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⚜️ Ossa

Il giorno in cui Maia aveva fatto ritorno dal Dorso dei Giganti, il suo cadavere aveva attraversato le vie di Gardros coperto da un telo bianco, insieme ai corpi dei suoi compagni. Le braccia lungo i fianchi, lo scudo fissato sui seni, la borchia opaca che riluceva nel crepuscolo.

Nessun soldato, a meno che non si fosse effigiato di un'impresa degna di essere ricordata, aveva mai meritato un simile trattamento. Nemmeno i funzionari più alti in carica, i condottieri o i generali, venivano graziati di tale favore se non avevano dimostrato di meritarlo nel corso della carriera.

Maia non aveva medaglie.

Maia aveva solo un cuore incandescente e una spada sguainata fra le molte, e sarebbe dovuta rimanere lì dove Ecubash l'aveva reclamata: un corpo bruciato su un'anonima pira, per divenire cenere e restituirsi al ventre della terra, tramutarsi in germogli, alberi e fiori.

L'unica cosa che Maia possedeva era la parola di Kytos: non sarebbe caduta, ma se fosse caduta il futuro sovrano di Gardros non l'avrebbe lasciata precipitare nel grigiore della dimenticanza. Non sarebbe caduta, ma se fosse caduta avrebbe indetto una cerimonia nella piazza principale per commemorare lei e le vittime della spedizione. Non sarebbe caduta, ma se fosse caduta Kytos l'avrebbe portata con sé. E mai, mai l'avrebbe dimenticata.

Infine, Maia figlia di uno stalliere, valchiria delle nevi, capelli come i flutti di un fiume torbido, era caduta, perché la sua unica colpa era stata nascere nella famiglia sbagliata. Lì, fra quelle vette di cristallo che si stagliavano contro il cielo plumbeo, i ghiacci si erano abbeverati del suo sangue.

Kytos osservò il Dorso dei Giganti, la pietra martoriata dalle raffiche di vento. Le folate sibilavano tra le fessure rocciose, ululando quando si tuffavano sulla spianata. Di tanto in tanto, da essa si libravano mulinelli di brina.

Gli eserciti si fermarono e i vessilli di Gardros vennero piantati.

«Ci accamperemo qui» decretò Alpyos.

I preparativi per il quartier generale e gli avamposti richiesero diversi giorni, sotto gli occhi impietosi del Dorso. Giunsero gufi, rapaci e colombe a recare missive dai nove regni. Al Almas la Splendente e Suwei erano in viaggio, la piccola Lebrakha metteva a disposizione le sue poche milizie, gli elefanti di Owena stavano attraversando i monti di Gardros. A seguire, sarebbero giunte Tresotia e La Plata. Solo le isole Zeeland, il fitto arcipelago che dominava il Mare di Ör, protetto da svariate miglia d'acqua, non temeva a sufficienza i giganti da impiegare più delle forze strettamente necessarie.

Ma tutti, nel martellio dei picchetti, tra le colonne di fumo, lo scalpiccio degli zoccoli e il tintinnio delle armi, si ponevano la medesima domanda: chi, fra le nove corone dell'Espen, avrebbe tradito? Chi si sarebbe schierato con i mostri che vivevano oltre il Dorso e li avrebbe scagliati su quelle terre per impadronirsene?

I dubbi si infransero nel clangore di lame che vibrò per l'accampamento. Kytos si slanciò in un affondo diretto al fianco del ragazzo, che lo schivò per un soffio. La secca rotazione del busto lo fece sbilanciare e il giovane si ritrovò a terra, a gambe all'aria. Il principe piantò la lama nel fango e gli fu sopra con un paio di falcate. Lo scrutò dall'alto, con il cipiglio inespressivo di un condor che stava per sbranare la carogna puntata dal cielo.

«Non ci sei.»

«Mi dispiace, Vostra Altezza» balbettò quello.

«Credi che scusarti servirà a qualcosa quando un gigante ti schiaccerà il cranio tra i denti?» Kytos imbastì un sorriso sinistro, che fece impallidire il ragazzo. «Va' a esercitarti.»

«Sì. Subito.»

La recluta raccolse la spada e filò via a testa bassa.

«Tu sì che sei un gran motivatore.»

Kytos si voltò. Beathan di Vallevento lo osservava dalla staccionata che delimitava il campetto dedicato agli addestramenti, la pelliccia d'orso velata di neve e il gomito abbandonato in cima al paletto che si ergeva dal terreno. Era d'oro, non di bronzo come sua madre, e la pelle sembrava scintillare anche in quella distesa priva di luce.

