Capitolo 10: "Soggetto A19, L'innesco".
Nella Radura si stava bene. Sembrava che finalmente la situazione si fosse stabilizzata.
Almeno, era così da due giorni... a parte le perenni occhiate di Minho appena tornava dal Labirinto: la prima cosa che controllava eravamo io e Newt, come se sperasse di trovarci appartati da qualche parte.
A dire il vero non era cambiato nulla tra me e lui... o almeno, nulla di troppo rilevante.
C'era una strana carica tra me e lui, ma non avevamo più toccato l'argomento del bacio, né quello della confessione nel Casolare.
Non che fosse un argomento tabù, ma proprio non ci pensavamo.
L'unica cosa a cui pensavamo era a stare bene, a rimetterci. Ci curavamo a vicenda.
Ogni notte si assicurava di non avermi troppo lontana da lui, così da tenermi bene sott'occhio in caso di un altra crisi strana.
Gli era ancora proibito fare un qualsiasi sforzo fisico, e per poco in quella categoria non erano compresi quelli di sollevare una forchetta per mangiare... o peggio. Era un miracolo che Alby lo lasciasse andare al gabinetto con le sue gambe, e non mi sarei stupita di vederlo entrare con lui lì dentro!
Il nostro rapporto sembrava essere immutato, tranne per un diverso attaccamento e quella strana carica che ci univa. Non avrei saputo come descriverla. Sentivo che era la prima volta in assoluto che provavo qualcosa di simile verso qualcuno. Era piacevole e allo stesso tempo strano, particolare, non sapevo come prenderlo o interpretarlo. Era sempre vicino a me in quei giorni ed io vicina a lui.
La ferita sul suo petto sembrava non essere intenzionata a guarire: si rimarginava in modo davvero lento e cominciavo a preoccuparmi che non ce l'avrebbe fatta.
Era frustrato perché voleva dare una mano ed il fatto che Alby ogni volta lo bloccasse gli rodeva il fegato, ma non voleva darlo a vedere, così sfogava tutto riponendo le attenzioni su di me.
Non era solo lui in pausa, ma anche io. Frypan aveva deciso che dovevo assolutamente lavorare di meno: si sentiva in colpa perché pensava che quello che mi era successo fosse fonte dello stress lavorativo, del fatto che la maggior parte delle cose in cucina le facessi io e non gli altri, dato che ero più brava di loro, o come diceva Frypan, "quasi al suo livello".
Non avevo più avuto crisi, però nonostante tutto non si fidava. Voleva essere certo che stessi bene.
Odiavo quella pausa, motivo per cui cominciai a capire come si sentiva Newt, che non poteva fare nulla da prima di me.
«Guarda, ho trovato un altro pezzo! Credo che sia del Casolare», dissi, catturando la sua attenzione.
«Prova ad incastrarlo, allora.»
Ebbene sì, per la noia c'eravamo rintanati dentro il Casolare a fare un puzzle.
Un puzzle fatto a mano da noi, dato che nessuno si era mai preoccupato di chiederne uno.
Il che era anche logico, insomma... cosa se ne facevano di un puzzle in un posto dove non c'era spazio per poltrire?
Newt non sapeva nemmeno cosa fosse un puzzle. O meglio, conosceva la parola, ma non ne aveva mai visto uno. Io stranamente avevo presente cos'era un puzzle e com'era fatto, anche se non sapevo dove l'avevo visto.
Così avevamo preso un foglio di carta, due penne nere, avevamo disegnato le tessere, poi delle linee che formavano una sorta di mappa della Radura e infine avevamo ritagliato i pezzi con due vecchie forbici da cucina arrugginite. C'eravamo divertiti a dire il vero, forse perché tra un disegno e l'altro ogni tanto eravamo finiti col pasticciarci il volto a vicenda.
Non aveva voglia di fare il puzzle, non sapeva bene come funzionasse, così glielo spiegai. Era semplice, ma non gli andava. Così si sedette dietro di me, poggiando il mento sulla mia spalla e legando le braccia attorno alla mia vita.
Era accoccolato a me come un cucciolo, ogni tanto sbadigliava e mi dava una mano nel ricostruire quel puzzle.
Provai ad incastrare la tessera che avevo in mano e, con mia grande soddisfazione, azzeccai il pezzo. Era piuttosto facile a dire il vero, dato che l'avevo costruito io... ma non avevamo altro da fare e volevamo evitare silenzi imbarazzanti tra noi.
Quel restare sola con lui mi portava la voglia di fargli domande su domande, anche (e sopratutto) sul nostro argomento tabù. E non volevo essere io la prima a sfiorare quell'argomento.
