I'm not lost anymore
Sherlock non avrebbe saputo dire con esattezza per quanto tempo fosse rimasto su quel freddo pavimento metallico con gli occhi chiusi e la mano della sorella ancora stretta nella sua. Al contrario, sapeva la cosa-anzi, le due cose- che gli avevano permesso di risvegliarsi da quel torpore in cui lo scontro con Moriarty lo aveva gettato: la prima era la consapevolezza che la stretta e il respiro della sorella-già prima molto lieve-si era ancor più affievolito, insieme al battito del suo polso; la seconda, un tremito sotto di sè.
Dapprima non molto violento, quasi più una leggera scossa; ma poi, decisamente più forte.
E questo poteva significare solo una cosa: lo scudo della Morte Nera era stato disattivato. Contro ogni probabilità, i suoi amici su Endor ce l'avevano fatta.
Le sue labbra si sollevarono istintivamente e, nonostante tutto, in un timido sorriso: decisamente, la sua fiducia in loro non era stata mal riposta.
Ma ciò voleva anche dire che, a breve, la Stazione sarebbe esplosa, non appena avessero localizzato il generatore principale.
Racimolando tutte le forze che aveva, strisciò fino alla sorella.
-Dobbiamo andarcene di qui-le mormorò, sollevandosi poi con un gemito.-Prima che...
-Io sto morendo.
Sherlock ammutolì: la voce di Eurus era flebile, attutita dalla maschera, quasi senza emozione.
Quasi.
Lui lo sapeva, naturalmente: il suo cervello così ben allenato nel notare ogni cosa, anche la più insignificante, non aveva potuto non registrare il suo respiro sempre più difficoltoso, il polso sempre più debole, e la violenza delle scosse d'energia che l'avevano attraversata. Lui stesso le aveva subite. Ma l'Imperatore si era maggiormente accanito contro di lei, prosciugando la sua energia vitale.
La geniale mente dell'ex Jedi aveva registrato tutto questo, ma aveva scelto, per una volta, di non ascoltarla, di non darle credito.
Voleva credere, nonostante tutto gridasse il contrario, che ci fosse ancora una remota possibilità di salvarla.
-No -le disse infatti, con tutta la risolutezza possibile, cercando di impedire alla sua voce di tremare.-Tu non morirai. È per questo che sono arrivato fino a qui. Per salvarti.
Fu a quel punto che Eurus gli strinse la mano con forza, scuotendo piano la testa.
-L'hai già fatto, Sherlock-gli disse, in un soffio: e per la prima volta, nonostante la maschera, sentì nella voce della sorella una nota di autentico calore.-Non mi sento più perduta, adesso. Grazie a te.
Una lacrima scivolò lentamente sul volto di Sherlock, mentre ripensava alla nenia che lei gli cantava, e ne comprendeva finalmente il vero significato.
-Devo solo chiederti un ultimo favore- aggiunse, e la sua voce era sempre più spezzata, come se ogni respiro le costasse un'immane fatica- Toglimi questa maschera. Voglio guardarti con i miei veri, occhi, prima di morire.
Sherlock si rese conto che, ormai, le lacrime scorrevano libere sul suo volto, mentre annuiva senza parlare, togliendo alla sorella quella maschera che, per anni, era stata il suo scudo e la sua difesa: non solo contro il resto del mondo, ma addirittura contro se stessa.
Gliela tolse con cura e delicatezza e trattenne il respiro quando i suoi occhi, finalmente, incontrarono quelli della sorella.
Occhi cristallini, esattamente come i suoi.
La pelle perlacea, esattamente come la sua: forse di più, dato che, per anni, non era stata più accarezzata dalla luce del sole; e dei corti capelli neri, un po' più scuri dei suoi. Ma, soprattutto, vide un timido sorriso affiorare sulle sue pallide labbra, quando incrociò il suo sguardo.
Rimasero così, gli sguardi incatenati l'uno nell'altro, per alcuni lunghi istanti, senza parlare; Sherlock era solo vagamente consapevole dei rumori che provenivano al di fuori di quella stanza: passi di corsa, urla, esplosioni, ancora tremiti-stavolta più forti- che scuotevano il pavimento.
