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Apro gli occhi e tiro un lungo sospiro.
Sempre lo stesso incubo che mi perseguita. Credo che non riu-scirò mai a liberarmene. Posso avere anche la giornata più intensa di questo mondo, posso riempirmi l'agenda d'impegni, crollare semisvenuta sul letto quando la sera rientro nel mio appartamento, ma come mi addormento quel dannato incubo è sempre lì. E la cosa sconvolgente è che anche la mia reazione è sempre la stessa. Uno dovrebbe esserci abituato a un certo punto, no? Invece nien-te. Tachicardia, sudore freddo, costrizione alla gola e senso di soffocamento. E quella puzza di pneumatici che non dimenticherò mai.
Mi alzo dal letto e raggiungo il bagno. Mentre faccio scorrere l'acqua della doccia guardo l'immagine che mi riflette lo specchio. Sono così cambiata negli ultimi due anni. Della pallida ed esile Rachel Anderson del liceo rimane ben poco, sostituita da una quasi vent'enne dallo sguardo fiero, piccola eredità del dolore. Mamma dice che sembro sempre arrabbiata adesso, che ho perso la mia spontaneità, la mia genuina capacità di cacciarmi nei guai ed esagerare sempre le situazioni. Vorrei sapere chi non sarebbe arrabbiato quando perde il ragazzo in un incidente d'auto. Nessun'altra questione vale più la pena. Ma questo non glielo dico mai.
A breve inizierò il terzo anno di college, ho scelto di frequen-tare lettere con un unico obiettivo: voglio diventare giornalista, perché era il sogno di Connor. E più nello specifico punto a con-quistarmi un posto alla Mason Enterprise, dove lavorava sua ma-dre. Il giorno della consegna dei diplomi gli avevo promesso che lo avrei aiutato a cercare suo padre, e anche se non ha più impor-tanza ormai, voglio mantenere la mia parola. È un modo per sen-tirlo ancora vicino a me.
Per questo da un anno a questa parte lavoro al giornale scola-stico. Dopo aver passato la terribile selezione del critico direttore, ho ottenuto un posto come correttrice di bozze. Esaltante vero? Per la verità no, per niente. Anzi è decisamente noioso. Però mi dà un certo senso di onnipotenza pensare di avere il controllo degli articoli. In pratica, a parte Timothy che poiché direttore ha l'ultima parola, cosa sarà pubblicato sul giornale lo decido io.
Friziono i capelli e li avvolgo alla meglio nell'asciugamano, poi raggiungo la cucina immacolata e mi verso una tazza di latte freddo cui aggiungo una generosa dose di cereali al miele. La vi-sta dal mio appartamento di Manhattan è meravigliosa. La prima volta che nonno mi ci ha portata quasi non credevo ai miei occhi. Si può dire che, eccetto il bagno, le pareti sono interamente costi-tuite da vetrate, che rendono gli spazi soleggiati, luminosi e asso-lutamente perfetti. Non mi c'è voluto molto, in realtà, per abi-tuarmi alla mia nuova sistemazione. Da quando Connor è morto non sono più tornata in città, neanche per trovare mio padre. Le poche volte che riusciamo a combinare un incontro o pranziamo fuori in qualche locale vicino al campus, o viene a trovarmi diret-tamente qui con Patricia. Escludendo le cene e gli eventi dai non-ni.
I coniugi Anderson, cioè Elinor ed Edward, sono famosissimi per le loro serate piene di ospiti e di "gente che conta". E il fatto che la loro unica nipotina sia finalmente comparsa nella loro vita ha dato loro modo di organizzarne un numero spropositato, dove nei mesi mi hanno presentata a finanzieri, broker, illustri medici, politici, e grandi industriali. Niente a che vedere con la vita mo-notona di provincia che facevo con papà. Dal canto mio sorrido a tutti, rispondo cordialmente alle domande e cerco di comportarmi come si conviene per il tempo stabilito. Poi torno ad assumere i miei panni, che di solito prevedono pigiama comodo e una gene-rosa dose di lacrime.
