The power inside
"Tutti commettiamo errori".
Se qualcuno gli avesse detto che proprio lui, Sherlock Holmes, "l'uomo più arrogante dell'intera galassia"-parole di una sua vecchia conoscenza, una venusiana di nome Sally Donovan-avrebbe un giorno pronunciato una frase simile, gli avrebbe riso in faccia.
Ma Sherlock, in quel momento, era ben lontano dal ridere: le sue cellule celebrali erano infatti impegnate ad analizzare maniacalmente tutto ciò che Anderson gli aveva confessato, parola per parola.
"Non sapevo che la senatrice sarebbe partita con lui."
Il suo "sesto senso"-o "senso di ragno", ricordò, sul volto l'ombra di un sorriso divertito-aveva avvertito sì un pericolo: ma non aveva mai riguardato la senatrice, ma solo lui.
E questo era stato il suo primo errore.
E non il più grosso.
Aveva commesso il suo più grande errore nel momento in cui aveva pensato di poter avere una vita diversa. Di poter cedere ai sentimenti.
Tutto ciò non aveva fatto altro che mettere in pericolo le persone che aveva imparato ad amare, usate ora come ostaggi per attirarlo in una oscura trappola, di cui ancora non riusciva a comprendere del tutto le motivazioni: Moran era stata solo una mera pedina, in un gioco molto più grande. Era stato usato per portare lui in una trappola. Era chiaro che non puntava a condurlo da Magnussen, ma addirittura dall'Imperatore stesso. Non solo, ma quest'ultimo aveva puntato solo a lui, anziché sull'intera Alleanza Ribelle.
Ma perché proprio lui?? A quale scopo??
Era solo un semplice contrabbandiere... Cosa mai poteva giustificare un simile macchinoso piano?
Stai mentendo a te stesso.
Tu non sei solo un contrabbandiere.
Sei molto di più.
Lo sei sempre stato...
Sherlock strinse i denti, tentando di scacciare quell'improvvisa voce dalla sua testa che, per qualche misterioso motivo, assomigliava incredibilmente a quella fastidiosa di suo fratello.
Lui non era più un Jedi.
Anzi, non lo era mai stato!
Si ribadì interiormente con forza quelle affermazioni, come se stesse davvero discutendo con Mycroft.
Ma ciò che davvero lo irritava è che aveva ragione: stava mentendo a se stesso.
D'impulso, la sua mano corse alla destra della cintola, dove pendeva la spada laser: non era ancora del tutto certo del perché avesse sentito la necessità di portarla. Era in lotta con se stesso, e in tutti i sensi.
Si affannava a dire che non era più un Jedi: eppure, dopo l'incontro con John, aveva ripreso l'addestramento, in quegli ultimi due anni.
Ripeteva di non avere sentimenti, o un cuore, eppure si era lasciato incantare da due occhi nocciola e dal dolce sorriso di una donna forte e determinata come poche.
Si ostinava a dichiararsi indifferente alla vita altrui, eppure si era buttato in una tormenta per salvare John.
E non era nemmeno la prima volta che rischiava la vita a discapito della sua, da quando si erano conosciuti.
Ma, a parte tutte quelle contraddizioni che lo dilaniavano, Sherlock aveva, dentro di sé, una sola certezza: che, qualunque cosa sarebbe accaduta, da quel momento in poi, sul sistema di Barts, avrebbe cambiato tutto, in un modo o nell'altro...
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-Sherlock... ci siamo.
La voce del generale Lestrade-l'unico da cui aveva accettato di farsi accompagnare-lo riscosse dai suoi pensieri: aveva faticato non poco a convincere il fratello a permettergli di recarsi lì senza ulteriore scorta. E non era del tutto certo che sarebbe rimasto buono buono alla Base... Gli aveva addirittura affidato BS-221, anche se il droide aveva protestato non poco...
