recita il ruolo del protagonista, il comunista "faccia da criceto" quello del rivale. Marco è invece una semplice comparsa: assiste alla scena, punta su Yuri, tracanna una birra e a stento si accorge di me, quando scivolo al suo fianco.

Sono sbucata dal nulla, preceduta di un minuto da Stefano. Marco mi ignora e grida a Yuri di menarlo, quel sorcio di un comunista. Vorrebbe un bagno di sangue: le risse ci stanno sempre bene, quando sono gli altri a scannarsi. A smorzare i toni è Stefano, tira una spallata al suo amico e gli dice di finirla, è ora di levare le ancore.

Mezz'ora dopo io e Marco ci ritroviamo nella tenda, avvolti nei nostri sacchi a pelo. Teniamo la torcia del Samsung accesa, perché nessuno dei due ha ancora sonno. Sì, sono le tre di notte, ma la tensione nell'aria ha soffocato la voglia di dormire. E nel mio caso non solo quella.

Eccola qui, Nina Adami, colei che prometteva una notte di passione! È bastato il confronto con Stefano a spegnere il desiderio. Vorrei solo dormire abbracciata a Marco e restare a guardarlo tutta la notte, finché la batteria del cellulare non si spegnerà.

Marco è un disastro quando dorme. Tira i pugni, scalcia, si sbraccia quasi stesse facendo la ola allo stadio. Le prime volte in cui dormivamo insieme, da ragazzini, credevo giocasse a basket persino nel sonno. All'inizio era fastidioso doversi difendere dagli attacchi, ma con il tempo ho imparato ad amare anche questo suo aspetto. Quando dorme, Marco è davvero Marco, un bambino spensierato, vivace, talmente limpido da convincermi che stiamo vivendo una favola. E nelle favole, c'è sempre l'happy ending.

«Credi che siano andati tutti a dormire?» gli chiedo.

Oltre la tenda percepisco pochi sussurri. Marco si tira il sacco a pelo fino al collo.

«Non so, perché? Hai già voglia?»

La domanda e i suoi gesti mi spiazzano. Poco fa mi accusava di trascurarlo per un bacio negato. Ora invece si intabarra tra il piumino manco fosse una cintura di castità.

«Beh, se credi che sia troppo presto, possiamo aspettare» gli dico. «Non sia mai che il grande Yuri Conte compaia con il suo fare spettrale per assistere a una grande prova di sesso!»

È assurdo pensare che Marco tema l'intromissione del pubblico. Abbiamo fatto l'amore in un fienile disabitato, nel garage di un'altra persona, in spiaggia, nel lago, nella sua stanza, nella mia stanza... e si fa degli scrupoli quando siamo chiusi in una tenda?

«Non è questo, Nina.»

Sprofonda nel sacco a pelo fino al mento. Restano scoperti solo gli occhi. Le iridi azzurre brillano per un secondo, prima che le palpebre si abbassino. Non è questo significa che c'è dell'altro.

«E allora che cosa ti prende?» gli chiedo. «Ti ho in qualche modo offeso o fatto indispettire?»

«No, no. Non è nemmeno questo!»

Marco è ormai scomparso quasi per intero nel rotolo di piume d'oca. Abbasso la zip del sacco per farlo uscire allo scoperto. E lui mi fissa con gli occhi di un bambino che ha appena compiuto la marachella. Sgancia la bomba.

«Ho pensato a Celeste.»

E la bomba fa boom. Paralizzata fisso l'ordigno disintegrarsi, il rosso delle fiamme, il fumo che pizzica gli occhi, le parti del corpo che si sgretolano. Marco è una bomba strana, esplode e poi si sente in colpa. Forse non dovrebbe.

«Io prima ho visto Stefano» ammetto a respiro trattenuto.

Fino a prova contraria vedere è peggio di pensare. Ma Marco continua a rintanarsi nel sacco a pelo. È come se fissandolo nelle pupille, potessi leggere le parole che sta tacendo.

«Non è che ho pensato a Celeste e basta» mi dice. Seleziona i termini con cura. «Sono giorni che penso a lei, quando studio, e mi viene naturale immaginarla al mio fianco.»

Non era una bomba normale, ma infarcita di un pesante paralizzante o di un allucinogeno. Marco sta facendo un discorso che non ha senso. Lui e Celeste. In passato li ho definiti la barzelletta del secolo, ma ora... è uno scherzo.

