⚜️ Non sono vostro nemico
Il fango e le foglie si appiccicarono ai lembi d'organza.
L'abito fluttuò nel gelo di quell'inverno ribaltato e gli alberi del bosco che le scorreva di fianco si tramutarono in una macchia indistinta. Eve socchiuse le palpebre quando rovesciò il capo per ammirare il cielo bianco e troppo luminoso. Una risata le risalì dal fondo della gola.
Nonostante fosse ancora frastornata, ora correva libera e senza una meta, senza un obbligo a cui adempiere. Questa era l'unica cosa a contare.
Le lacrime le rotolarono lungo le guance simili a diamanti liquidi. Aveva la sensazione di essersi appena scaricata un peso dalle spalle, soffocante ma divenuto invisibile con l'abitudine. Denaro e belletti non erano che frivolezze destinate a svanire se paragonati al modo in cui quel qualcosa ardeva in lei.
Le sarebbero bastati un giaciglio qualunque, del fuoco e un piatto caldo, e poi viaggiare, viaggiare fino a sentire male alle gambe e non poterne più, magari andare a vedere il mare d'inverno e camminare sulla sabbia. Un romanzo, un tetto di stelle e la pioggia leggera a bagnarle il viso. Di quante cose aveva bisogno una persona per essere felice?
Lo scrosciare del fiume alla sua destra le fece mutare direzione, attraversare gli alberi secchi e scuri che si torcevano contro il cielo. Ma quando giunse sulla sponda, il terreno e la neve sotto i suoi piedi franarono e i flutti neri si richiusero sopra la sua testa.
La caduta le spezzò le ali e tutto fu oscurità.
⚜️
Un violento spasmo la attraversò da capo a piedi e tossì più volte, riversandosi sul fianco. Le ci vollero alcuni minuti per riprendere fiato e rendersi conto di aver rimesso acqua. Con le lacrime agli occhi, tirò su col naso e i brividi di gelo la attraversarono a ondate. Si strinse le braccia al petto per scaldarsi e fu a quel punto che qualcuno le depositò qualcosa di caldo sulle spalle.
Eve si avvolse nel mantello di pelliccia, tremando così forte negli abiti bagnati da sentirsi di cristallo – i denti che battevano, le ossa che si scontravano fra loro, la pelle sul punto di spaccarsi. Qualcuno era inginocchiato di fianco a lei, indeciso se toccarla o meno. Eve si chiuse nel suo silenzio.
Ero così vicina.
Osò voltare il capo verso l'uomo di fianco a lei, e le mancò il fiato quando, per un breve istante, incrociò gli occhi di Kytos.
La mano destra le pulsava. La fece spuntare dalle falde del mantello e la osservò: al centro del palmo era incisa una ferita superficiale, una stria di sangue ormai rappreso. Non osò chiedere, ma le bastò che il principe le mostrasse una fiala contenente del liquido vermiglio perché tutto fosse chiaro.
«Non avete il mio consenso» soffiò.
«Bastano il sangue della donna e le parole di un sacerdote perché l'unione sia legittima. Che lo vogliate o no, porterò questa fiala al tempio.»
Nonostante la fermezza della voce, percepì comunque qualcosa di molto simile al senso di colpa vibrare in essa.
«No. Sono una strega, un demone...»
«Convincere il sacerdote non è stato semplice.»
Le parole che rotolarono fuori dalla bocca dell'Ammazzalupi furono pietre, poi frana, e la travolsero. Eve si spense. «Cosa succede, adesso?»
«Questo lo chiedo a voi.» Kytos la fissò. Il suo modo di farlo era cambiato. Ora la studiava come un rompicapo irrisolvibile, qualcosa che stava valutando da quale prospettiva esaminare. «Quello che è accaduto al tempio...»
«Non so perché sia successo. Non credevo di esserne capace.»
«Non vi viene in mente che potesse esserci un motivo se vostro padre voleva segregarvi?»
Eve mandò giù un groppo che pareva fatto di roccia e si obbligò a scontrare di nuovo lo sguardo con quello dell'Ammazzalupi, con la consapevolezza di aver appena mandato a monte tutto. Ora la gente l'avrebbe additata chiamandola mostro, e la sua già bassa credibilità si sarebbe tramutata in disprezzo.
Meglio odiata che ignorata... giusto?
«Non volevo fare del male a nessuno. Solo andarmene, lo giuro.» La voce le tremò a tal punto che fu sul punto di sciogliersi in un pianto disperato.
Kytos sospirò e si lasciò crollare a terra, a gambe incrociate. Si aggrondò, esalando un sospiro colmo di stanchezza. Rimasero in silenzio a lungo. «Mi riferivo anche ad altro che non fosse la vostra, per così dire, esibizione.»
