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Empatia

La London planò lentamente verso la superficie di Dagobah, atterrando poi all'interno dell'immensa grotta naturale prescelta dalla ribellione come momentaneo avamposto, dove già parecchie navi ribelli avevano già attraccato, compresa la Diogenes, quella di suo fratello.
Sherlock, appena sceso, trattenne a stento una smorfia, scostandosi i ricci corvini, già madidi, dalla fronte: il caldo umido e la nebbia caratteristici di quel pianeta penetravano fin dentro quella cavità.
Dopo aver ordinato a BS-221 di ricontrollare che la London fosse in buone condizioni-specie la velocità luce-si diresse a grandi passi verso la nave di suo fratello, ancorata poco distante. In verità, non aveva avuto intenzione di riferirgli che se ne stava andando: ma qualcosa l'aveva spinto a voler congedarsi da lui, quantomeno. Avrebbe poi aspettato il ritorno di John e di Molly, e se ne sarebbe andato: definitivamente, stavolta.
Con un moto di vergogna, si ritrovò a pensare anche a Lestrade, e alla signora Hudson: avrebbe forse dovuto dire addio anche a loro?
Scosse la testa.
Dannati sentimenti! Dannate emozioni umane!, inveì.
Cercando di distrarsi da quei cupi pensieri, aumentò il passo; all'improvviso, però, accadde qualcosa di assolutamente inspiegabile: fu colpito da un dolore lancinante alla testa, che investì anche tutto il suo corpo, fin quasi alla punta delle dita.
Si portò una mano ad artiglio sul petto: gli pareva che il suo cuore stesse per esplodergli.
Senza accorgersene, cadde sulle ginocchia, gemendo e strizzando gli occhi, quasi singhiozzando, il viso distorto in una smorfia di dolore, le tempie pulsanti: non riusciva più nemmeno a respirare. Non c'era più aria, nei suoi polmoni: c'era solo dolore, che sembrava scorrergli nelle vene insieme al suo stesso sangue.
Intravvide confusamente, come attraverso un velo di nebbia, dei volti vicino al suo-uno gli parve quello di Lestrade-udì delle voci allarmate intorno a sé, e dei passi di corsa; ma tutti quei rumori gli giunsero attutiti. Gli pareva di annegare in un nero oceano di pura sofferenza, quale ne aveva mai provato sino a quel momento. L'ultima cosa che gli parve di sentire, furono delle mani che lo sollevavano da terra.
Poi, i suoi sensi si azzerarono, e perse del tutto conoscenza.

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Nella piccola cella, i polsi ammanettati, Molly strinse le labbra, nel vano tentativo di trattenere le lacrime, dopo l'ennesima tortura che era stata costretta a subire dai soldati imperiali, e al pensiero che anche John avesse subìto il medesimo trattamento.
Erano stati portati in due stanze diverse, ma lei aveva sentito perfettamente le sue urla.
Nonostante il dolore acuto che ancora provava, scoprì anche, dentro di sé, una rabbia incandescente.
E confusione, anche.
Quando quegli imperiali li avevano portati in quella struttura su un pianeta a lei sconosciuto, credeva che l'avrebbero sì torturata-era l'unica certezza, quando si aveva a che fare con quei maledetti-ma anche che l'avrebbero interrogata sulla nuova ubicazione della base ribelle.
Ma non era stato così. Non le avevano fatto la benché minima domanda: o almeno, non a lei. Non poteva parlare per John, dato che non erano più riusciti nemmeno a vedersi, dopo la cattura.
Se solo avesse potuto sentire come stava! Almeno, avrebbero potuto confortarsi a vicenda.
All'improvviso, sentì uno strano battere sulla parete a cui era appoggiata, e sgranò gli occhi, incredula:

"Molly, sei lì?"

Era codice morse. Allora la cella di John era a fianco della sua!
Rapida, rispose nel medesimo modo, battendo il pugno sulla parete.

". Stai bene?"

Scosse la testa: che domanda stupida.
La risposta, però, non tardò ad arrivare.

"Più o meno. Ho la pelle dura, io!"

