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Capitolo 3: Il tempio della bestia

Ettore sputò un grumo di sangue scuro come catrame e guardò negli occhi di Sumo.
- Dammi il codice – disse quest'ultimo, ripulendosi le nocche con un panno intriso di sangue. - Dammi il codice: subito.
Ettore sorrise, benché Sumo lo stesse pestando da quasi un'ora si sentiva ancora lontano dal punto di rottura.
- Chiedilo a tua madre – biascicò Ettore, - gliel'ho sussurrato all'orecchio giusto l'altra...
Sumo lo zittì con un pugno allo stomaco, poi gli controllò le pupille.
- Sei ancora tra noi? Bene – disse, - ora smettila di fare il super uomo, dammi il codice o dovrò passare a qualcosa di più pesante.
- Non vedevo l'ora – tentò di ironizzare Ettore, ma il fiato gli morì in gola, l'ultimo pugno gli aveva fatto capire quanto finora, Sumo, ci fosse andato leggero.
Ettore era appeso per le spalle, le mani immobilizzate dietro la schiena e le punte dei piedi che sfioravano terra. Era una posizione scomoda, ma la massiccia muscolatura del suo corpo sembrava in qualche modo fatta apposta per sopportarla.
Sumo lo guardò ciondolare mollemente con l'espressione fredda e impassibile del vero torturatore – Va bene – disse, - se vuoi il gioco pesante non mi resta che accontentarti.
Sumo si volse verso un banco di strumenti in ombra che Ettore non riusciva a vedere. Anche questo mistero faceva parte della tortura, anche la tensione dell'inconsapevolezza.
- Sai, l'altra sera guardavo quel vecchio film, quello sul ragazzo indiano che vince il milionario.
- The millionaire...? - biascicò Ettore. - Commuovente per uno che pesa 170 chili.
- Sotto sotto sono un gran sentimentale, è vero – ridacchiò Sumo, - nella scena dell'interrogatorio, a inizio film mi pare, il poliziotto grasso ha rispolverato un classico della tortura: semplice, immediato ed efficace.
- La batteria? Ti facevo più sofisticato.
- È una cosa che non ho mai provato – disse, spingendo con un calcio una batteria per camion ai piedi di Ettore, - quindi sarei un bugiardo se dicessi di non aver sperato che tu mi spingessi a usarla.
Ettore guardò i due grossi elettrodi nelle mani di Sumo e un po' si pentì delle sue spacconate.
"E va bene, è la prima volta anche per me" pensò Ettore, stringendo i denti. Il suo corpo vibrò di dolore mentre la scarica elettrica gli trafiggeva i muscoli. Si impose di non gridare, di non emettere un singolo lamento di dolore, ma non riuscì.
- Allora com'è stato? - Domandò Sumo, con un mezzo sorriso.
- Fottiti... - biascicò Ettore, penzolando mollemente dal soffito.
- Sumo rilasciò immediatamente un'altra scarica, ma stavolta non sorrise, digrignò i denti.
- Allora?
- Ri-fottiti....
La terza scarica, nonostante la visibile rabbia di Sumo, era meno intensa delle precedenti, segno che anche per lui era chiaro che aveva raggiunto il limite.
- Allora? - domandò, per la terza volta. Aveva un'espressione funerea, quasi preoccupata.
Ettore si lasciò penzolare mollemente per qualche istante, Sumo era diventato un torturatore tremendamente efficace e spietato, doveva ammetterlo, capace di annullare se stesso fino al limite della natura umana. Quando era diventato così? Quando lo aveva fatto diventare così?
Lo conosceva troppo bene per non capire che anche lui era al limite, anche lui si sarebbe spezzato, se obbligato a spingersi troppo oltre.
- Cheeseburger – disse Ettore, quasi con soddisfazione, crogiolandosi nella menzogna di aver ceduto per lui più che per se stesso, sopravvalutando la propria resistenza come aveva sempre amato fare.
Sumo sorrise e gettò a terra i morsetti: - Grazie al cielo – sospirò, sciogliendo le corde. - Iniziavo proprio ad avere fame.
- Sì, anch'io inizio a sentire una certa fame – ammise, in tono ironico, Ettore.
- Ho esagerato? - domandò Sumo, liberandogli le mani.