«E io che credevo fosse l'argomento principale» sospirò. «Di cosa si tratta?»
«Di quello che avete detto. Il fatto che non mi vogliate.»
«Così come voi non volete me.»
«Ma non siete certamente voi, il problema.»
Eve lo scrutò, scettica. «Prego?»
«Non posso biasimare il vostro comportamento. Mi rendo conto di avervi mancato di rispetto in più di un'occasione e credo meritiate delle spiegazioni, oltre che delle scuse.»
Eve aveva troppo freddo per elaborare una risposta articolata, almeno finché un dubbio non la colse. «Un attimo. Dove sono i cavalieri?»
«Mio padre ha dato l'ordine di cercarvi, così li ho depistati. Fortunatamente, la lealtà di Lysandros nei miei confronti è molto più forte di quella che nutre per il Re. Non verranno, non temete.»
Lei tacque. Qualunque cosa stesse accadendo, era meglio che si svolgesse in fretta. «Allora vi ascolto.»
Il principe si alzò e le porse la mano per aiutarla a mettersi in piedi. Le ginocchia di Eve tremarono e dovette aggrapparsi al suo mantello per non cadere.
«Non riesco a camminare.»
«Abbiate pazienza. Tra poco saremo al castello e potrete scaldarvi.»
Le avvolse un braccio attorno alla vita per sorreggerla e la scortò al destriero lì accanto, le briglie allacciate attorno a un ramo perché non si allontanasse. Con una presa che non tradì alcuno sforzo, la issò sulla sella e recuperò le redini. Guidò la cavalcatura in direzione del sentiero.
«A quanto pare avete saputo di Maia.»
Eve si strinse nelle spalle in un silenzio assenso.
«La conobbi sul campo di battaglia. Abbiamo avuto una relazione piuttosto burrascosa, ma fu anche... vera, in qualche modo. Piombò nella mia vita destabilizzando tutto ciò che conoscevo. Eravamo una coppia anticonvenzionale, ognuno con i propri spazi e le proprie avventure da vivere, ma entrambi iniziammo a provare qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. So che Lysandros vi ha parlato della leggenda della successione.»
Eve assentì.
«Maia non possedeva sangue nobile, essendo un semplice membro dell'esercito. Lottò tutta la vita per poter entrare nell'ordine dei cavalieri di palazzo, ma nonostante i suoi sforzi finiva sempre per essere surclassata da qualche ragazzino viziato figlio di famiglie importanti che lei stessa aveva allenato. Cercai di convincere mio padre, ma a suo dire l'élite di guerrieri non era posto per una donna.
«Lui fece di tutto per separarci. Mi sforzai di assecondare il suo volere, in fondo ne comprendevo le ragioni, ma non mi fu possibile: era dura arginare qualcosa già esploso da tempo. Allora mio padre decise per entrambi. Le affidò così una missione suicida sul Dorso dei Giganti, in segreto, millantando che se fosse tornata vittoriosa avrebbe finalmente avuto la sua benedizione come cavaliere. Ovviamente, Maia accettò. Era fatta così. Ma non tornò mai più.» Kytos si concesse una pausa per deglutire e riordinare le idee. «Accadde l'anno scorso ed è ancora difficile parlarne, per me, figurarsi pensare a un matrimonio. Non mi è stato concesso il tempo di elaborare il lutto, ma d'altronde è ciò che accade quando si ricopre una posizione come la mia: si fanno le cose all'improvviso, di fretta, ma rimangono permanenti.»
Eve si lasciò cullare dalle lente oscillazioni del destriero che avanzava nella neve. «Mi dispiace per la vostra perdita.»
«Vi ringrazio.»
«Per quel che vale, non ho mai avuto alcuna intenzione di mettervi fretta. Ma credo fosse piuttosto evidente dallo spettacolo che ho dato al tempio.»
Kytos accennò un sorriso. «Sì, ho notato assieme a tutta la corte.»
Eve avvampò, guardandosi le mani. Una cascata di ricordi le si riversò nella mente. Il calore che aveva provato, la sensazione di potere che si era liberata da lei come se un otre dei venti fosse stato finalmente scoperchiato dopo secoli.
«Non so cosa stessi pensando» mormorò. «Se fossi davvero riuscita a scappare avrei condannato Fearann Sìthe a una guerra inutile.» Si strinse più che poté nella pelliccia e abbassò lo sguardo sul principe che camminava alla sua destra, redini alla mano. Non dissero nulla per i successivi minuti, con solo lo zufolare delle civette tra le fronde a far loro compagnia. «Avrete tutto il tempo di riprendervi, per quel che mi riguarda» disse.