Un rapido sorriso sfiorò le labbra della senatrice: persino in quella situazione terribile, il pilota ribelle stava cercando di rincuorarla.
Fin dalla prima volta che l'aveva incontrato in quell'avamposto imperiale, aveva capito che quel ragazzo non era come tutti gli altri soldati dell'impero: e, nei due anni successivi, la stima e il suo affetto verso di lui erano diventati sempre più profondi. Era diventato una sorta di fratello, per lei.
Questo perché il suo cuore apparteneva a...
Senza rendersene conto, calde lacrime avevano cominciato a scendere dai suoi occhi, mentre ricordava quel rapido bacio tra lei e Sherlock sul pianeta Hoth: era durato appena un istante, ma era bastato per farle battere all'impazzata il cuore.
E lui non si era sottratto.
Si riscosse e, senza asciugarle, picchiò un'altra domanda sul muro.

"Ti hanno fatto domande?"

"Neanche una", fu l'incredibile risposta.

"Neppure a me".

Molly rimase sempre più sorpresa: perchè imprigionarli e sottoporli a tortura, se poi non li interrogavano sulla Ribellione?
Cosa volevano ottenere?
E poi, capì.
C'era una sola spiegazione possibile.
"Non aspettavamo anche lei. Ma forse è anche meglio. Due piccioni con una fava.", si era lasciato sfuggire uno dei soldati, mentre la rinchiudeva in cella. Questo voleva dire che il loro vero obiettivo non era mai stata lei, ma John.
Ma cosa accomunava entrambi?
La risposta salì finalmente alle sue labbra, mentre sentiva la paura invaderla.
Sherlock Holmes.
Volevano attirarlo in una trappola: forse perché un tempo era un apprendista Jedi, prima di diventare il contrabbandiere che lei aveva imparato a conoscere, e volevano sfruttare il suo potere. Dovevano assolutamente trovare il modo per fuggire da lì, prima che arrivasse.
Se c'era una cosa di cui era certa, era che lui sarebbe arrivato per salvarli.
O, quantomeno, a salvare John, che era il suo migliore amico: non era altrettanto certa che gli importasse anche di lei, nonostante quei rapidi sguardi che si erano scambiati per più di due anni, e quel bacio... e il fatto che avesse chiesto a John di accompagnarla... era forse amore?
D'altro canto lei, Molly Hooper, ex senatrice di un pianeta che ormai non esisteva più, ma pur sempre una senatrice, non era abituata ad attendere che qualcuno venisse a salvarla: era abituata a sfruttare le sue capacità per salvarsi da sola.
E così era determinata a fare anche ora, pensò in un lampo d'orgoglio.
D'improvviso, ebbe un'idea, e si rimproverò di non averci pensato subito.
Picchiò nuovamente sul muro, ma non ricevette risposta; forse avevano portato via di nuovo il pilota: era la quarta volta che subivano quel trattamento...
La paura e il dolore che invadevano il cuore della senatrice lasciarono il posto alla rabbia e alla determinazione. Portò a fatica la mani ammanettate al di sopra della testa, estraendo con le dita una forcina dalla sua intricata acconciatura, che i soldati non si erano neppure scomodati a controllare; trattenne a stento un sorriso di trionfo.
Mai sottovalutare le risorse di una donna.
Pregando che nessuna guardia arrivasse proprio in quel momento, la strinse tra le labbra, avvicinando i polsi, e cominciò faticosamente ad armeggiare sulla serratura delle manette.

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John, legato ad una sedia, i polsi e le caviglie imprigionati in fasce di metallo, digrignò i denti e chiuse gli occhi, cercando con tutto sè stesso di non urlare e di non perdere i sensi, mentre un'ennesima scarica elettrica lo attraversava da capo a piedi. Non erano comuni scariche: erano state progettate per colpire anche a livello neurologico: ogni volta, infatti, il biondo doveva sopportare non solo il dolore sulla sua pelle, ma anche nella testa, tanto forte da fargli credere che sarebbe scoppiata.
Il soldato imperiale lo osservò per qualche secondo, e pigió un pulsante sulla consolle di fronte a lui, mettendo fine, per un momento, alla scossa. Sembrò poi osservarlo, a lungo: John avrebbe detto che lo stava fissando, per qualche motivo, addirittura dubbioso, se avesse potuto vederlo in volto.
Approfittó comunque di quel momento di tregua per prendere qualche piccolo respiro, consapevole però che il dolore successivo sarebbe stato ancora più duro da sopportare. Era una delle prime lezioni impartite ai soldati imperiali per torturare gli oppositori: concedere momenti di tregua, così da rendere il colpo successivo ancora più doloroso.
Lui stesso aveva adottato quelle tecniche, in passato...
Trattenne a stento lacrime di sofferenza miste a vergogna.
Aveva cercato di essere rassicurante con Molly, ma il dolore che gli stavano infliggendo stava diventando insopportabile. E quella era la quarta volta...
Una sola domanda gli rimbombava nel cervello, in mezzo a quell'agonia senza fine:

