2. Buco nell'acqua
Non l'avevo mai visto sul treno e mi arrovello su chi possa essere, mentre sto tornando a Pegli. Fantastico sulla sua professione, sulla sua vita, cercando di aggrapparmi all'aspetto esteriore e a ciò che è successo.
Avvocato? Medico? La fretta che aveva sarà stata causata da quel messaggio ricevuto? Nella prima parte del viaggio non mi era sembrato agitato. Ora che ci ripenso ho notato un'impercettibile contrazione della mascella, mentre rimetteva il telefono in tasca, tipico segnale di tensione e poi tutta quella fretta mi è parsa fuori luogo rispetto alla rilassatezza con cui stava leggendo la sua rivista. Il pensiero non mi passa neanche quando varco la porta di casa, la mia tana. Forse leggo troppi gialli. Lo sguardo punta alla libreria che corre dall'ingresso sino alla camera da letto. I volumi sono raggruppati senza un ordine preciso e rappresentano un motivo di orgoglio personale: sono tutti gialli con qualche variazione sul mistery o le spy story, non tralasciando il thriller. Non leggo altro da anni ormai. Ne avrò qualche centinaio. Sembra il covo di un topo da biblioteca, non di una programmatrice di videogame.
Appoggio le chiavi in uno dei tanti souvenir raccolti durante le mie vacanze in giro per il mondo: uno svuotatasche in pelle acquistato in Wyoming da un cowboy che sembrava uscito da un film western. Avrei proprio bisogno di un viaggio, mi dico. Do un'occhiata alle pareti del mio appartamento, in cui ho raccolto le fotografie dei miei vagabondaggi divise per continente, vorrei riempirle di più. Il sogno sarebbe l'Australia.
Apro il frigo e recupero gli avanzi del giorno prima, oltre a una mozzarella scaduta da giorni. Da quando vivo da sola ho cominciato a ignorare le date sulle confezioni, così applico il metodo ormai rodato: se al primo assaggio il cibo non ha gusti strani, per me è ancora commestibile. Preparo con rapidità una cena soddisfacente, consapevole che, però, non avrò nulla da portare al lavoro per il pranzo di domani, consumato come al solito davanti al computer. Dovrò comprare qualcosa prima delle tredici, imposto un promemoria mentale.
Mi sdraio sul divano e col telefono cerco del porno gratuito sul web. Di solito mi aiuta a sbollire l'eccitazione da sola, pur essendo consapevole di essere un palato fino: devo sempre cercare parecchio prima di trovare qualcosa di adatto ai miei gusti. Troppi video li reputo insoddisfacenti, perché finti. Alcune attrici sembra non vedano l'ora che tutto finisca il prima possibile. Questa volta non riesco proprio a darmi pace, il pensiero torna all'uomo del treno. Meglio fare una doccia.
Mi butto a letto cercando di dimenticare quello strano incontro, ma dall'altro lato mi cullo ripensando alla sensazione provata. Se non mi fossi lasciata sorprendere dalla sua fuga improvvisa, mi sarei fatta avanti per attaccare bottone, forse un modo di dire non proprio azzeccato visto che il mio obiettivo sarebbe arrivare a sbottonargli la camicia. Denudare quei polsi e non oppormi alle sue mani su di me...
La sveglia suona alle sette. Scivolo fuori dal letto ancora confusa dal sogno fatto durante la notte: catapultata in un labirinto opprimente, in fuga da una serie di tentativi di omicidio. Mi sarei aspettata un sogno erotico, viste le condizioni emotive in cui mi sono addormentata.
La mattinata procede senza scossoni. Mi piace lavorare alla Gold Games. Ho dei colleghi che sono un catalogo abbastanza rappresentativo di come non sia facile socializzare sul posto di lavoro, mi sono anche divertita a dar loro un soprannome: da Solid Snake, il freddo che mira solo a finire il suo compito il prima possibile, silenzioso ala stregua del personaggio di Metal Gear Solid, a Player one, il bambinone che ha intrapreso questo mestiere perché i videogame sono la sua unica ragione di vita. Alcuni invece sono particolarmente brillanti e spesso prolungo la convivenza con loro anche fuori di qui per serate a base di alcol e musica.
Dave, così chiamo il mio vicino di scrivania Davide in onore di Dangerous Dave, un platform anni Novanta, ha notato che non ho portato il solito contenitore per il pranzo: «Vuoi far diluviare? Pranzi fuori? – sogghigna – O ti sei messa a dieta?»
Se c'è una cosa di cui non ho certo bisogno è dimagrire. Ho ereditato il fisico snello di mio padre e ho sempre fatto sport: a malincuore ho dovuto lasciare la ginnastica ritmica quando nell'adolescenza le curve hanno preso il sopravvento, ma a trent'anni posso ancora permettermi di non badare alle calorie in eccesso. Merito di un mix tra genetica e abnegazione nel cercare di restare in forma con l'allenamento, un file che mi è rimasto in memoria sino a oggi.