Il principe ordì una smorfia. «Mio padre ha abbassato l'età per il reclutamento. Avrà strappato sì e no un centinaio di mocciosi alle loro case, mi domando cosa spera di ottenere.»

Non c'era davvero bisogno di rispondere a quella domanda: carne da macello da piazzare sugli avamposti. Una prima barriera da abbattere, per dare il tempo agli uomini di caricare le frecce e le catapulte. Giovani vite sprecate in favore della tempistica. Occhieggiò la tenda poco lontano, dove il sovrano stava discorrendo con alcuni consiglieri circa il mucchio di missive e documenti inviati da Gardros, e non poté fare a meno di indagare i loro volti, chiedendosi in che modo suo fratello stesse mantenendo il regno. A rigor di logica sarebbe stato più saggio per Kytos rimanere a palazzo, proteggere la successione, ma in fondo sia lui che Vasilis si erano silenziosamente detti d'accordo: suo fratello era più tipo da carte, e lui da armi.

Strappò la spada conficcata nella terra e la rinfoderò. «Hai bisogno di qualcosa?»

Beathan lasciò che il silenzio spaziasse a sufficienza da elettrizzare l'aria. Poi, gli riservò un sorriso da faina: «Facciamo un giro».

⚜️

Irti alberi scuri si allungavano al cielo come dita di strega.

Fosse stato più assennato, Kytos si sarebbe imposto sulla scelta azzardata di vagare privi di scorta nei dintorni dell'accampamento assieme ai quattro Vallevento. Ma bacchettare un suo pari gli era sembrato oltremodo noioso; pertanto, si era lasciato scivolare di dosso quel lieve disappunto.

Beathan procedeva sulla destra, oscillando al ritmo della cavalcatura bianca. Gli zoccoli dei cinque destrieri affondavano nella neve creando una successione di colpetti attutiti. Nubi di condensa si libravano davanti ai volti a ogni respiro. Cavalcavano al passo da una buona mezz'ora, ma nessuno aveva osato aprire bocca. Kytos scrutò il volto austero di Kalev, i ricci color rame, le iridi attente che vagavano fra gli alberi.

«Dubito che tu abbia chiesto di me per un'amabile scampagnata» esordì il principe di Gardros.

«Dubiti male.» Beathan gli indirizzò un sorriso che non avrebbe saputo se interpretare come amichevole o meno, infarcito d'ironia qual era. «Durante la traversata ci sono state poche occasioni di confrontarci.»

«Un modo gentile per dire che l'hai evitato.»

«Le tue impressioni non sono del tutto sbagliate. Ma ormai tu e nostra sorella siete vincolati, che ci piaccia o no, e credo sia bene conoscerci. Non sono un grande sostenitore dei conflitti inutili, e un giorno tu siederai sul trono di Gardros, mentre io su quello di Fearann Sìthe.»

«Sempre che domani un gigante non finisca per usare i nostri femori come stuzzicadenti.» Kytos si voltò verso il giovane dal ghigno scanzonato e i medesimi capelli biondo grano di Beathan. Hotys si portò indice e medio alle tempie a mo' di saluto. «Io sono quello ottimista.»

Theodoric di Vallevento gli fece eco con una risata che tradì tutto il suo nervosismo. Kytos, dal canto suo, inarcò il sopracciglio: «Si vede».

Tornò a Beathan. «Mi trovi d'accordo. Credo che possiamo lasciarci alle spalle la nostra muta gara a chi ha il cazzo più grosso e cercare semplicemente di uscirne vivi.»

«Concordo.» Beathan fece una pausa e sogghignò: «Ma il cazzo più grosso ce l'ho io».

Il crepitio di un rametto spezzato si insinuò nella conversazione. Kytos tese le orecchie e fece scattare lo sguardo verso sinistra, oltre il capo di Kalev, che aguzzò lo sguardo verso la selva. «Avete sentito?» domandò, tirando le redini.

«Potrebbe trattarsi di un animale» azzardò Theodoric, la voce ridotta a una specie di squittio. «Insomma, siamo pur sempre in una foresta.»

«Una foresta ai piedi del Dorso dei Giganti.» Kytos serrò la mandibola e sguainò la spada, a cui succedettero altri quattro sibili metallici. «Vado avanti io.»