Sbadigliai e sentii la stretta delle sue braccia farsi più forte, come se volesse reggermi saldamente.
«Sei stanca?», domandò con tono premuroso. Il suo respiro sfiorava il mio collo con una dolcezza inimmaginabile. E riecco le domande che avrei voluto fargli.
Cercai di non pensarci e scrollai le spalle con indifferenza. «No. A dire il vero non molto, solo che questo puzzle forse è anche troppo facile.»
«Ma se è da più di un'ora che ci lavori su!», ridacchiò, poggiando la fronte sulla mia spalla. «Se fosse così semplice, Liz, l'avresti già finito, non ti pare?»
«Vorrei solo tornare a svolgere le mie mansioni quotidiane», brontolai e lo sentii sospirare in tutta risposta. Una risposta muta, ma che esprimeva perfettamente la sua approvazione a ciò che avevo appena detto.
«Anche io», mormorò come se temesse di essere sentito da qualcun altro. «Ma non possiamo.»
«Lo so, ma sto bene. Benissimo. Alla grande!» Avrei voluto continuare, ma lo sentii ridere e mi fermai.
La sua risata era così sincera che mi fece sorridere. Sembrava essere davvero felice, ed era già da due giorni che ridacchiava in quel modo, il velo cupo che prima gli copriva il volto si era dissolto almeno un pochino, mostrando un Newt migliore di quanto già non fosse.
Due giorni, come il tempo passato da... beh, dal nostro bacio. Pensarci mi dava una strana sensazione.
«Ammettilo, è merito mio», disse con un finto tono orgoglioso.
Diavolo sì, era merito suo e nemmeno se ne rendeva conto.
Sbuffai e scossi la testa, ridendo, «Sì, certo. Vanitoso.» Non volevo ammetterlo, perché forse gli sarebbe suonato strano o comunque non mi avrebbe creduta.
«Non sono vanitoso, dico solo come stanno i fatti.»
«Non insistere, sei peggio di Minho. Sei un-»
«Pive, alzatevi, è successa una cosa strana!», gridò Ven, sulla soglia della porta e con i capelli incasinati. Aveva il fiatone, segno che aveva corso per raggiungere il Casolare il prima possibile.
Sapevo che quella calma apparente non sarebbe durata a lungo. Guardai Newt.
Sbuffò e si alzò, passandosi una mano tra i capelli. «Che c'è? Frypan ha tagliato un dito a Chuck perché l'ha beccato a rubare i biscotti dalla cucina?», brontolò. Era chiaramente scocciato dall'entrata di Ven, e quest'ultimo cominciò a giocare nervosamente con le proprie mani.
Deglutì, poi prese un respiro profondo. «No...», sussurrò imbarazzato. Non era imbarazzato per la frase, ma qualcosa in qualche modo lo rendeva inquieto, sembrava che gli fosse passata la voglia di parlare.
«Avanti, spara», brontolò ancora Newt.
Mi alzai e mi sistemai i vestiti.
«Se te lo dicessi non mi crederesti mai... quindi è meglio se lo vedi con i tuoi stessi occhi», disse infine, rivolgendo lo sguardo a me pochi attimi dopo. «E porta anche lei», mi indicò.
Quando dicevano una frase simile era sempre presagio di qualcosa di veramente brutto.
Ci allontanammo di molto dal Casolare, giungendo quasi vicino alle Faccemorte.
Odiavo quel posto. Non mi sarei mai stancata di ribadirlo.
Ven era rimasto in silenzio per tutto il tragitto, l'unica cosa che faceva rumore era lo sbuffare continuo di Newt.
Ero agitata, non capivo perché. Il mio cuore batteva così dannatamente veloce che temevo potesse uscire dalla cassa toracica da un momento all'altro.
Era forse quel posto a darmi quella sensazione?
Di botto, Ven si fermò «Notate nulla di strano?», domandò.
Davanti a noi c'era un gruppetto di Radurai... i Costruttori.
Erano radunati in cerchio, al centro c'era un grosso spazio.
«C'è qualcuno lì in mezzo, steso a terra...» Ven teneva un tono misterioso, cupo e allo stesso tempo divertito, come se si aspettasse la reazione più buffa del mondo.
Gally si fece spazio tra i Radurai, creando un piccolo "varco" nel gruppo. «Prendetelo per mani e piedi, poi tiratelo su con delicatezza, okay? Al mio tre. Uno.... due.... tre!»