Perché mi stanno facendo questo?

Credeva che lo avrebbero torturato per strappargli informazioni sulla Ribellione.
Sherlock ci aveva visto giusto, riguardo a quel... presentimento, aveva inizialmente pensato con amaro sarcasmo.
Ma, fino ad allora, non gli avevano posto una singola domanda, nemmeno alla senatrice.
... Allora, che cosa diavolo volevano??
All'improvviso, il soldato imperiale premette di nuovo il pulsante: una scarica, più violenta delle precedenti, proprio come si era aspettato, lo percorse.
Ma poi ne arrivò un'altra, dopo appena due secondi, e di un voltaggio decisamente più alto: il biondo vide infatti il soldato girare una piccola manopola sulla consolle e aumentarlo. A quella, ne seguì un'altra ancora, così potente che gli parve di sentire la sua pelle sfrigolare, addirittura, e la testa come trafitta da un milione di aghi roventi.
E fu a quel punto che John, nonostante tutti i suoi sforzi, urló.

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Sherlock aprì gli occhi a fatica: le sue palpebre erano pesanti come macigni, la testa pulsante.
La prima cosa che vide fu il grigio soffitto metallizzato di una nave e, chini su di lui, poco alla sua destra, due volti noti: quello di suo fratello, e quello del generale Lestrade, entrambi chiaramente preoccupati, poi sollevati, quando si accorsero del suo risveglio.
-Come ti senti?-gli chiese subito il generale, non appena il suo sguardo si posò su di lui.
-‎... Come se mi fosse passata sopra una truppa di Assaltatori-borbottò Sherlock in risposta, tentando di alzarsi: ma Mycroft, inaspettatamente, lo tenne giù stringendogli la spalla, in modo fermo ma gentile.
-‎Aspetta. Non alzarti subito-gli ordinò, anche se pure il suo tono era sinceramente preoccupato, cosa di cui lui si stupì non poco.-Si può sapere cosa diavolo ti è successo?-aggiunse, aggrottando le sopracciglia.
Il contrabbandiere si portò una mano alla fronte, strizzando gli occhi, e sentendo ancora numerose fitte alla testa, come aghi roventi nelle tempie: il dolore era così intenso da fargli venire la nausea. Strinse le labbra.
-Non lo so. Stavo camminando tranquillamente, e poi... ho sentito... qualcosa... - disse, a fatica.
-‎Cosa, di preciso?-lo incalzò però il fratello.
-‎Era come se qualcuno mi stesse... torturando-ammise Sherlock, suo malgrado: poteva ancora sentire quel dolore sulla sua stessa pelle.
Mycroft sgranò gli occhi.
-... Il legame empatico-sussurrò, incredulo.
Lestrade lo guardò interrogativo, non capendo di cosa stesse parlando.
-È un'abilità Jedi molto complicata, che richiede allenamento ma anche un certo grado di vicinanza emotiva con il soggetto distante-gli spiegò dunque il capo Ribelle. - Non consente solo di provare a livello emotivo lo stato d'animo dell'altra persona, anche a grandi distanze. Se abbastanza forte, si avvertono anche le condizioni fisiche. Soprattutto se di sofferenza, come in questo caso...
Prima che Lestrade potesse chiedere altro su quel potere, Sherlock si intromise, scuotendo la testa con veemenza, palesemente irritato.
-È impossibile. Il legame si avverte solo quando si è in meditazione. Cosa che io non stavo assolutamente facendo.
Il fratello maggiore assunse un'espressione mortalmente seria, quasi di rimprovero.
-Sherlock... quando ammetterai che il tuo potere non si può soffocare? Lo sai perfettamente che, fin da prima dell'addestramento, ti veniva spontaneo. Anche senza meditazione.
-‎Quello era prima. Non sono più uno Jedi. Anzi, non lo sono mai stato!-ribattè lui, testardo, alzandosi, nonostante le proteste di entrambi, e ignorando anche il giramento di testa: avvertiva una strana sensazione, ma di certo non l'avrebbe mai ammesso.
Il capo della Ribellione scosse la testa, sospirando, davanti a quella ridicola testardaggine.
-E allora, come te la spieghi?-sbottò, infatti.
Prima che l'altro potesse rispondere, si sentì bussare alla porta elettronica, e il maggiore Sholto fece il suo ingresso.
-Mi dispiace disturbarvi, signori. Ma abbiamo un'emergenza-esordí l'uomo, in un tono mortalmente serio, che causò in Sherlock un brivido lungo tutta la spina dorsale.-Manca una delle nostre navette, all'appello. Abbiamo cercato di tracciarne la rotta, e di metterci in contatto. Ma non hanno mai risposto.
-Quale??-chiese subito Lestrade, spaventato.
Ma il corvino non aveva alcun bisogno che Sholto lo dicesse: l'aveva già capito. Solo con due persone poteva essersi collegato empaticamente.
-Quella di John Watson e della senatrice Hooper-rispose infatti il maggiore, cupo.
Non aveva ancora finito di dirlo, che lui era già scattato in piedi-nonostante si sentisse ancora debole-e diretto a grandi passi fuori dalla Diogenes, prima che chiunque potesse fermarlo.
Sentiva dietro di lui i tre uomini discutere, ma li udì a malapena, inondato com'era non più solo dal dolore, ma da una rabbia bruciante.

