Il coraggio del soldato
Naboo
Presente
-... Papà? Va tutto bene?
-Perché non continui la storia?
John trasalì, e tornò faticosamente alla realtà: per un attimo gli era sembrato di essere tornato di nuovo lì, su quel lontano pianeta tra le nuvole; entrambi i bambini lo stavano guardando con evidente preoccupazione, e si scoprì imbarazzato: da quanto tempo era rimasto lì in silenzio, lo sguardo vacuo, immerso in quel cupo ricordo?
Si accorse anche che una sottile lacrima era scesa sulla sua guancia, e subito la asciugò: regalò poi ai due piccoli un sorriso rassicurante e si schiarì la voce con qualche colpetto di tosse, distogliendo lo sguardo.
-Non piangere, papà!-esclamò Rosie, dispiaciuta, avvicinandosi e
stringendogli il ginocchio.
-Non ci piace vederti triste!-concordò Victor, posando anche lui una mano sul suo altro ginocchio, e togliendo col dito un ricciolo che gli era finito sull'occhio.
Il biondo rimase commosso dalla preoccupazione dei due bambini.
-Non sto piangendo, tranquilli. Era solo il vento-assicurò a entrambi, pregando di non avere gli occhi ancora lucidi.-Avrei solo bisogno di...
D'improvviso, si sentì stringere delicatamente una spalla, mentre una mano dalle unghie laccate di un leggero rosa pallido e il braccio coperto da una veste azzurro cielo gli porgeva un calice di cristallo colmo di un liquido ambrato.
-... Ho pensato che ti servisse qualcosa da bere-gli sussurrò all'orecchio una dolce voce in tono affettuoso e complice.
-In effetti, hai indovinato...- Il biondo sorrise, voltandosi verso la sua interlocutrice, e prendendo con gratitudine il calice che gli porgeva.
Bevve poi un generoso sorso, e subito il groppo alla gola che era venuto sfortunatamente a crearsi si sciolse pian piano, mentre il corroborante liquido scivolava nella sua gola.
Una volta che ebbe mandato giù quel sorso, sollevò ironico un sopracciglio verso la donna che glielo aveva così gentilmente offerto.-Come lo sapevi? Non dirmi che pure tu hai poteri da Jedi, eh!
La giovane emise una risata cristallina scuotendo la testa, e facendo così ondeggiare appena i pendenti di acquamarina che portava ai lobi delle orecchie.
-Naaa... semplice intuito femminile-replicò con un sorriso furbo e depositando un rapido bacio sulle labbra del marito, seguito poi da un leggero occhiolino.-E poi, è da un po' che ti stavo ascoltando. Sei un ottimo narratore. Sono curiosa di conoscere il seguito della storia!-
aggiunse: accarezzò poi sul capo Victor e a Rosie, che erano corsi subito ad abbracciare la nuova arrivata.
Mentre i due tornavano a sedersi sui cuscini, anche lei si accomodò su una sedia di vimini della terrazza, drappeggiandosi sulle spalle la stola di seta azzurra trasparente, per proteggersi da un leggero venticello che aveva preso a soffiare.
John accettò il complimento con un sorriso e un cenno del capo, grato che sua moglie, Mary, fosse arrivata, e che lo avesse aiutato a riscuotersi da quel momento di intensa emozione: nonostante fossero passati ben più di otto anni, l'istante in cui aveva visto Sherlock Holmes, il suo migliore amico, buttarsi da quel ponte, era uno dei ricordi più dolorosi e devastanti della sua vita.
Ogni volta che gli capitava di ripensarci, oppure quando la raccontava, provava le medesime emozioni di quel giorno: incredulità, sconcerto, dolore, disperazione... e il periodo trascorso dopo la morte del suo migliore amico era stata addirittura peggiore: una delle sue poche gioie era stato il fortuito incontro con Mary, durante una missione di salvataggio su Geonosis.
Ella si era unita quasi subito alla loro causa, diventando presto una valida alleata, e dimostrando un'abilità non comune con ogni genere di arma.