- No, per nulla, sei stato teatrale come al solito – commentò Ettore, massaggiandosi i polsi.
- Ho sempre più paura che, prima o poi, in questi giochetti da psicopatico ci lascerai le penne – disse Sumo, passandogli l'asciugamano.
- Non sono giochetti – rispose Ettore, pulendosi sudore e sangue di dosso, - è lavoro.
- "Le squadre speciali si addestrano così" - citò Sumo, quasi esasperato.
- "Solo conoscendo il dolore puoi resistere al dolore" - continuò Ettore.
- Sì ma questa roba non ha niente a che vedere con quello che ci insegnava Tony sul ring, stai esagerando.
- C'è dell'acqua? - domandò Ettore, guardandosi attorno.
- Eccola – disse Sumo, tirando fuori una grossa tanica da sotto il bancone. - Il problema non è tanto l'allenamento quanto il fatto che tu ti stai spingendo troppo oltre. Tony ci insegnava a combattere sul ring e per strada, non ci preparava a diventare dei Navy Seals: un conto è resistere al dolore, un altro è averlo come migliore amico.
Ettore rise, aprì la tanica e prese a versarsi l'acqua sulla testa, lavando via il sangue raggrumato e rinfrescando il lividi che già gli stavano comparendo su uno zigomo e sul labbro.
Probabilmente Sumo aveva ragione, forse la sua visione del mondo era diventata troppo estrema, troppo violenta, ma non riusciva più ad immaginare una vita lontana dalla lotta, lontana dallo scontro, lontana dal dolore. Era un tossico, un povero tossico di adrenalina che trovava nella violenza l'unico vero scopo di vita, non nella gioia, non nel sesso, ma nel dolore.
Era una bestia? Forse. Aveva un'alternativa? Sicuramente sì, ma l'imboccarla gli richiedeva un coraggio maggiore del semplice resistere alla tortura, un coraggio che andava oltre a quel corpo scultoreo, oltre a quei muscoli d'acciaio, un coraggio che ancora non aveva partorito.
- Dobbiamo essere pronti – rispose Ettore, scrollandosi l'acqua di dosso e allungando una mano.
Sumo prese una borsa con dei vestiti puliti e li passò all'amico: - Pronti per cosa? Me lo vuoi spiegare? - Domandò.
Ettore si infilò la biancheria sulla pelle ancora umida, calda e tesa per lo sforzo della tortura.
- Per l'azione – rispose, infilandosi gli eleganti pantaloni in tessuto nero, - per fare al meglio il nostro lavoro, per essere pronti anche all'eventualità più estrema – Continuò, infilandosi la camicia bianca. - I motivi sono tanti, ma forse il più importante di tutti è che lo facciamo per noi stessi, perché capire dove si trovano i nostri limiti ci rende capaci di valutare di quanto li possiamo superare, quanto ancora possiamo crescere, quanto possiamo diventare più forti – disse annodandosi la cravatta.
- Siamo solo dei picchiatori, non agenti dei commandos – obbiettò.
Ettore si infilò la giacca e rifletté qualche istante, sistemandosela: - Credi veramente che ci sia qualche differenza?
Stavolta fu Sumo che si soffermò qualche istante a riflettere.
- Forse no – disse, - ma non vorrei mai trovarmi nella situazione di venir torturato per un'informazione.
Ettore sorrise e aprì la porta del garage, il sole del primo mattino risplendeva tra le gradinate del cortiletto interno e i balconi in cemento armato dei palazzoni. Non c'era nessuno a riempire il vuoto di quei cortili, a quell'ora del mattino, solamente le bandiere colorate dei vestiti lasciati appesi la sera prima ravvivavano, di qualche tono, il grigio di quell'atmosfera urbana.
Ettore era cresciuto nelle crepe di quegli squarci di desolazione, in quella periferia tanto estrema da essere quasi rurale. Chiuse gli occhi e il profilo di sua sorella era lì, nel chiaroscuro della sua stanza, affacciata verso i binari.
Era molto che non la vedeva.
- Dipende sempre da che informazione vuoi proteggere – rispose Ettore, accendendo il telefono.
Il telefono iniziò a vibrare insistentemente mentre la schermata si riempiva di icone di messaggi, chiamate perse e notifiche.
Ettore corrugò la fronte: "Oz?"

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