Il pianeta dove erano diretti distava a meno di un parsec da Dagobah, perciò con la velocità luce vi erano giunti in un batter d'occhio. Era un pianeta inusuale, sostanzialmente una piccola città satellite dell'Impero, sorretta unicamente da un sottile stelo, quasi invisibile: la città, quindi, pareva fluttuare autonoma tra le candide nuvole. Un particolare struttura di quella città attirò lo sguardo di entrambi: erano due alte torri, collegate da un lungo ponte che dava su un immenso condotto: era probabilmente il reattore che permetteva alla città di restare in orbita.
Era lì, che erano diretti.
L'espressione del corvino si incupì e, mentre Lestrade eseguiva le manovre di atterraggio verso l'hangar interno della struttura, le sue dita sfiorarono la spada laser per l'ennesima volta.
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È ridicolo.
Non sono uno Jedi.
John si stava ripetendo quelle frasi per l'ennesima volta in dieci minuti: dieci minuti in cui era rimasto quasi completamente solo nella stanza della tortura, eccezion fatta per un Assaltatore che, in quel momento, gli dava le spalle, imbracciando un fucile blaster.
Per l'ennesima volta si domandò cosa diavolo significassero le immagini del passato di Sherlock che aveva scorto con l'occhio della mente poco prima. Ma non trovò nessuna risposta.
Ripensò a quel formicolio che aveva avvertito, quello che era accaduto nella caverna del Wampa, il suo modo di bloccare la mente del Sith... si sentiva sempre più confuso.
Però si era reso conto di una cosa.
Ad eccezion fatta per la sua resistenza al condizionamento-che, rivedendo questi ricordi con più chiarezza, si era davvero reso conto di quanto potente fosse sempre stata-quella strana capacità che non si era mai reso realmente conto di possedere si era acuita, chissà perché, da un preciso momento: da quando aveva incrociato due occhi di ghiaccio in una taverna di uno spazioporto. Da quando aveva incontrato l'uomo che sarebbe diventato il suo migliore amico: Sherlock Holmes, il contrabbandiere.
Un lievissimo sorriso solcò le sue labbra, ma svanì subito: d'accordo, non aveva alcuna nessuna risposta per i mille dubbi che lo stavano assillando, ma una certezza l'aveva. Ed era stato proprio Darth Wind, involontariamente, a dargliela, con quella visione.
Lui e Molly erano un'esca: il Sith, per qualche oscuro motivo, voleva Sherlock. Il contrabbandiere sarebbe venuto a salvarli-altra sua inconfutabile certezza-e sarebbe, così, caduto in trappola. Dovevano fuggire prima che lui arrivasse.
Doveva salvare il suo migliore amico!
Si sentì pervaso da uno strano calore, mentre sentiva montare in lui coraggio e determinazione in egual misura; il suo sguardo cadde sulle fasce metalliche che gli imprigionavano i polsi e le caviglie.
E, di nuovo, quella sensazione lo sommerse, ma amplificata: era la medesima che aveva provato quando si era opposto all'intrusione mentale del Sith.
Pur ancora pieno di dubbi, paure e incertezze, si affidò completamente ad essa, sospirando, gli occhi fissi sulle fasce: sentiva quasi ogni singola cellula del suo corpo vibrare.
Un brivido caldo percorse la sua spina dorsale. La sua mente venne ripetutamente bombardata da strani lampi di luce...
E le fasce metalliche si aprirono di scatto.
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L'assaltatore varcò la porta della cella: era il turno della senatrice di esser sottoposta alla tortura.
Il soldato si concesse un sorriso maligno: la donna era distesa su un fianco, sulla panca metallica, profondamente addormentata.
-Sveglia, Altezza!-la apostrofò, sprezzante: ma la donna non reagì.
La scosse rudemente per una spalla, ma, ancora, non ottenne alcuna reazione. Sbuffò: che fosse svenuta?
Le voltò la schiena, premendo poi un pulsante al lato del suo casco, dove era posizionata la trasmittente.
-Ho...-iniziò: ma le parole successive non furono altro che un rantolo strozzato, mentre Molly stringeva un braccio intorno al collo con tutta la sua forza. L'imperiale si dimenò furiosamente sotto la sua stretta, ma non riuscì a sfuggirle; emise un ultimo gemito strozzato e crollò a terra, svenuto.