Per il pilota ribelle era stato quasi sin da subito amore a prima vista, sin dal primo momento in cui aveva posato lo sguardo sui suoi capelli biondo miele, e quegli occhi celesti, vivaci e intelligenti. Aveva poi avuto modo di conoscere il suo carattere a tratti forte e determinato, da vera guerriera, che celava dietro un viso d'angelo: ma nemmeno lei aveva potuto scacciare il dolore, la tristezza e la rabbia di quei momenti...
Si schiarì nuovamente la voce, sorbendo un ultimo sorso del liquore pangalattico, dolce e rinfrescante al tempo stesso.
-... Bene, bene, ragazzi. Mi scuso per l'interruzione, ma ora possiamo riprendere. E con una spettatrice in più!-scherzò, rivolgendo un'occhiatina a Mary, che sorrise di rimando, mentre i piccoli applaudivano entusiasti.
-Dopo quel giorno... dopo aver visto Sherlock morire sotto ai miei occhi, la mia vita non fu più la stessa.-La voce del pilota ribelle si fece bassa, il tono cupo, mentre passava distrattamente il pollice sul contorno del calice.-Per mesi, ebbi un solo obiettivo: uccidere tutti i soldati imperiali che mi capitavano a tiro. Ero invaso da una rabbia accecante. Ricordo che, durante una missione, per poco non mi feci ammazzare: la rabbia non mi permetteva di essere lucido durante le missioni, come invece ero sempre stato.
Sospirò, alzando lo sguardo verso Rosie e Victor, che avevano entrambi un'espressione di tristezza nei loro tratti infantili.
-... Tuttavia, qualcosa... o per meglio dire, qualcuno... avrebbe cambiato le carte in tavola-continuò John, e un sorriso fece finalmente capolino sui loro volti.-Ma, credetemi, fu qualcosa di assolutamente inaspettato...
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Pianeta Nibiru
Passato
Nove mesi dopo
John si lasciò cadere pesantemente sulla branda-le cui molle cigolarono, a causa dell'impeto-nella sua piccola e spoglia stanza della Base, sospirando, e non per la stanchezza: o almeno, non solo per quella.
Un sommesso bip si levò dalla tasca destra dei suoi pantaloni. Lo estrasse ma, una volta visto il mittente, lo posò sul materasso, senza rispondere. Non avrebbe retto ad un ennesimo confronto. Non in quel momento.
Si passò entrambe le mani prima nei capelli, poi sul volto, il capo chino.
Prese altri respiri profondi e cercò, con tutte le sue forze, di non permettere alle lacrime di scendere dai suoi occhi: anche se era un'impresa titanica. Almeno, mentre sparava colpi su colpi contro quegli Assaltatori maledetti, non aveva materialmente il tempo per cedere a quel dolore insopportabile che gli attanagliava costantemente lo stomaco: l'unica cosa che avvertiva in quel momento era la rabbia, e una cospicua dose di malvagia soddisfazione.
Un pensiero, un soldato imperiale caduto.
Abbiamo tutti un punto debole.
Bang.
Devo affrontare il sith da solo.
Bang.
Proteggila. Per me.
Bang.
Sherlock si lascia cadere dal ponte.
BANG!! BANG!! BANG!!
Sentì per l'ennesima volta la rabbia montargli furiosa nel petto, al punto che dovette mordersi quasi a sangue il labbro inferiore per evitare di esplodere in un urlo furibondo, mentre ripensava a quell'orribile momento e a quello che era accaduto in seguito.
Non aveva potuto uccidere quel maledetto Sith, ma non perché non lo avesse voluto: Molly e Greg avevano dovuto praticamente trascinarlo via a forza, per impedirgli di affrontare quel bastardo. Non riusciva neppure a ricordare con precisione i momenti successivi alla loro fuga dal pianeta di Barts, tranne qualche dettaglio: le loro urla cariche di sgomento e di dolore, la corsa a rotta di collo verso l'hangar, i soldati imperiali alle calcagna... colpi di blaster, Greg che rispondeva al fuoco... Molly che gli teneva sempre una mano intorno al polso, ma che intanto sparava ad altri assalitori... Loro poi che salivano a bordo della nave di Sherlock. Sherlock... Che era... Morto. E lui? Nulla. Aveva solo corso e corso, letteralmente trascinato, come un inutile automa, mentre la furia cieca aveva lasciato spazio a un dolore devastante, la vista offuscata dalle lacrime. Nella sua testa, tutti questi ricordi si confondevano. Non ricordava neppure cos'era successo dopo essere saliti sulla nave. Forse aveva perso i sensi.