Registrò appena tutto questo, perso com'era in quegli occhi così simili ai suoi e che- esattamente come i suoi- erano in quel momento lucidi di lacrime, che avevano iniziato a scivolare sulla sua pelle nivea.
E lui, istintivamente, portò una mano su quel volto, asciugandogliele, trasformando poi quel tocco in una lieve e timorosa carezza, un sorriso dolce e amaro sulle labbra.
Il sorriso dell'ormai ex Sith divenne, a quel gesto, ancor più pieno di quel calore: lo stesso calore con cui lui l'aveva salvata, e in cui si erano uniti, sconfiggendo insieme l'Oscurità.
Persino quando era solo un'apprendista, aveva cercato di tenerlo lontano dal suo Maestro, nonostante la sua maligna influenza: il richiamo del sangue e dell'amore, alla fine, aveva vinto anche allora.
Si erano salvati a vicenda.
L'ennesima esplosione proveniente da fuori, però, riscosse entrambi.
-Ora vai-gli ordinò Eurus, con un filo di voce.
Ma Sherlock scosse immediatamente la testa in segno di diniego.
-Non ti lascerò qui.
-Sì, invece. Dovrai farlo-lo corresse lei, con stavolta nella voce–così diversa, ora che non era più attutita e alterata dalla maschera–una nuova forza.
Prese un respiro, gli occhi lucidi fissi su di lui, la mano di nuovo stretta nella sua.
- La mia parte in questa storia è finita, fratellino. La tua no. Hai ancora tanto da vivere, da fare. Persone che ti amano da cui far ritorno.
L'espressione del contrabbandiere, stavolta, si incupì: distogliendo lo sguardo, aprì la mano sinistra, ancora stretta intorno alla piastrina, e alcune lacrime scesero nuovamente sul suo volto, il cuore ancora pieno di dolore.
Anche lui, senza rendersene conto, si era sentito perso, per tutta la vita.
Finché non aveva incontrato John.
Il suo migliore amico. Il suo conduttore di luce. Che lo aveva salvato dall'oscurità tantissime volte e in tantissimi modi.
Si portò la mano a pugno sulla bocca, soffocando un singhiozzo.
Sentì Eurus stringergli di nuovo la mano, e rialzò faticosamente lo sguardo.
- C'è ancora qualcosa, che devi sapere-gli disse lei, sospirando piano.-E spero che ripari, almeno in parte, a tutto il dolore che ti ho causato.
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I Caccia ribelli si lanciavano in spericolate acrobazie, impegnando al massimo i caccia imperiali, per poi bersagliare di colpi la Morte Nera, ormai privata dello scudo difensivo.
Mycroft sorrise, compiaciuto, vedendo alcuni settori della sua superficie andare in fiamme.
Ma la battaglia non poteva concludersi, fintanto che non avessero trovato il generatore.
-Signore! Ho agganciato la più forte fonte di energia! Deve essere il generatore!-disse Anthea proprio in quel momento, come se gli avesse letto nel pensiero, lo sguardo fisso su uno dei monitor.- Nella parte incompiuta c'è un pozzo che conduce proprio lì.
-Allora non perdiamo tempo!-replicò il comandante, aprendo il canale di comunicazione.-Gruppo Oro! Gruppo Rosso! Tutti i caccia mi seguano.
Un ghigno si fece largo sul suo volto, mentre si lanciava verso il settore designato; paradossalmente, e malgrado tutto, quella battaglia lo faceva sentire vivo come non mai.
- Abbiamo qualcosa da far saltare...
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Una scossa più forte delle precedenti fece tremare il pavimento della cella: John Watson era seduto su di esso, le mani sulla testa, la disperazione nell'animo.
... Come aveva potuto essere così stupido??
Come aveva potuto farsi catturare a quel modo??
Tutto quello che voleva era aiutare Sherlock. E invece non aveva ottenuto nulla.
Aveva lasciato i suoi amici sulla luna boscosa a guidare l'attacco al bunker senza il suo aiuto... e per cosa? Per farsi catturare subito dagli Imperiali, come una recluta qualunque.
Aveva sempre rimproverato Sherlock per la sua avventatezza-soprattutto dopo quello che era accaduto su Geonosis, quando avevano seriamente rischiato di lasciarci la pelle-ma lui aveva agito nello stesso modo.
