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4. L'azzardo

Questa volta è impegnato con lo smartphone, quindi riesco comunque a guardarlo senza farmi notare.

Il viso è segnato da qualche ruga leggera intorno agli occhi e tra le sopracciglia, mentre manca il solco tra il naso e le labbra che segna inesorabilmente l'arrivo dei quarant'anni nella maggior parte delle persone. Gli zigomi alti e la carnagione olivastra forse lo ringiovaniscono. Non gli darei più di trentacinque anni, nonostante il capello brizzolato.

Lo trovo un uomo molto attraente, ma per motivi diversi da coloro che frequento abitualmente. Non mi era mai capitato di subire il fascino della maturità.
Gli scatto una foto di nascosto con il telefono e lo rimetto in borsa.

Dopo cinque minuti si alza per avvicinarsi all'uscita, sorprendendomi. La prossima fermata è Sampierdarena, non Voltri. Avevo dato per scontato che anche stasera sarebbe sceso più avanti. La mia cpu stava già elaborando un pretesto per dirgli qualcosa, ma immaginavo che avrei avuto almeno venti minuti per farmi notare.

Il fato mi ha dato una nuova possibilità e decido di non perdere quest'altra occasione. Improvviso: «Mi scusi?»

Lui alza gli occhi su di me, con un'espressione interrogativa: «Dica?» Ha la tipica c aspirata dei toscani.
«Posso sapere il suo nome?»

Resta sorpreso. Alza entrambe le sopracciglia e apre la bocca senza emettere alcun suono. Muto, turbato, quasi sconvolto. Gli leggo negli occhi qualcosa che sembra paura. Non è la prima volta che mi faccio avanti in modo sfacciato con un uomo, ma di sicuro non ho mai ottenuto una reazione di questo genere. Che ci sia dell'altro?

Sono stata troppo diretta con questa domanda e cerco di rimediare al volo; gli faccio un lieve sorriso colpevole, incassando il collo nelle spalle: «Mi prenderà per una pazza e forse un po' lo sono per porle questa domanda, ma è la seconda volta che la incontro e vorrei dare un nome a ciò che occupa i miei pensieri da quando l'ho vista due giorni fa».

Il treno si è fermato. Ho giocato la mia carta e probabilmente non era quella giusta, visto che resta zitto e sembra anche spaventato. Il mio sorriso si trasforma in una smorfia di delusione. Ho fatto un passo troppo azzardato, dicendo la verità. Per la seconda volta sono rimasta fregata da quest'uomo, devo mettermi l'anima in pace.

Mi guarda fisso negli occhi per un'ultima volta, poi si gira e comincia a scendere la scala.

«Alberto, mi chiamo Alberto». La voce è calda, un po' roca, da fumatore, ma ferma.
Resta immobile per un secondo, senza voltarsi.

Mi torna il sorriso, ma stavolta è più ampio. Tuttavia decido di non dire nulla. Il processore che fa andare a mille la mia mente mi ha già fatto elaborare un piano, complicato forse, ma credo efficace per saperne di più su di lui e per incontrarlo fuori da questa scatola di metallo in movimento. Quella foto che gli ho scattato mi sarà molto utile. Non vedo l'ora di tornare a casa.

Scende dal treno. Guardo dal finestrino e lo vedo fermo, sul marciapiede, alzare lo sguardo per cercarmi. Appoggio la mano sul vetro e lo seguo con gli occhi fino a quando l'avanzare del treno che riparte interrompe il nostro contatto visivo.










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