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Darkness

Oscurità: assenza di luce.

Una definizione più sintetica non si sarebbe potuta dare.
Inoltre, non rifletteva neanche lontanamente la condizione in cui versava.
Perché quella in cui si trovava lui non era una semplice oscurità.
Era l'Oscurità.
Non era solo assenza di luce: era assenza di qualunque cosa.
Il Nulla assoluto.
Lui aveva conosciuto l'oscurità dello spazio siderale, rischiarata dalla luce delle stelle e delle galassie.
Aveva conosciuto quella di una sala motori guasta, dove il ronzio e la forma di ogni singolo ingranaggio-che gli era nota come se facessero parte del suo stesso corpo-gli permettevano comunque di orientarsi con la stessa facilità con cui lo avrebbe fatto se il luogo fosse stato illuminato.
Aveva persino conosciuto quella del Lato Oscuro della Forza, che aveva sfiorato per un rapido, rapidissimo istante in due occasioni, la cui vischiosa consistenza sentiva ancora appiccicata alla sua pelle, e da cui si era sottratto in ogni modo possibile, sia col pensiero che con le azioni.
E infine, l'oscurità di quando chiudeva gli occhi, e il mondo spariva, cedendo il posto alla sua mente colma di pensieri, o si lasciava cogliere dal sonno, scivolando tra le braccia di Morfeo.

Lui conosceva ognuna di esse, e non ne aveva timore.
Ma questa... questa... era diversa.
Era come galleggiare ma stando fermi, senza peso, nel buio assoluto, come una sorta di infinito buco nero, senza aver alcun controllo di sé: e, al tempo stesso, esserne consapevoli.
Era perfettamente sveglio.
Ma era sveglio in quel Nulla.
Nessuna morte sarebbe arrivata per alleviare quella terribile sensazione di totale immobilità e di perenne asfissia: come se qualcuno gli stesse stringendo il collo in una morsa ferrea, soffocandolo, ma senza ucciderlo completamente.
Nessun arto poteva muovere. Non una mano, non una gamba, non un dito.
Neppure alle labbra era concesso di aprirsi.
Per la prima volta, l'uomo che per tutta la vita si era alacremente adoperato per soffocare qualsivoglia emozione -o, perlomeno, per non mostrarle apertamente-in quel momento desiderava sfogarle con tutta l'anima.
Urlare, soprattutto, così da poter mostrare la sua rabbia per la sua condizione e scatenarla contro chi ce lo aveva costretto.
Forse, addirittura... piangere.
Sì, anche quello anelava, per quanto assurdo possa sembrare.

Piangere per il dolore che sentiva in ogni singolo arto del corpo.
Piangere per la tristezza e il rimpianto di ciò che aveva perso.
Piangere per la consapevolezza di essere completamente solo.
Aveva allontanato tutti, nessuno escluso.
Persino suo fratello, l'unico che sapesse la verità: aveva volontariamente fatto in modo che lo odiasse, così dal dissuaderlo in qualsiasi modo di cercarlo; gli aveva rivolto parole dure e taglienti, di cui ancora provava vergogna al solo pensiero: ma era l'unico modo per tenerlo al sicuro.
Per tenerli tutti, al sicuro.
Certo, l'aveva fatto per proteggerli.
Persino da se stesso, se la profezia era davvero destinata a compiersi.
Ma questo loro non lo sapevano.
E mai l'avrebbero saputo.
Per loro, comunque, era già morto almeno da sei mesi, o forse di più.
Da quanto tempo era stato condannato a vivere in quella condizione? Una settimana? Un mese? Due? Poteva anche essere un anno, vista la sua concezione distorta del tempo: ogni secondo pareva eterno, ogni giorno era lungo quanto una vita intera.

"Io non voglio morire".

Questo ricordava di aver pensato, mentre stava precariamente sospeso a quella antenna, poco al di sotto di quel pianeta tra le nuvole, letteralmente a un passo dalla morte, finché non era riuscito a mettersi in contatto telepatico con Mycroft.
Grazie al cielo, seppur avesse meno potere di lui, era riuscito a sentirlo.
Nonostante tutto, il suo desiderio di vivere era stato più forte della paura del suo possibile destino rivelato da quella profezia.
Sapeva cosa faceva, quando si era lasciato cadere da quel ponte.
Col senno di poi, forse la morte sarebbe stata preferibile.

"So che non sei morto.
Vieni a Mos Esley, molo 17.
O i tuoi amici moriranno.
Ma non prima che io mi sia divertito con loro..."