«Tu non ami Celeste» gli dico.

Marco stesso lo ha confessato. Stava con lei perché credeva potesse renderlo migliore, perché secondo suo padre era il modello di ragazza perfetta, quella che tutti vorrebbero sposare.

«Non sto dicendo di volerci tornare insieme, Nina.»

Sta delirando. Yuri deve avere sparso della cannabis sui sacchi a pelo. O forse LSD o funghetti allucinogeni o che so. Non me ne intendo.

«Ascolta, Nina.» Adotta il tono da conversazione seria. Non ce n'è bisogno. Ha pensato a Celeste e io ho visto Stefano. Siamo pari. Ora possiamo fare l'amore. «Ultimamente ho riflettuto molto sulla mia vita universitaria e mio padre ha ragione. Deve essere bello condividere la passione con un'altra persona.»

Se per passione intendi passione d'amore, sì, ti giuro che è bellissimo condividerla con me, solo e soltanto con me. Se per passione intendi medicina, invece, non vedo il problema.

«Non te n'è mai fregato niente di medicina.»

Avvolta nel sacco a pelo, mi sento un salame. Nonostante l'umidità, l'aria nella tenda è pesante e l'ossigeno è di nuovo poco. Scie di sudore scendono dalla nuca fino alla schiena. Tiro le braccia fuori da quel sarcofago di piume d'oca e avvicino la mano al viso di Marco. Lui sposta la testa ed evita il contatto.

«Non sai quanto sia difficile parlarti» confessa. In silenzio mi prega di non frenarlo. «È che mi ci sono visto. Con il camice bianco. E poi non so come e non so perché, l'ho immaginata accanto a me.»

Il cuore tira una pallonata nel petto. È un colpo forte che va a segno nella cassa toracica, talmente prepotente da perforarla.

«Indossavamo tutti e due il camice bianco, quello che si vede sempre nei telefilm» mi dice. Alla parola "telefilm" libera una risatina. Sembra una ragazzetta alla prima cotta. «E camminavamo insieme per i corridoi dell'ospedale. Io avevo terribilmente sonno, perché era il turno di notte. Celeste era semplicemente lì, a passarmi una tazza piena di caffè.»

Lo racconta quasi fosse la trama di un bel romanzo. È carta straccia. Non voglio sentire questo racconto, se la protagonista non sono io. Mi stringo nelle braccia e dondolo per cullarmi, per dire al cuore che può smetterla di tirare pallonate. È colpa dell'alcol e del fumo e dell'influenza di Massimo. Domani staremo bene.

«E poi c'erano i pomeriggi in biblioteca» dice Marco. Un maledettissimo sorrisetto sulle labbra. «Ci trovavamo su quei banchi in legno, quelli più lunghi delle tavolate per le sagre, hai presente?»

Parola per parola polverizza i miei sogni. Fantastica a occhi aperti su Celeste. Davanti a me. Desidera un'altra donna, me lo sbatte in faccia e mi vuole fare sua complice, come se potessi capire, perché io sono Nina Adami e Nina Adami ascolta sempre Marco Zuccato.

«Quei tavoli erano pieni di libri, ma dei volumi proprio enormi, cose che non ti puoi immaginare» continua a dire. Ora non c'è più la colpa nei suoi occhi, solo l'entusiasmo. Anche lui toglie le braccia dal sacco e gesticola per indicare le dimensioni dei libri, i dorsi larghi una spanna. «Io non avrei mai creduto di poter leggere tutte le pagine e infatti mi sono visto mezzo annoiato e addormentato. Ma poi Celeste mi tira una gomitata perché non è concesso addormentarsi e tra una settimana abbiamo l'esame.»

Ti prego, smettila, dimmi che è uno scherzo. Non sento più il cuore, ma un peso che schiaccia il petto. Celeste, Celeste, Celeste. Mi viene il vomito solo a pensarlo, quel nome. E Marco invece lo pronuncia come se fosse la parola più armoniosa del mondo.

«Non so spiegarlo» dice. Alza una spalla, incapace di stare fermo. «Forse può sembrare assurdo, Nina, ma mi è sembrato tutto così...»

«Finto.»

Marco trasalisce, il sorriso si smorza e negli occhi torna quel pizzico di pentimento. Finto. L'ho detto con la voce rotta dal pianto, un solo aggettivo e Marco si è ritrovato con una freccia conficcata nel cuore.