Solo un ricordo era nitido... anche troppo, e indelebile: il preciso momento in cui vedeva il Sith puntare una spada alla gola del suo migliore amico, e lui che si lasciava cadere da quel maledetto ponte, prima che potessero fare qualcosa- qualsiasi cosa- per impedirglielo. Anche se, a voler essere completamente onesti, non era nemmeno stato davvero quel Sith a uccidere Sherlock. È vero, gli stava puntando una spada laser alla gola, e lui era disarmato, ma... per Dio! Sherlock sapeva usare la Forza! Perchè non aveva fatto nulla per salvarsi??? Perchè si era arreso così, lasciandosi cadere verso morte certa, senza neanche lottare??
Si era arreso, senza pensarci due volte. Senza chiedersi minimamente l'effetto che effetto avrebbe avuto la sua morte sui suoi amici, sulle persone che lo amavano...
John sentì, di nuovo, il sangue ribollirgli nelle vene, mentre la sua mano andava a stringersi intorno al comlink, sempre con più forza, crescendo di pari passo con la sua rabbia e il suo dolore.
-MALEDETTO EGOISTA!!!-sbraitò, incapace di controllarsi oltre, scaraventandolo a terra con un gesto violento, rompendolo così in mille pezzi, che rotolarono un po' ovunque sul pavimento di pietra.
Si portò di nuovo entrambe le mani sul volto, coprendosi gli occhi, che bruciavano, se possibile, ancor più di prima: ma seguitò, imperterrito, a resistere.
No.
Non avrebbe pianto.
Lui era un soldato... ex imperiale, forse, ma ancora lo era, al servizio di una causa ben più giusta e nobile.
E i soldati sono forti.
I soldati non piangono.
Un discreto bussare alla porta elettronica e una voce nota lo colsero di sorpresa.
-... John. Aprimi, per favore. Lo so che sei lì -gli ordinò severamente Molly, anche se in un tono più morbido del consueto.
Il pilota sospirò, e si arrese: non avrebbe proprio voluto affrontarla, per questo non aveva risposto al comlink.
Ma non poteva proprio rifiutarsi oltre. E non solo per la sua insistenza.
"Proteggila. Per me."
Si alzò piano dal letto e aprì, trovandosi di fronte la giovane senatrice che, prima di varcare la soglia, osservò prima gli occhi arrossati del pilota, poi il volto esausto e carico di sofferenza, e infine i poveri resti di un comlink a terra.
Entrò, sospirando tristemente, e dopo un vago invito di John ad accomodarsi sulla branda-lui ancora non aveva aperto bocca-si sedette.
Anche il pilota si sedette al suo fianco, ma con lo sguardo fisso a terra.
-... Se sei venuta per rimproverarmi, sfondi una porta aperta. Lo so che me lo merito-borbottò infine, a fatica, la voce roca.- E non sei la prima. Il maggiore Sholto, Mary... Greg, Mycroft Holmes... persino la Hudson. Tutti mi hanno già fatto una bella lavata di testa. In effetti, mancavi solo tu all'appello -concluse, con amaro sarcasmo.
Quel giorno, infatti, si era buttato troppo presto in mezzo a un plotone di imperiali, senza aspettare il segnale di Lestrade, ansioso com'era di farli fuori: e non solo aveva rischiato di farsi uccidere, ma aveva anche quasi mandato a monte tutto il lavoro svolto dalla ribellione per quel particolare appostamento.
-Non sono qui per questo-lo corresse però la ragazza, in tono serio.
Seguì un lungo momento di silenzio teso.
-Lo so cosa stai passando-esordì la senatrice di punto in bianco, la voce solo lievemente tremula.-Anche a me manca. Ogni giorno. E tutte le volte che ci penso... non sono solo triste. Sono arrabbiata. No, di più. Sono furiosa!-sbottò, alzando il tono, stavolta palesemente rabbioso.