Istintivamente, la mano corse al suo collo, poi scosse la testa: gliel'avevano portata via, la medaglietta con le iniziali del suo nuovo nome; del suo unico nome, ormai. Ancora non si spiegava perché gliela avessero presa. E, d'altro canto, non riusciva nemmeno a capire perché non lo avessero ucciso subito, anziché tenerlo prigioniero.
Ricordava solo un taglio sul palmo della mano... un dolore acuto... poi il nulla: si era direttamente risvegliato in quella cella.
L'unica spiegazione plausibile era che l'Imperatore volesse sfruttare quella sorta di potere o capacità latente di cui era provvisto: che, per inciso, non poteva neppure usare per fuggire.
A che serviva quel potere, allora?? pensò, in un moto di rabbia, stringendo i denti.
All'improvviso, quella rabbia parve aumentare, mentre ragionava su ciò che stava accadendo intorno a lui.
La Stazione era sempre più scossa da colpi ed esplosioni-le udiva chiaramente- e ciò significava che, da lì a poco, la Morte Nera sarebbe esplosa.
E Sherlock... il suo migliore amico... probabilmente, proprio in quel momento, stava fronteggiando due micidiali avversari contemporaneamente: l'Imperatore e Darth Wind, la sua stessa sorella; da solo. Forse era già morto.
Aveva sempre avuto fiducia, in lui, ma in quel momento era troppo preso dallo sconforto; in ogni caso, non sapeva neppure della sua presenza lì.
Lui, dunque, sarebbe morto. Sarebbe esploso con quella maledetta Stazione.
Di nuovo, la rabbia lo investì, e si alzò con uno scatto da quel pavimento: preso da una furia irrazionale, cominciò a dare forti spallate alla porta magnetica della cella con tutta la sua forza.
Era consapevole della stupidità e dell'inutilità del suo gesto, ma non gli importava: tutto era meglio che stare lì, senza fare nulla, aspettando di saltare in aria e morire.
Con un ringhio, si buttò nuovamente contro la porta con tutto il suo peso.
Poi ancora. E ancora.
E ancora, sempre con più rabbia.
Il pilota avvertiva già i muscoli doloranti, a causa delle botte continue contro quel duro metallo.
Ma neppure quello gli importava.
Un ruggito sfuggì dalla sua labbra, mentre, imperterrito, prendeva la rincorsa in quel poco spazio, deciso a lanciarsi contro la porta con ancor più violenza, a costo di rompersi le ossa.
Incassò dunque la testa nelle spalle, e si lanciò ancora una volta, gli occhi chiusi, le labbra ridotte ad una linea sottile, preparandosi all'ennesimo impatto.
Che però, non arrivò.
O meglio, sì. Si scontrò con qualcosa, ma non con il metallo.
Il suo corpo, complice la rincorsa, impattò con violenza e inarrestabile contro qualcosa di vivo, che non riuscì in alcun modo a frenare la sua caduta.
John, con gli occhi ancora chiusi, precipitò addosso a quest'ultimo ostacolo sconosciuto, che cadde con lui. Prima che potesse aprir gli occhi o la bocca, o riprendersi dalla sorpresa, una voce sotto di lui lo precedette.
-... Avevi intenzione di buttarla giù a testate?
Trasalì, e alzò la testa di scatto, aprendo gli occhi: Sherlock Holmes lo guardava, il volto a pochi centimetri dal suo, un sorriso leggero sulle labbra, gli occhi... lucidi???
Il biondo lo fissò per qualche istante, troppo felice e sconvolto per emettere un solo fiato.
-L'idea era più o meno quella...-borbottò poi, con una smorfia.
Entrambi risero sommessamente, mentre John si alzava, aiutando poi lui ad alzarsi.
Si fissarono di nuovo per alcuni istanti: poi Sherlock inarcò un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto, quasi con severità.
-... Non potevi proprio fare a meno di seguirmi, eh?
-Credevo che ormai lo avessi capito-ribattè John, sorridendo, ma con aria di sfida.- Noi due contro tutto il resto del mondo. È inutile che ci provi. Non ti libererai mai di me.