Kytos le rivolse finalmente lo sguardo. C'era una quieta rassegnazione, in esso. «Quindi acconsentite. Cosa vi ha fatto cambiare idea?»
Eve scrollò le spalle. «Ero così felice, quando sono scappata... ho pensato che finalmente sarei stata libera da questa prigione di regole in cui sono nata. Ma ora che avete spiegato la vostra storia credo di aver capito che la mia scomparsa porterebbe delle conseguenze. E, con il mio nome, non posso limitarmi a svanire. Forse posso fare qualcosa per il mio paese, una volta tanto.»
«In questo non siamo poi così diversi.»
«Trovate?»
«Se non fossi il maggiore tra i miei fratelli le cose sarebbero andate in un altro modo. Prendere il posto di mio padre mi terrorizza, non sono tipo da posizioni diplomatiche.»
«Siete un uomo d'azione, suppongo. Uno che preferisce gozzovigliare con i propri compagni e battersi, piuttosto che firmare carte.»
Kytos la guardò di nuovo e ci fu un'amara dolcezza, nel modo in cui lo fece, che le attorcigliò le viscere. Perché la scrutava in quel modo, ora? Che motivo aveva?
«Cos'è cambiato?» chiese Eve, guardandolo. «Perché dovrebbe essere diverso, adesso?»
Kytos parve riflettere. «Non siete esattamente come vi avevo immaginata» osservò alla fine.
Eve e abbassò il capo, studiandosi le dita congestionate. «Sì, nemmeno io.»
Già.
Quello che aveva fatto non era normale, ma sacrilego: la magia degli spiriti non sarebbe mai dovuta entrare all'interno dei templi. Inoltre, se era stata una forza a guidarla, chi diceva che fosse in grado di controllarsi? Significava che fosse pericolosa? Non desiderava fare del male o portare dolore, non sarebbe mai stata capace di perdonarselo: tutto quello che chiedeva era la possibilità di non vivere in balia degli eventi, di rivedere la sua casa, di abbracciare i suoi fratelli. E ora, la gente di Gardros l'avrebbe odiata più di prima. Era abituata a essere diversa, non temuta.
Quasi le avesse letto nel pensiero, Kytos fermò il destriero e poggiò la mano libera sulla sua. «Nessuno vi torcerà un capello» disse. «Vi proteggerò.»
Avvertì un vuoto allo stomaco, una sorta di placido tepore, mentre il battito cardiaco accelerava la corsa. Quelle poche parole le rubarono il respiro. Eve abbassò gli occhi sulle loro mani, i guanti di pelle che scaldavano le sue dita ceree e arrossate. «Avete sentito cosa hanno detto di me. Mi odieranno.»
«È possibile. Ma nemmeno Gardros può sottrarsi ai suoi doveri verso Imes. Sta a voi far sì che quella paura si tramuti in rispetto. Dalla paura sbocciano le rivolte, dal rispetto la concordia fra gli ordini e la forza di un regno. Vi aiuterò. In fondo, sostenervi sarà il mio compito, d'ora in poi.»
La vista le si offuscò e si affrettò a nascondere il viso tra le mani. Non poteva, non doveva iniziare a piangere come una bambina. «Ah, maledizione.»
Lo sentì sbuffare una risata e si rese conto di non poterlo sopportare. Doveva farlo smettere, prima che si scavasse una fossa nel terreno e vi ci seppellisse. Così scivolò giù dalla sella, ignorando le proteste, gli gettò le braccia al collo e gli si strinse addosso, nascondendogli il volto contro il petto. Percepì il suo corpo tendersi per la sorpresa, ma non la respinse.
«Se continuerete a parlare così inizierò a credere che potrebbe addirittura andare tutto bene» sussurrò, perdendosi nel calore di quel contatto. «Non illudetemi.»
«Non voglio farlo.» Le avvolse la vita sottile con un braccio. «Ma le cose potrebbero essere imprevedibili. D'altronde, voi lo siete. Siete piombata qui come una specie di uragano.»
«Perché voi non sapete tenervi stretta una donna.»
«Sì.» Esitò. «Accade, se non mi importa nulla di lei.»
Eve lo colpì, un debole pugno sul petto, e alzò la testa.
«Volete dirmi che sono un idiota?»
«Sì. Non dovete mentire.»
Kytos arretrò di poco e la afferrò per le spalle – una presa inaspettatamente gentile, come del resto lo era stata quella conversazione nel cuore della foresta innevata. «Eve.» Il modo in cui pronunciò il suo nome, per la prima volta, la vincolò a quella terra: capì, in quel momento, che non sarebbe fuggita mai più. «Non sono vostro nemico.»
Lei annuì. In quel momento, voleva crederci disperatamente.
«Andiamo a casa» le disse. Perché era quella casa sua, ora.
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