«No» sussurra. Lo sguardo di nuovo basso, una nuova granata tra le mani. Si prepara a togliere la spoletta con i denti e a tirarmela in faccia. «Mi è sembrato dannatamente giusto.»

Giusto, l'aggettivo che definiva noi, il binomio, il nostro amore, i nostri baci. Ora giusto si riferisce a lui e a Celeste. Apro la bocca per dire... che cosa dovrei dire? A labbra socchiuse, lo fisso, le lacrime che scivolano sulle guance e si appoggiano sulla lingua, salate.

«Nina, non devi piangere.» Adesso è lui a ricercare il contatto. Cancella le lacrime con il pollice. «Credimi, ti prego, io non sto dicendo di voler tornare con Celeste.»

E allora che cos'era quel discorso?

«Ci siamo noi, adesso» sorride, ma non vedo un sentimento dietro quel gesto. È stufo di consolarmi. Sono troppo difficile. E non riesco a fermare le lacrime, maledizione. «Lo so che stiamo insieme e non voglio lasciarti, però quei sogni ad occhi aperti era giusto dirteli, per essere sincero...»

Lasciarti. Marco ha davvero pronunciato la parola lasciarti?

«Non piangere, Nina.» Io credevo fossimo eterni. Un binomio è per sempre. «Sto solo dicendo che mi è sembrato così semplice vivere con Celeste, mentre noi...»

«Noi siamo un casino allucinante» concludo. «Però ne vale la pena.»

Marco ha ancora il pollice attaccato alla pelle. Lo tiene fermo sul mio viso e si ferma a riflettere.

«Sì, adesso ne vale la pena» conferma.

Il pollice riprende a muoversi. Disegna piccoli cerchi sulla guancia destra. Posso ancora salvare il vagone del binomio. Sta deragliando dai binari e minaccia di collidere contro un altro treno.

«Però non so, Nina. Se una visione mi ha fatto dubitare, che succederà quando avrò di fronte la realtà?»

«Non ci posso credere.»

Quando è arrivato l'attimo in cui Marco ha messo il binomio in piedi sul guardrail e ha deciso di gettarlo giù dal ponte? E dov'ero io, mentre la nostra storia d'amore faceva un salto nel vuoto e andava a morire sfracellata sul cemento?

Balzo seduta e sfilo le gambe dal sacco a pelo. Caldo e l'aria che è sempre meno e le parole di Marco che mi schiacciano, le pareti della tenda che si comprimono su di me.

«Aspetta, Nina, sono solo stato sincero!» Soffoco. «È una mia paura e non vuol dire che si avvererà.»

La mano di Marco stringe il polso fino a bloccare la circolazione del sangue. Le pareti della tenda sembrano mura ciclopiche, mi stritoleranno come una formichina calpestata dallo scarpone di un gigante. E Marco parla quasi stesse raccontando Cappuccetto Rosso e invece, con quel discorso...

«Ti sei appena fatto un film mentale in cui mi pianti e torni con Celeste. E ne sei maledettamente felice! E mi dici che sono io che sono scema perché piango e che non avverrà e che è solo una paura?»

Le parole escono come singhiozzi. Il mio è un pianto a dirotto, un tremolio che parte dalla nuca e scorre fino alle punte dei piedi. Marco aumenta la presa sul polso, così forte che le dita marchiano la pelle.

«Stiamo provando, Nina!» Strilla anche lui adesso. «Stiamo provando, ma non è detto che riusciremo. Io forse non ci riuscirò. E mi faccio schifo a dirtelo, ma non sono forte come te!»

E la mano stringe e stringe, quasi volesse spezzare l'osso e spaccare in due le vene. Sono i timpani a doversi rompere, perché non voglio più sentire e i miei singhiozzi restano troppo bassi per coprire la voce di Marco.

«Come puoi?» gli chiedo. «Come puoi rinunciare così facilmente a noi? Come puoi rovinare tutto?»

Allenta la presa. Quando le dita si staccano dal polso, la pelle brucia. Ma è il silenzio ad opprimermi. Voglio un qualsiasi suono per uscire dall'incubo.

«Invece posso farlo» sussurra Marco. Non c'è più rabbia nelle sue parole, ma un misto di vergogna e tristezza. «Tu mi hai sempre visto come l'uomo perfetto, ma io potrei benissimo rovinare tutto. Però sono qui e ci sto comunque provando.»