«Per non provocare un cataclisma credo che andrò a comprare qualcosa al supermercato», replico, ignorando la sua provocazione.
Dave assomiglia a un elfo, con naso e orecchie un po' appuntiti; è alla mano e simpatico, il collega ideale, siamo praticamente coetanei. È grazie a lui se oggi sono qui. Lavoriamo insieme da tre anni ormai. Ha fatto carte false perché i piani alti prendessero in considerazione il mio curriculum, nonostante io avessi stroncato ogni suo tentativo di proseguire con la nostra relazione proprio per evitare di essere scambiata per una che vuole ottenere vantaggi col sesso.
Ci siamo conosciuti in un discopub a una festa di carnevale in cui si era travestito da Legolas, l'elfo del Signore degli Anelli. Io avevo scelto Lamù, un personaggio dei cartoni animati: una parrucca blu e un costume da bagno tigrato, non un grande sforzo creativo. In ogni caso eravamo stati votati come migliori maschere della serata e la mattina dopo mi svegliai nel suo letto. Andammo avanti bene per qualche settimana, poi lui scoprì che masticavo bene il C++, merito della mia laurea in informatica, e si propose per perorare la mia causa in azienda. Nello stesso istante decisi di chiudere con i nostri incontri in camera. Nonostante mi fossi comportata da vera stronza, lui era davvero motivato a volermi come collega e la nostra storia si è tramutata in un rapporto professionale basato anche sull'amicizia.
Quel periodo lo ricordo ogni volta che lo guardo: da quella sera i suoi capelli castani chiaro, ben più corti di quelli che aveva Orlando Bloom nel film, hanno le punte imbiondite dalla tinta che ormai usa stabilmente.
La riunione del pomeriggio mi stronca: il capo progetto di uno sparatutto non è contento di come stiamo costruendo il gioco e ci torchia per tre ore filate: «Sono alieni, sono veloci, non degli zombie del cazzo» urla sbattendo le mani sul tavolo. Quando arriva a questa fase della sua reprimenda, mi sento coinvolta direttamente. Come programmatore di engine mi occupo di realizzare le fondamenta del codice alla base del gioco, comprese le funzionalità nel motore grafico, di riscrivere i sistemi esistenti per spremere ogni byte aggiuntivo di memoria e velocità fuori dalla piattaforma. Spesso abbiamo a che fare con nuclei di software già preparati di cui l'azienda acquista la licenza, risparmiando ore di lavoro e diverse decine di migliaia di euro, ma stavolta il compito di noi sviluppatori è più arduo, visto che si tratta di un titolo inedito e non il terzo o quarto episodio di una saga. In questo caso è molto chiaro che non sia soddisfatto della rapidità degli avversari.
Andrea, l'altro programmatore, è sudato come neanche un maratoneta al quarantaduesimo km e continua a farfugliare scuse e a prendere appunti. Guarda in basso; lo fa ne momenti in cui è in imbarazzo, cioè nell'ottanta per cento dei casi di quando si interfaccia con persone con cui non ha confidenza. Lo vedo in difficoltà e cerco di incoraggiarlo, minimizzando problemi che probabilmente ci costeranno un weekend di lavoro.
«Dai, che morivi dalla voglia di trascorrere con noi il fine settimana!» Gli dico con un sorriso.
«Veramente io...» Lascia la frase incompiuta, come spesso accade, sistemandosi con l'indice gli occhiali dalla sottile montatura dorata più in alto sul naso.
Alle sette finalmente riesco a uscire dall'ufficio. «Ti accompagno a casa?» Si offre Dave.
«Non salirò mai su quella roba» rispondo ironicamente indicando col mento il suo scooter. Sono una motociclista: il mio bolide lo uso solo per piacere personale, non come mezzo di trasporto in città. In realtà il passaggio mi avrebbe fatto comodo, ma voglio prendere il treno e in cuor mio so bene perché.
Le probabilità di rincontrarlo sono minime. Non è neanche lo stesso treno. Sul lavoro sono razionale, ma nella vita l'istinto non l'ho mai soffocato, giocandomi anche storie, come quella con Dave, e facendo scelte incomprensibili ai più. Una volta tornai in anticipo, a sorpresa, da una trasferta di lavoro, solo per dire al fidanzato dell'epoca che l'avrei lasciato. Non sopportavo più i suoi messaggi su quanto gli mancassi.
Mi avvio verso la stazione pensando a come comportarmi: salire e camminare per tutto il treno alla ricerca di quel volto senza neanche la sicurezza di sapere se sia effettivamente a bordo?
Attendo che il convoglio arrivi ed entro in uno dei vagoni di centro come il giorno precedente. Con un sospiro avanzo alla ricerca di un posto, scrutando velocemente le persone sedute.
Nulla.
"Cosa ti aspettavi, Gloria, di ritrovarlo così facilmente?" mi dico, dandomi della stupida.
Sono delusa, tanto che non riesco neanche a sorridere di fronte a una bimba che avrà meno di un anno e che mi tende la mano.
Stasera devo distrarmi, non voglio stare da sola.
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