John alzò finalmente lo sguardo verso di lei, stupito: credeva di essere solo lui a provare quei sentimenti così contrastanti. Ma, dopotutto, dovette ammettere che era la prima volta che affrontavano l'argomento: lui non aveva mai avuto infatti la forza di farlo, preferendo rifugiarsi il più possibile nella solitudine e nelle missioni più rischiose possibili.
Si rese conto, solo in quel momento, di esser stato profondamente egoista: si era concentrato solo su sé stesso e sul suo dolore, senza domandarsi neppure una volta come stesse Molly, che molto probabilmente stava soffrendo quanto lui per la perdita di Sherlock, se non di più. Anzi, aveva mancato in un certo senso anche all'ultima promessa fatta all'amico. Non si era presa al meglio cura di lei. Certo, lei non aveva bisogno di essere protetta, ma di certo avrebbe dovuto starle vicino molto di più di quanto avesse fatto.
Vide le mani della giovane donna stringere un lembo della veste bianca fin quasi a bucarla con le unghie.
-Sono furiosa perché sono convinta che, se lui ci avesse ascoltato, se avesse accettato il nostro aiuto, invece di offrirsi come agnello sacrificale... SAREBBE ANCORA VIVO! E invece no!! Perché lui è Sherlock Holmes, e lavora sempre da solo!!-disse ancora, la voce tremante per la rabbia.
Seguì un lungo silenzio stupefatto da parte del pilota, mentre la donna proseguiva, più calma.
-Non so perché abbia accettato passivamente la morte. Non so perché si sia buttato da quel maledetto ponte. Ma una cosa la so.
Molly puntò i suoi occhi nocciola in quelli blu di John, lucidi di lacrime che il pilota faticava sempre di più a trattenere.
-Per quanto assurdo possa essere stato il suo gesto, lui ha comunque rischiato la vita per tenerci al sicuro. Per salvare tutti noi. Perciò tu, John Watson-aggiunse la senatrice, e il suo tono di voce ridiventò quello autoritario che il ribelle aveva imparato a conoscere.-Non puoi disonorare la sua memoria buttandoti in mezzo alle truppe imperiali, e cercando di farti ammazzare. Perché questo lui non lo vorrebbe. Affronta il dolore, piuttosto. Sfogalo, lascialo andare. Non tenerti tutto dentro. Altrimenti, finirà per soffocarti. Non devi necessariamente mostrarti forte. Siamo tutti umani, in fondo. Non devi dimostrare niente a nessuno.
Il biondo non si fidava della sua voce: si limitò dunque a un leggero segno di assenso, il capo di nuovo chino, mentre lo assaliva qualcosa di simile alla vergogna.
Ma Molly non aveva ancora finito: gli strinse piano la spalla, con delicatezza.
-E sappi che hai intorno persone come Mary, come Greg... che ti amano, che ti staranno accanto, e che non esiteranno a offrirti il loro aiuto e il loro appoggio. E me-aggiunse, e il suo tono si addolcì.-Sempre. Tu non sei solo. Ricordalo. Ora cerca di riposare almeno un po'. Ne hai bisogno.
Dopo quell'ammonimento e un'ultima carezza, senza aggiungere altro-o aspettare un cenno da parte sua- uscì dalla stanza.
Solo quando John sentì la porta chiudersi alle sue spalle, e l'eco dei suoi passi affievolirsi, affondó il volto tra le mani e si concesse, finalmente, di esplodere in un pianto dirotto: sommesso, forse, ma non per questo meno carico di dolore, tristezza e rimpianto.
Ripensò a tutte le volte che Sherlock gli aveva salvato la vita, al loro primo incontro, ai tanti momenti in cui, nonostante le molteplici situazioni pericolose in cui si erano ritrovati, avevano condiviso attimi di spensieratezza, fatti di discussioni, sorrisi e risate.