Nascosto in quella fogna, in uno dei tanti quartieri malfamati di Mos Esley, Sherlock aveva fissato quel biglietto per un tempo che gli era parso eterno. Era arrivato sino a lui passando da un delinquente all'altro, da uno schiavo all'altro. Aveva ben celato la sua identità, in quei mesi, usando mille travestimenti diversi. Ma qualcuno, evidentemente, non era stato ingannato. Infatti, benché non vi fosse alcuna firma su quel pezzo di carta, non aveva dubbi su chi fosse il mittente. Non aveva, invece, alcuna certezza sulla veridicità della sua minaccia. Ma lui non si era neppure posto il problema, e aveva ubbidito senza pensarci due volte. L'immagine dei suoi amici uccisi, o torturati, come su Bespin... L'idea di sentire di nuovo il loro dolore... Non poteva permetterlo.
Era solo ed esclusivamente colpa sua: la paura per coloro che amava lo aveva distratto, impedendogli di pensare razionalmente, e facendolo cadere nella trappola tesa da Moran come un pesce nella rete. Non si era aspettato, infatti, quelli che l'avevano preso alle spalle. E quell'errore l'aveva pagato a caro prezzo: condannato a quella orribile e probabilmente eterna condizione.

Nonostante tutto, non rimpiangeva di aver vissuto, anche se per poco tempo, quei momenti insieme a tutte quelle persone che aveva imparato a chiamare... amici. Le risate, i litigi, le discussioni... le missioni fianco a fianco... I festeggiamenti dopo ogni vittoria, anche la più piccola. Quella bizzarra sensazione che avvertiva in quei momenti... di non essere più solo, ma parte di qualcosa di più grande.
Nè rimpiangeva quelli vissuti con la donna che aveva scoperto di amare: e ce ne era voluto di tempo, perché lo ammettesse con se stesso.
Quel bacio, rapido come lo sbatter d'ali di una farfalla, ma intenso come mai si sarebbe aspettato.
E poi quello dopo, che lui stesso le aveva dato, spinto da un impulso soffocato da chissà quanto tempo...
Quel batticuore quando incrociava i suoi occhi castani, che fin dalla prima volta sembravano quasi leggergli dentro.
... E i momenti passati con John, che era entrato così inaspettatamente nella sua vita solitaria, portandolo metaforicamente in un mondo completamente nuovo, fatto di risate complici, rare confidenze, calore...
Erano stati pieni di felicità, per quanto effimera: e, in quel momento, erano il suo unico conforto.
Così diversi dagli ultimi che aveva vissuto, e che avevano portato con loro rivelazioni scioccanti e terribili...
Come un bambino che, spaventato dal buio, cerca rassicurazione nascondendosi sotto una coperta perché teme l'arrivo di chissà quale mostro, così la sua mente cercò subito rifugio da quel pensiero, immergendosi in quei momenti di felicità, attingendone un altrettanto illusorio e momentaneo sollievo.
Sì, perché come una coperta non poteva davvero tenere a bada un mostro, così quel rifugiarsi mentalmente in quei momenti felici non durava mai a lungo.
Il rimpianto e il senso di colpa erano più forti di qualsiasi altro sentimento o bel ricordo.
Tutte quelle persone.. Lestrade, Mrs Hudson... Molly... John... suo fratello... tutti loro, in un modo o nell'altro, avevano significato molto, per lui.
E ora non avrebbe mai più potuto dirglielo.
Quando se ne era andato, fingendo la sua morte, aveva già deciso che non sarebbe più tornato. Ma una parte di lui, molto profonda, aveva fantasticato di fare ritorno... un giorno, forse.
Ma infine anche questa possibilità gli era stata tolta.
La possibilità di chiedere scusa.
La possibilità di dire "Ti amo".
La possibilità di dire "Grazie".
Perché sarebbe rimasto in quella condizione peggiore della morte: per l'eternità.
Nessuna salvezza o aiuto sarebbe arrivato.
E forse, in un certo senso, era meglio così. Dopotutto, era stato tradito dal suo Maestro, la persona di cui più si fidava, e poi da suo fratello, sangue del suo sangue, che gli aveva tenuto nascosta la verità.
Che senso aveva fidarsi di qualcuno, anche di quelle persone divenute a lui così care, se poi il prezzo era comunque l'inevitabile tradimento?
Anche se, per qualche ignota e incredibile ragione, avessero scoperto che lui era ancora vivo, di certo non sarebbero corsi a salvarlo. Non avrebbero di certo rischiato la vita per lui. E neppure l'avrebbe preteso.
Perché non lo meritava.
In fondo, cosa aveva mai fatto nella sua vita, per meritare di essere salvato? Non aveva fatto altro, per quasi tutta la sua esistenza, che allontanare tutti: che farsi odiare, da tutti. Forse neppure meritava di essere amato.
Forse non era nemmeno capace di amare.
Una tremenda amarezza lo pervase, mentre Sherlock Holmes abbandonava completamente la speranza, cadendo nella disperazione.
Lui era solo. Come sempre era stato, dopo la morte di Victor.
E lo sarebbe rimasto per sempre.

"Se non c'è qualcuno nel mondo a cui importa di te, esisti davvero?".

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