Se lo guardassi, lo troverei con gli occhi abbassati e un sorriso dispiaciuto in viso. Ma nei miei occhi c'è solo la zanzariera della tenda. Prendo un respiro a pieni polmoni.

«Hai detto che sono sempre stata io» gli rinfaccio. Un sorriso amaro si fa strada tra le lacrime. E adesso lo fisso, senza battere ciglio. «Lo hai detto chiaramente, mentre facevamo l'amore a casa tua.»

Sulle braccia sento ancora il tocco delle sue dita. Mi ero sentita sbocciare come il più bel fiore di ciliegio all'arrivo della primavera. Adesso invece, Marco non mi sfiora, è distante, i miei petali sono appassiti.

«Se sono sempre stata io, perché non mi scegli mai?»

La torcia del cellulare si spegne, Samsung in standby e come ultima immagine il viso impassibile di Marco. Ora che è buio e il vento rimbecca sulla tenda, sembra che il tessuto della cupola prema contro il naso e tolga l'ultimo soffio di respiro. Non ci posso restare qui. Abbasso la zanzariera e a ginocchioni esco dalla prigione.

«Cazzo, si è spenta la torcia. Nina, che è questo rumore? Che stai facendo?»

Mi lascio la voce alle spalle, assieme a Marco che tasta tra i sacchi a pelo in cerca del Samsung. La mia nuova luce sono la luna e le stelle, le braci incandescenti del fuoco spento. Corro, tra i bicchieri di plastica dimenticati per terra, i pacchetti di patatine accartocciati, i barili di birra vuoti. Oltre le tende dalle cupole blu, rosse e gialle e poi nel tondo tra le fronde, in quel sentiero in salita, tutto da scalare, tra le rocce e gli alberi.

A casa. Voglio andare a casa. Parcheggio, Panda, chiavi della macchina, mezz'ora di strada. E voglio piangere e soffocare tra le mie stesse lacrime. Celeste. Io sono qui che faccio di tutto per salvarci e lui vede il suo futuro con Celeste?

Inciampo su un sasso appuntito e la roccia strappa i jeans. Le fronde coprono le stelle, mi lasciano senza un punto di riferimento. Ci sono solo sciami di lucciole che ruotano in cerchio, ma ho gli occhi pieni di lacrime e non riesco a mettere a fuoco il piccolo alone giallo che proiettano.

Cellulare in tasca. Lo recupero e accendo. Alle spalle un secondo bagliore.

«Nina!»

Marco mi chiama, mentre si arrampica a perdifiato sulla Scalinata del Re.

«Nina, perché cavolo sei scappata?» Sono tra la parete di roccia in cui ho rotto il sacco a pelo. «È pericoloso correre nel bosco di notte, potresti cadere!»

Dio, quanto ti odio! Sei a pochi metri di distanza, non posso lasciare che tu mi prenda.

Di nuovo in piedi, sfreccio tra le rocce. Mi aiuto con le mani, le unghie che si arpionano ai sassi, le suole delle All Star che scivolano sul muschio, il cellulare che cade e allora lo riprendo e cade di nuovo e di nuovo lo riprendo. Il cuore batte a mille, il fiatone squarcia il petto.

E poi Marco sbatte contro la mia schiena e mi schiaccia a terra. Mi ha spinta nel rigagnolo d'acqua tra le rocce e ora ho la maglietta della Lacoste imbrattata di fango e acqua, la pancia bagnata, il naso premuto in un manto di foglie umidicce, negli occhi solo il buio.

«Che diavolo ti è preso?» grida. È steso sopra di me ed è incazzato come l'ho visto solo una volta. Quando ho fatto sesso con Stefano, perché non sapevo più come ricomporre i pezzi di Nina Adami. «Che cazzo ti viene in mente? Mi spieghi perché devo sempre correrti dietro e non posso mai dirti quello che penso che subito ne fai una tragedia?»

Adesso la colpa è mia.

«Lo sai che c'è?» strillo. Il manto di foglie sul naso vibra, le lucciole fuggono dietro i tronchi dei faggi. «C'è che non ti voglio parlare, non lo voglio dire, non voglio credere di essere arrivata a questo punto.»

Il corpo di Marco, ancora sopra il mio, si irrigidisce. Una gomitata nello sterno. Lui si chiude a riccio, lascia una spanna di vuoto, il necessario per permettermi di scappare.