Le sue spalle tremarono convulsamente, le mani ancora a coprirgli il viso, ormai bagnato da innumerevoli lacrime. Era la prima volta che si concedeva di cedere del tutto a quella sofferenza, che aveva sino a quel momento soffocato sotto una coltre di rabbia e di desiderio di vendetta. Ma Molly aveva ragione: non avrebbe onorato la memoria e il sacrificio della suo migliore amico, rischiando stupidamente la vita. Sarebbe stato più cauto e razionale, da quel giorno poi: questo, almeno, glielo doveva.
E lo doveva anche a tutti coloro che aveva fatto preoccupare, e che tenevano a lui: John sapeva che persino il comandante della Ribellione, a modo suo, si era sempre preoccupato per lui, fin da quando era stato accettato nell'Alleanza.
I suoi singhiozzi, dapprima così forti da togliergli il respiro, si fecero pian piano sempre più fiochi, fino a spegnersi quasi del tutto: vinto da una devastante stanchezza e reso esausto da quel pianto-violento ma anche, in un certo qual modo, liberatorio-si stese sulla branda, emettendo un ultimo rauco singhiozzo.
Con ancora indosso la sua uniforme da pilota-non aveva nemmeno la forza per cambiarsi-posò il capo sul cuscino, mentre le sue palpebre gonfie si chiudevano lentamente sui suoi occhi arrossati, facendolo scivolare in un agognato seppur momentaneo oblio.
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D'improvviso, pur avendo gli occhi ancora chiusi, avvertì una bizzarra sensazione: gli pareva di non essere più sdraiato sulla scomoda branda, ma di essere per terra.
Forse sono caduto dal letto dopo l'ennesimo incubo... si ritrovò a pensare: ogni notte, infatti, era costretto a rivivere il momento della caduta di Sherlock, e ogni volta si svegliava emettendo quel medesimo grido disperato e che l'amico non aveva mai potuto udire. Altre, invece, sognava di arrivare un secondo prima sul quel ponte, e di impedirgli di compiere quel gesto.
In quelle occasioni, si risvegliava con un moto di gioia nel cuore, che veniva però subito spazzato via, non appena entrava in contatto con l'amara realtà.
Ma non sembrava nessuna di queste, stavolta.
Avvertì, invece, altre sensazioni alquanto strane, intorno a sé: profumo di fiori, calore del sole sul viso... il fragore dell'acqua, come lo scrosciare di una cascata...
Confuso, aprì lentamente gli occhi... e la sua bocca si spalancò per la sorpresa: non si trovava più nella sua piccola stanza della Base ribelle, bensì in mezzo ad un prato d'erba coperto di fiori.
Sempre più confuso, si tirò lentamente in piedi, e si guardò intorno; poco lontano dal luogo in cui si era "risvegliato", vide un piccolo ma affascinante laghetto incorniciato da alcune colline, da cui sgorgava una cascata: ecco spiegato il rumore che aveva udito. Scorse in lontananza delle montagne dai picchi coperti da una leggera coltre di neve, e contornati da un cielo azzurro del tutto privo di nuvole, mentre un dolce profumo di fiori arrivava nuovamente alle sue narici.
Che strano sogno, fu il suo primo pensiero; seppur, dovette ammettere che era davvero molto intenso per essere un semplice sogno, se arrivava al punto da permettergli di percepire ogni cosa, dal calore del sole al profumo dei fiori, con estrema chiarezza. Come se vi si trovasse davvero.
Fu a quel punto che realizzò, con stupore, che lui conosceva quel luogo: era il pianeta di Naboo, più precisamente la regione dei laghi. E lui c'era già stato, tanto tempo prima.
Il punto in cui si era risvegliato era proprio il medesimo in cui lui e Sherlock si erano accampati durante una missione.
Ricordò anche che, complice il clima mite, erano entrambi rimasti per lungo tempo fuori dalla tenda montata, stesi sull'erba, osservando le stelle, che quella notte brillavano come diamanti in quel cielo nero, illuminando quel bucolico paesaggio.
"Stupendo, non è vero?", aveva detto, mentre osservavano quello spettacolo, e cogliendo di sorpresa John: l'amico, generalmente, non si era mai interessato di cose come la bellezza di un paesaggio.