Non posso farci niente. Anche a distanza di due anni Connor mi manca terribilmente. Non sono più uscita con nessun ragazzo, sebbene un paio di miei compagni di corso abbia provato a coin-volgermi in attività extrascolastiche, ma proprio non ne ho voglia. Mamma dice sempre che non posso continuare così, che sono troppo giovane perché rinunci all'amore. Io penso semplicemente che non sia ancora arrivato il momento di mettere il mio cuore alla mercé di una nuova delusione.
Asciugo rapidamente i miei capelli ramati, metto un velo di mascara e un gloss sulle labbra, infilo il mio paio di jeans preferiti e la canottiera a fiori che ho comprato recentemente, afferro la borsa ed esco da casa. Guidare il pickup a Manhattan non è molto comodo così il regalo di papà passa la maggior parte del tempo chiuso nel garage sostituito dai più pratici taxi. L'ultima volta che l'ho usato è stato qualche settimana fa quando sono andata a tro-vare Malek e Alfie. L'unica eccezione alla promessa di non tor-nare mai più l'ho infranta quando è nata la bambina, ma Hope è talmente meravigliosa che non mi sarei persa il parto della mia migliore amica per nulla al mondo. Alfie ha ormai assunto una cattedra fissa al college locale, mentre Malek porta avanti la li-breria. Dice sempre che tornerà a studiare, prima o poi, ma credo che Yale sia un progetto che si allontana sempre di più ormai, so-stituito da sogni ben più concreti.
«Siamo atterrati», leggo il messaggio appena ricevuto, mentre il taxi sfreccia tra le strade affollate.
Guardo l'immagine sul display che mi ritrae con un morbido abito verde bosco al matrimonio di mio padre. Lui indossa il clas-sico completo nero con tanto di farfallino rosso che s'intona be-nissimo al colore della sua barba, mentre Patricia aveva scelto un abito turchese per le sue seconde nozze. Mi sono emozionata tan-tissimo quel giorno, soprattutto perché mamma ha fatto da testi-mone a papà il che mi ha confermato per l'ennesima volta che è tutta una questione di volontà e di come ognuno di noi sceglie di vivere e interpretare la propria vita.
Il periodo in Cina di mamma è terminato, la sua azienda l'ha riaccolta a braccia aperte e con una mega promozione, cosa alla quale non avremmo mai creduto fino a qualche anno fa. Era or-gogliosissima quando me l'ha detto via Skype. Potevo vedere i suoi occhi brillare di gioia attraverso lo schermo.
«Ti ricordi che prima facevamo fatica ad arrivare alla fine del mese?» mi ha detto. Eccome se mi ricordo. I primi tempi dopo il divorzio sono stati molto difficili. Cambiare casa, città, scuola. Lasciare tutto, scappare via con mamma che era poco più di una ragazzina. «Ti pagherò il college», ha detto entusiasta. Qui l'ho dovuta correggere perché lo stanno già facendo i nonni.
E così sto andando a prenderla, i primi tempi occuperà il mio appartamento mentre io mi trasferirò in un dormitorio dell'università. La nonna ha storto il naso chiedendomi perché non potessi semplicemente convivere con mia madre. La verità è che ormai ho la mia indipendenza e non mi va di perderla. E poi qualcosa dentro di me mi suggeriva di cambiare, di provare a in-serirmi di nuovo nel mondo.
In aeroporto impiego meno del previsto a individuare mia ma-dre in mezzo a tutta la gente presente. Quando mi sento avvilup-pare da due braccia e ricoprire la testa di baci stampati capisco che è stata lei a trovare me. Cerco di divincolarmi dalla sua presa per non diventare un ostaggio.
«Tesoro!» esclama lei radiosa come sempre. «Sono così felice
di vederti.» Mi bacia di nuovo.
«Sono felice anch'io», sorrido più composta.
Poi vedo, poco dietro di lei, un signore alto, distinto, con folti capelli biondi e spalle possenti da giocatore professionista. Gli occhi sono scuri e gli conferiscono uno sguardo curioso da inter-pretare. Vedo che mi fissa e non posso evitare di fissarlo a mia volta domandandomi che cosa mai potrò avere di così interessante per lui.
«Tesoro devo fare le presentazioni», esclama mamma appena se ne accorge. Si affianca allo sconosciuto e gli prende la mano. «Lui è Mike. Il mio fidanzato!»
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