«Che cosa non vorresti dirmi, Nina?»

Punto la torcia del cellulare su di lui. Marco si massaggia il petto e si tira in ginocchio. E io premo la schiena contro la roccia, un metro di distanza tra di noi.

«Come puoi preferire Celeste a me? Per la seconda volta, cazzo. Dopo che mi hai detto di amarmi e mi hai portata al fienile e abbiamo fatto l'amore e...»

«Io ti ho solo chiesto di essere realista! Di smetterla per una volta di vivere nel mondo dei sogni e pensare che l'amore è bello, e solo perché lo vogliamo, potremo stare insieme per sempre!»

Mordo le labbra per trattenere un singhiozzo. Oh, lo sono fin troppo realista. È tutto dannatamente chiaro. Mi ha scopata e ora può girare pagina e tornare alla sua vita perfetta, dove non c'è spazio per i sentimenti veri, quelli che uccidono la ragione e ti distruggono e ti trasformano in una stupida marionetta nelle mani dell'amore.

«Ti odio.»

È solo un sussurro, ma c'è silenzio nel bosco e Marco mi sente. Sembra quasi che la foresta stessa faccia riecheggiare la mia confessione. Ti odio, ti odio, ti odio.

«Ti odio!» urlo. Sento ancore il suo odore sulla pelle. Più ricordo, più lo odio. «Ti odio con tutta me stessa.» Le lacrime tornano a disegnare il profilo del viso. Non le so fermare. Il cuore stesso è stufo di mentire. «Ti detesto, ti disprezzo, ti...»

La saliva si è incollata alla gola, ha formato un groppo e le parole tremano al punto da sembrare singhiozzi. Lo vedo, illuminato dalla torcia, i ricci dorati, le lucciole che giocano a volargli intorno. Il suo viso è una maschera vuota. È quasi... sollevato?

«Vorrei non averti mai incontrato» rincaro la dose. «Tu e il tuo maledetto binomio. Ecco cosa vorrei!»

Di nuovo il sussurro si trasforma in un urlo. E nella mia mente rivedo il Marco quattordicenne con quei Nanà infantili che canticchiava, un miliardo per giorno.

«Tu hai compromesso la mia vita» lo accuso. Oltre il velo delle lacrime, solo lui. Marco. Marco. Marco. Marco. Te ne vuoi andare dalla mia testa? «Tu hai osato farmi dipendere da te e adesso mi stai buttando via.»

Come se fossi un robot dagli ingranaggi vecchi. Ci vuole troppo impegno e dedizione per ripararmi. È più facile comprare un nuovo robot e giocarci, fino a quando anche lui non si romperà.

«E poi, osi, hai il coraggio di arrabbiarti con Stefano che è e sempre sarà un uomo migliore di te.»

«Nanà, ti prego, non dire altro, lascia che io...»

«No.» Ora sono di nuovo Nanà? «No, non parlare. Taci! Sta' zitto!»

Mi rimetto in piedi. E credo di non avere più lacrime in corpo da piangere, solo un odio cieco che non si placa. Ho tenuto dentro tutto per settimane, sono stata al suo gioco, ho finto di stare bene. E che cosa ho ricevuto in cambio?

«Me lo devi, Marco. Mi devi almeno di sputarti in faccia quello che ho nascosto, solo perché non volevo deluderti o ferirti. Come hai potuto trattarmi così?»

Tiene le mani sulla nuca, i palmi che sfiorano le orecchie, incerto se premere per tappare i timpani e zittire le accuse. Le merita tutte. E non è più così indifferente. Gli punto la torcia in faccia e trovo le guance rigate di lacrime.

«Non lo supererò» ammetto. «Non so quanto tempo ci vorrà, forse nemmeno l'eternità sarà abbastanza.»

Ha scelto Celeste e non me. Asciugo gli occhi con il polso sporco di fanghiglia. È buio, nessuno può deridermi perché ho la faccia imbrattata di marrone. Nemmeno Yuri. È comparso alle spalle di Marco. Lo vedo. Con la maglietta "I'm God" e il fiatone che gli alza il petto.

Quand'è che è arrivato?

«Ragazzi, che è successo?»