«No.» Kalev gli sbarrò la strada. «Sei il primo in linea di successione e hai promesso a nostra sorella di tornare. Non ti è permesso metterti in pericolo fuori dal campo di battaglia, e non starò qui ad assecondare la tua voglia di tirare le cuoia.» Con il mento sollevato, altero, il principe non ammise repliche. «Apro io la fila.»

Riluttante, Kytos annuì. Il gruppetto si diresse verso la fonte di rumore, infilandosi tra arbusti morti e grovigli di rovi. Il principe di Gardros studiò il terreno: la neve alta e morbida era stata dissestata dagli zoccoli, ma non presentava tracce umane, segno che nessuno doveva essere passato di lì. In compenso, si ritrovarono a seguire una scia di impronte grosse quanto un pugno.

«La teoria di Theodoric è giusta» disse, «deve trattarsi di un animale».

Cercò conferma nell'espressione del più giovane dei Vallevento, che corrugò le sopracciglia.

Hotys si sporse verso il ragazzino. «Riesci a capire di cosa si tratta?»

«Non ne sono sicuro» mormorò Theodoric, «ma considerando il tipo di forma e il fatto che sia un quadrupede, potrebbe essere uno Spazzacadaveri».

«Credevo preferissero i climi caldi» commentò Kytos.

Theodoric si succhiò le labbra. «È così. Per questo ho detto che non ne sono sicuro.»

«Ignoralo, è un finto modesto» fece Hotys. «Se un falco gli passasse sopra la testa sarebbe in grado di dirti a quale famiglia appartiene solo osservandone l'apertura alare.»

Theodoric si schiarì la voce. «I branchi di Spazzacadaveri migrano soltanto se sono sicuri di imbattersi in grosse prede. Prede che prima o poi moriranno e li sfameranno per settimane. Questa è la loro logica.»

Hotys sogghignò. «Allora l'intero esercito dell'Espen deve apparirgli come un sontuoso banchetto.»

Attraverso la boscaglia intravidero due ombre bluastre procedere nella loro direzione, sbavando e fremendo. Due paia di occhi cremisi sbocciavano nel bel mezzo della peluria scura, arruffata tra le orecchie canine. I segugi non indugiarono: si lanciarono verso il gruppo di principi, colpendo il terreno con le grosse zampe.

Kalev mulinò la bastarda e tranciò la testa del primo con un movimento netto, ma il secondo Spazzacadaveri si avventò addosso alla cavalcatura di Hotys. Il cavallo nitrì e s'impennò, obbligando il ragazzo ad aggrapparsi al collo per non sbilanciarsi all'indietro. Beathan spronò il destriero ad aggirare il gruppo e raggiungere il fratello, appena in tempo per conficcare la lama tra le costole della creatura, che uggiolò un ultimo anelito e si afflosciò nella neve intrisa del suo sangue.

Hotys ansimò e sputò a terra, imprecando: «Ed ecco perché preferisco i gatti».

Kalev ripulì la spada contro la coscia e la infilò nuovamente nel fodero. «Andiamo. Non dobbiamo essere troppo lontani dalla preda.»

Il gruppo riprese la marcia nel silenzio del fitto. Un paio di corvi gracchiarono tra i rami, guardiani lugubri di quel mondo senza gente. Seguirono le impronte fino al punto in cui gli alberi iniziarono a diradarsi, aprendosi in uno slargo all'ombra delle montagne.

Kytos trasse a sé le redini. Schiuse le labbra riarse dal gelo, ma il gelo stesso cristallizzò i suoi pensieri sulla lingua. Il gruppo contemplò lo spettacolo che gli si presentò davanti.

Ossa grandi quanto un uomo affioravano dalla neve, con frammenti di carne marcescente ancora attaccati al bianco. Era una prigione di costole, di zampe rattrappite e artigli che ghermivano il terreno. Un pitone di vertebre svirgolava dipanandosi dal retro del corpo. Il cranio, alto almeno quanto uno dei principi a cavallo, ospitava una chiostra di zanne acuminate. Dalla fronte si innalzavano corna ritorte. Sul corpo, infine, spuntavano due estremità pentadattile che presentavano ancora stralci di membrana tesa.

«È un drago.» Fu Theodoric a mettere sul piatto la verità che tutti si stavano rifiutando di pronunciare. «Ci sono i draghi sul Dorso del Giganti.»

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