Trattenendo a stento un sorriso trionfante, Molly gli requisì il blaster, e uscì dalla porta rimasta aperta, per poi chiuderla dietro di sé: ora la cella aveva un nuovo inquilino...
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L'imperiale, a quel rumore, si girò di scatto, sollevando il fucile; ma John non si lasciò cogliere impreparato: rotolò via dalla poltrona con inaudita rapidità e si lanciò addosso al suo avversario. Poi, con una forza e una velocità che sorprese lui stesso, lo disarmò con alcune mosse apprese durante l'addestramento sotto l'Impero. Infine, con l'arma appena requisita, gli sparò contro, uccidendolo.
Per un lungo momento, il biondo non riuscì nemmeno a muoversi: rimase solo lì, ansimante, l'arma tra le mani, il cadavere dell'uomo a terra, il cuore che batteva all'impazzata. Ma non stette a domandarsi come diavolo avesse fatto: sarebbe stato solo una perdita di tempo. E lui non ne aveva.
Si fiondò al terminale della porta: i numeri giusti da premere sembrarono galleggiare davanti ai suoi occhi. Ma non stette a domandarsi come diavolo fosse possibile: si limitò a premerli e a fiondarsi fuori dalla stanza, impugnando il fucile con ancor più veemenza, i nervi tesi. La prima cosa che doveva fare era tornare alle celle, e liberare Molly.
E poi forse, se fossero riusciti entrambi a tornare a casa sani e salvi, forse si sarebbe arrovellato su quei nuovi poteri appena scoperti...
Ma mentre percorreva il lungo corridoio, un rumore di passi in avvicinamento lo fece sobbalzare.
Si appiattì contro un muro d'angolo, ma era ben consapevole che non avrebbe potuto evitare lo scontro: quel corridoio non offriva nascondigli.
Ma ora sono armato, bastardi!, pensò, in un moto di rabbia vendicativa, stringendo i denti, Pagherete tutto quello che ci avete fatto passare!
Strinse le mani intorno al fucile, tanto da sbiancarsi le nocche: uscì poi allo scoperto, il fucile puntato...
... E si trovò di fronte Sherlock e Lestrade, anche loro con i blaster spianati.
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John, superata la sorpresa, si sentì pervaso da una gioia immensa, ma anche dallo sconforto, mentre abbassava l'arma.
-Sherlock! Non saresti dovuto veni-...!
Non riuscì a completare la frase, perché quest'ultimo-dopo aver abbassato il blaster e averlo fissato incredulo per mezzo secondo-l'aveva appena stretto in un abbraccio impetuoso e decisamente energico.
John rimase interdetto: in due anni che si conoscevano, Sherlock non l'aveva mai -mai- abbracciato.
Gli aveva dimostrato il suo affetto e la sua amicizia in modi molto diversi: una leggera stretta sulla spalla, un mezzo sorriso, uno sguardo... ma un abbraccio, mai.
Finalmente, il contrabbandiere si staccò da lui, ma il biondo notò che i suoi occhi, di solito freddi come il ghiaccio, erano pieni di preoccupazione, ma anche di sollievo, mentre lo controllava da capo a piedi.
-Stai bene??-gli chiese infine, e anche la sua voce era molto meno fredda del solito.- Sei ferito?? Quei bastardi ti hanno torturato, vero??
Il pilota rimase, inizialmente, stupito: come accidenti faceva a saperlo??
Poi si diede dell'idiota: era un ex Jedi, dopotutto...
-S-sì, ma sto bene -lo rassicurò, con un piccolo sorriso, che rivolse poi anche a Lestrade, che era anche lui sollevato, e forse anche sorpreso dal gesto di Sherlock quanto John.
-Dov'è Molly??-gli domandò poi il corvino, con palese preoccupazione nella voce. Il pilota si incupì.
-Seguitemi.
Mentre tutti e tre imbracciavano di nuovo i blaster, e avanzavano cauti e in silenzio lungo i corridoi, Sherlock non riuscì più a trattenersi.
-... Come hai fatto a fuggire??-gli domandò, incredulo.
John soffocò a stento una risata, limitandosi a scuotere la testa.
-Non mi crederesti, se te lo dicessi...
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