Un leggero sorriso affiorò anche sul volto di Sherlock: ma questo era decisamente commosso, più che divertito.
-Credo che questa sia tua...-disse, porgendogli... la sua piastrina d'argento.
Gli occhi del pilota si spalancano: non credeva che l'avrebbe mai più rivista.
-... Ma... come... io non... perché...??-balbettò, incapace di riordinare i pensieri. Perché mai Sherlock la aveva?? Come??
Lui sollevò appena un angolo della bocca.
-Ti spiegherò tutto non appena saremo lontani da qui. Spero...-non riuscì a non aggiungere.
John non riuscì a trattenere un sorriso, riconoscendo quelle che erano quasi le medesime parole che gli aveva rivolto nella cella di Appledore; un'esplosione rimbombò nel corridoio adiacente, ricordando a entrambi, di nuovo, il pericolo imminente.
-Ma nel caso che non ci riuscissimo... devo assolutamente fare una cosa, prima-aggiunse però il corvino, risoluto ma con gli occhi cerulei, ancora lucidi, fissi nei suoi.
John aggrottò la sopracciglia, confuso, mentre Sherlock, cogliendolo completamente di sorpresa, lo stringeva nell'abbraccio più lungo e stritolante che mai gli avesse dato da quando si conoscevano: sembrava quasi volersi sincerare che lui fosse davvero, lì.
Anche lui, seppur interdetto e ancor più confuso, rispose a quella stretta, entrambi incuranti del pandemonio di urla ed esplosioni che li circondava: il pilota credette addirittura di sentire l'amico emettere un lieve singhiozzo. Aggiunse poi qualcosa a mezza voce che, se possibile, lo spiazzò ancor di più:
-Grazie.
-... Per cosa??
-Per essere il mio conduttore di luce. E per avermi salvato in tantissimi modi -rispose lui, un sorriso sulle labbra.
E dopo quella risposta così criptica, si sciolse da quella stretta e lo prese per il polso, facendosi poi entrambi largo nel fumo generato dalle continue esplosioni, mentre la Stazione tremava sempre di più sotto i loro piedi.
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-Da quanto tempo lo sai?
-Non molto... un paio di giorni, più o meno.-Molly abbassò gli occhi, stringendo le labbra, mentre Mary finiva di bendarle il fianco.
-Per fortuna la ferita era davvero solo superficiale. Ma hai rischiato grosso. Non saresti dovuta venire!-la rimproverò, riponendo gli strumenti medici nel marsupio.
-Dovevo. Questa missione era troppo importante.
-Senza contare che non avresti mai lasciato Sherlock da solo...-aggiunse l'altra con uno sguardo eloquente.
Molly si incupì, scuotendo la testa.
-Tanto non è servito a nulla, alla fine. Ha fatto di testa sua... come al solito.
-Come te. Non siete poi così diversi, voi due.
Lei scosse la testa, ridendo tristemente; proprio in quel momento, un'esplosione eccheggiò nell'aria, facendole trasalire entrambe: alzarono lo sguardo verso il cielo, dove la deflagrazione era ben visibile, rischiarando il cielo ormai prossimo al tramonto. La Morte Nera era stata distrutta.
Avevano vinto.
Sia i Ribelli che gli Ewok esultarono, pieni di gioia: alcuni addirittura si abbracciarono. Le due donne, però, non riuscirono, e neppure ci provarono: entrambe non fecero altro che stringersi la mano, senza guardarsi, facendosi forza a vicenda, gli occhi pieni di lacrime fissi nel punto dell'esplosione, consapevoli di aver entrambe perso l'uomo che amavano.
-Forse sono riusciti a fuggire prima...-tentò Mary, con voce roca e incerta.
-... La speranza è l'ultima a morire, no?-replicò l'altra in risposta, nel medesimo tono.
Si strinsero ancora la mano con forza: Molly, poi, chiuse gli occhi per un istante, con un sospiro, sfiorando delicatamente con le dita dell'altra mano la sua pancia, in una sorta di carezza. Doveva essere forte, ancora una volta. Non poteva permettersi di crollare.
Ma una lacrima, nonostante tutti i suoi sforzi, le rigò lentamente la guancia.
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