Cellulare acceso e torcia attivata aumenta la luminosità nel sottobosco. E strabuzza gli occhi come un indemoniato. Muove il capo da me a Marco. Io in piedi, singhiozzante, addossata a una roccia e bagnata fino al midollo. Marco inginocchiato nel rigagnolo, le mani sulle orecchie.

«Si può sapere che cazzo è successo?»

Avevi ragione, Yuri. Un nuovo singhiozzo esce di bocca e il fiume di lacrime torna a sgorgare. Sono inzuppata e sporca e fa freddo con il vento che spira tra gli alberi e fa scricchiolare le foglie dei faggi.

«Ragazzi, non fatemi girare i coglioni. Che cazzo avete fatto?»

Yuri strattona Marco per il gomito e lo butta in piedi. Il Samsung, poggiato sulle ginocchia, scivola nel rigagnolo e la torcia si spegne.

«Yuri, prova a far ragionare Nina.»

Parla di me come se non ci fossi.

«Yuri, Nina non mi ascolta.» Sembri un bimbo che chiede alla mamma di sgridare la sorellina. «Io... io non so se ce la farò a gestire la distanza. Mi ci vedo a fare altre esperienze.» Certo, con Celeste. Peccato tu le abbia già fatte. Devo ricordarti i crisantemi? «Io credo...» No, tu non credi niente. Massimo lo crede. «Credo solo che sia troppo presto per noi. Il tempo dell'università e poi...»

Marco si interrompe. Parla guardando Yuri. Mi sta scaricando e lo fa senza avere le palle di fronteggiarmi.

«Il tempo dell'università» ripete. Il suo sguardo è ora su di me. Traballa d'incertezza. Che vuole? La mia benedizione, tanti auguri e figli maschi? «Quando l'università sarà finita, torneremo entrambi a Viacampo e saremo pronti e più maturi e avremo la nostra strada già scritta e non sbaglieremo e non rovineremo il bin-»

«Una pausa?» Ho i pugni tirati lungo i fianchi, la torcia del Nokia che disegna un tondo di luce a terra. «Quindi dopo tutto quello che mi hai fatto, sei tu che ti permetti di chiedere una pausa a me

Azzardo un passo in discesa, più vicina a Marco e a Yuri. Ho le dita che prudono dalla voglia di picchiarlo e fargli del male, almeno la millesima parte del dolore che mi sta procurando.

«Certo, sarà facile per te, no?» gli strillo contro. E ora gli sono addosso, il mio viso a una spanna dal suo e le parole che sbattono sulla sua mascella. «Nuova città, nuovi amici, le lezioni, l'appartamento, gli amici, i superalcolici, Celeste.»

E io dove sarò? Da cinque anni siamo legati da un filo rosso e adesso lo vuoi recidere, cancellarmi dalla tua vita. Il fiume di odio diventa un rigagnolo sottile. Un grande respiro. Nega, ti prego, di' qualcosa e forse riusciremo a salvarci. Questo è il momento giusto. Ancora un secondo e sarà troppo tardi.

Ma tu taci. E il secondo scatta. Tempo scaduto.

«La verità è che ci hai distrutti, Marco. Solo perché sei un codardo e hai avuto troppa paura di cambiarci.»

Il Samsung è nel rigagnolo, spento. Il Nokia mi scivola di mano, unica luce la torcia del cellulare di Yuri. Troppo poco per vederti e capire a che cosa pensi. Nelle orecchie c'è l'eco delle mie parole. Ci hai distrutti. Mi hai fatto capire che è finita, senza avere il coraggio di dirlo.

«Nanà...»

«Lascia stare.» Yuri.

Il fascio di luce si sposta e la sua sagoma, scura, si mette tra i resti del binomio. Intravedo la sua spalla collidere con quella di Marco, destra contro sinistra. È uno scudo, Yuri, una barriera che ci impedisce di riunirci. È finita, è finita sul serio.

Marco libera un sussurro, l'ombra di Yuri si fa più grande.

«Hai fatto abbastanza danni, pivello. Vattene.»

Resta. Non lo ascoltare. Resta e dimmi che ti sei pentito. Era uno scherzo. Di Celeste non te ne frega niente e ti fa schifo solo l'idea di averla al tuo fianco, a occupare quel posto che dovrebbe essere mio. Ma le tue spalle si girano di novanta gradi e diventi un'ombra mangiata dal nero del bosco. Le suppliche che ti sto lanciando si perdono nel silenzio.

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