---

Percorse il tragitto verso la sua nave a passi pesanti, ancora provato, ma invaso dalla rabbia. Colto da un ennesimo giramento, però, appoggiò una mano a un muro, prendendo dei lenti respiri profondi, cercando di riacquistare un briciolo di calma e lucidità. Soprattutto di quest'ultima.
Aveva bisogno chiudersi per un momento sulla London, e pensare.
Era l'unico modo che aveva per scoprire dove l'impero li avesse portati.
Li stavano torturando.
Entrambi.
Mentre riprendeva il tragitto, la sua testa era piena di domande ancora senza risposta. Una, soprattutto: come avevano fatto a intercettare la nave di John?? Avevano fatto evacuare molto prima le navi, e su rotte non tracciabili.
Certo, c'era stato il droide sonda precedentemente localizzato da John, e l'obiettivo era sicuramente la senatrice Hooper, ma nessuno a parte lui e l'amico sapevano che lei sarebbe partita con la sua nave.
E poi, all'improvviso, la risposta esplose nella sua testa come una bomba, insieme alla rabbia.
Qualcuno aveva fatto la spia.
C'era una talpa, nei loro ranghi! Doveva assolutamente avvisare...!
Vari pigolii elettronici vicino ai suoi piedi lo distrassero.
-Non è il momento, BS-!-esclamò irritato, mentre il droide gli girava intorno, senza smettere di pigolare insistentemente: ma poi, qualcosa che il droide disse attirò la sua attenzione.

-Presenza sconosciuta sulla nave-

Gli occhi del corvino si strinsero: possibile che la spia si fosse intrufolata proprio sulla sua nave??
A che scopo? E poi, chi mai poteva essere?
Ordinò dunque a BS-221 di aspettarlo, e salì a passi leggeri sulla nave, guardandosi intorno circospetto: estrasse lentamente la pistola blaster, e si diresse nella cabina di pilotaggio. Lì, trovò una figura china sulla sua consolle, chiaramente intenta a digitare qualcosa: non appena avvertì la sua presenza, però, si girò di scatto, il volto teso in una smorfia spaventata, poi carica di vergogna, e infine rassegnata. Sollevata, addirittura.
Sherlock si pietrificò e rimase talmente incredulo che per poco non fece cadere l'arma a terra.

-... Anderson???

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