"Non interessarmene non significa che non le apprezzi", aveva infatti precisato il corvino, quando il biondo glielo aveva fatto notare, le mani intrecciate dietro la nuca, gli occhi ancora fissi su quelle luminose luci. Pareva di essere direttamente nel mezzo di una vera galassia. "Pilotiamo fra di esse tutti i giorni. Eppure, quando siamo a terra, loro ci sovrastano, anche se a migliaia di anni luce di distanza. E nemmeno quando vi pilotiamo in mezzo possiamo per davvero vederle. Rimangono lì, vicine eppure lontane. Certo misteri e paradossi colpiscono persino la mia mente geniale."
Sherlock gli aveva altresì detto, quella notte-era una delle poche volte in cedeva a delle rare confidenze-che il suo sogno, sin da bambino, era quello di poter visitare tutti i sistemi legati a quelle stelle: ovviamente, soprattutto per poter debellare tutti i possibili criminali che, di certo, vi si trovavano, aveva precisato.
Ripensando a quell'ultima precisazione, John non riuscì a trattenere un sorriso. Stranamente, ripensare a quel particolare episodio non lo rattristò o causò dolore-come solitamente gli accadeva-ma lo fece sorridere. In verità, da quando si era "risvegliato" in quel luogo, l'iniziale sconcerto aveva lasciato il posto a uno spontaneo sorriso sulle labbra, che non pareva intenzionato a spegnersi.
Sentiva, dentro di sé, una sorta di serenità, che non provava davvero da molto tempo: era come se quel luogo avesse messo a tacere, almeno per quel momento, tutta la sua tristezza e il suo dolore. Anche quando l'aveva visitato nella realtà gli aveva suscitato le medesime sensazioni: pace, sollievo, tranquillità...
Ricordò altresì di aver pensato che avrebbe voluto vivere proprio in un luogo simile, un giorno, quando l'Impero fosse stato finalmente sconfitto.
-È un piacere poter finalmente parlare con te, John Watson.
Il pilota ribelle sobbalzò, e girò la testa di scatto: alle sue spalle, si era appena palesata una figura-o era sempre stata lì, e lui non se ne era avveduto??-con indosso una logora veste marrone scuro, il volto nascosto da un ampio cappuccio.
La figura si avvicinò a lui di due passi e, per quanto non riuscisse a vederlo in viso, non ne ebbe paura: non sapeva spiegarsi il perché, ma gli pareva stranamente familiare.
Finalmente, questa abbassò il cappuccio sulla spalle, mostrandogli il volto: era un uomo all'incirca sulla sessantina, dai tratti decisi, ma addolciti dalla bocca curvata in un sorriso; i suoi capelli erano piuttosto corti e rossicci, anche se vagamente striati di bianco. Ma solo quest'ultimo dettaglio denunciava la sua età, poiché la sua postura e il suo sguardo mostravano una vitalità non comune: i suoi occhi, verde smeraldo, erano infatti acuti e intelligenti, e in quel momento erano puntati nei suoi.
John lo fissò per un lungo istante: infine, comprese perché gli fosse così familiare, e la sua voce si venò di incredulità, mentre finalmente realizzava.
-Io ti ho già visto! Il pianeta Hoth... La tormenta...
L'uomo annuì una sola volta, sempre con quel sorriso sulle labbra.
John si ritrovò, però, ancor più confuso: era più che certo che quella non fosse stata nulla più che un'allucinazione, tanto che non ne aveva fatto parola con nessuno, neppure con Sherlock.
-Posso sapere chi sei, e come fai a conoscere il mio nome?-gli domandò infine, timoroso, anche se non percepiva la benché minima minaccia da quel misterioso individuo.
Dopo un breve silenzio, questi finalmente rispose, e la sua voce era morbida, e intrisa di calore; ma John avvertì anche qualcos'altro: un potere antico, potente, e che aveva sentito solo una volta in tutta la sua vita.
Ma non fu tanto quello che avvertì, quanto la sua risposta, a riempirlo di stupore e incredulità.
-Il mio nome è Victor Trevor-disse.-Ero un Maestro Jedi. Per essere precisi, sono stato il Maestro del tuo migliore amico, Sherlock Holmes-precisò, con dolcezza.
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