Due Radurai si alzarono di botto mentre gli altri gli fecero spazio per passare. I muscoli delle loro braccia erano tesi mentre trascinavano il corpo del Raduraio che tenevano ben saldo per non farlo cadere a terra.
Ci passarono davanti. Il Raduraio che tenevano sollevato da terra e che stavano trascinando via da lì era nudo, pieno zeppo di tagli profondi lungo tutto il corpo, grondante di sangue. La pelle bianca, quasi grigiastra, le labbra carnose, gonfie e violacee, le occhiaie marroncine e profonde.
Da come era ridotto male dava l'impressione di potersi spezzare da un momento all'altro.
Newt schiuse le labbra e corrugò la fronte. «Non è... non è possibile! Quello è... George? Ma è vivo?» Quasi balbettava dallo stupore.
Ven annuì, poi scosse la testa. «No. O meglio, sì, ma probabilmente non passerà la notte. Come puoi vedere non è in buone condizioni.»
Avrei voluto dire una sola parola, una sillaba, ma la mia lingua era pietrificata, così come il mio corpo. Non riuscivo a pensare.
Era pieno di fori lungo l'addome. Quante volte era stato punto per essere ridotto in quelle condizioni?
«Tanto vale buttarlo nella fossa che abbiamo scavato nelle Faccemorte, no?»
«No.» Ven sospirò. «È giusto che lo vedano anche Alby e gli altri. La cosa strana è che ha una sorta di tatuaggio sul collo, cosa che nessuno aveva mai notato prima.» Si grattò la fronte.
«Un tatuaggio?», domandai confusa, Ven annuì.
«Sì. Un frase strana, tipo: "Gruppo A, Soggetto A19. L'-»
«L'innesco», mormorai prima che potesse terminare. Mi guardò sconcertato.
Ero sbalordita anche io da tutto ciò.
«Come facevi a saperlo? Voglio dire... l'hai letto? Quando?» Si grattò la nuca.
Corrugai la fronte. «Non lo so...» Poggiai una mano sulla fronte. Cominciò a farmi male la testa e mi sentii come due giorni prima. Un fiume di pensieri prese il sopravvento su ciò che stava succedendo nella realtà.
Piccoli pallini di luce comparvero davanti alla mia vista, la voce di una donna che diceva una cantilena, ma le parole erano confuse, non le afferravo. I pallini di luce cominciarono a formare piccole immagini, era come se potessi scegliere che scena guardare.
Sentii le mie ginocchia cedere, il peso del mio corpo divenne superiore rispetto a quanto le mie gambe potessero sostenere. Mi abbandonai a terra. La ginocchiata data al terreno fu dolorosa, ma non m'importò, perché il dolore che provavo alla testa era decisamente maggiore.
Mi chiamavano. Newt mi chiamava, eppure il mio udito lo sentiva così dannatamente lontano.
Alzai lo sguardo. Piangevo. Le mie guance erano umide, lo sentivo.
Provai a guardare il volto di Ven, che era davanti al mio, ma lo vedevo sfocato e non era dovuto alle lacrime che occupavano i miei occhi. Attorno al suo volto vedevo tutto nero, come se l'oscurità lo stesse divorando.
Qualcuno, supposi Newt, mi afferrò per le braccia e cercò di tirarmi su senza riuscirci, forse per il dolore alla ferita. Continuava a chiamarmi, Ven mi chiedeva di rimanere lucida, ma era come se mi stesse chiedendo troppo.
Ero spaventata ed allo stesso tempo assonnata. Sentivo dolore ovunque, ma ciò che mi faceva più male era sempre la testa. Era come avere mille spille conficcate nel cranio che premevano in modo insistente.
Tutto era diventato buio, troppo buio, anche se tenevo gli occhi aperti. Tanto valeva chiudere gli occhi. E così feci.
Continuavo a sentire le loro voci lontane, lontane e sempre più lontane ma mano che passavano i secondi.
Sentii il mio corpo lasciarsi andare, le tenebre attorno a me mi cullavano, mi avvolgevano, ricoprivano ogni centimetro di me come se volessero prendermi e portarmi via in eterno.
Un silenzio totale, come se la mia mente si fosse eclissata, finché lentamente finalmente un flebile suono cominciò a farsi avanti come un eco continuo, seguito da un eco più fastidioso appena sussurrato, di quelli in grado di causarti i brividi talmente sono forti, come se fossero a pochi centimetri dal tuo orecchio.
Era il mio nome ripetuto più e più volte, chiamato da più persone. Un susseguirsi di ricordi che mi giravano attorno ad una velocità pazzesca, come se avessi premuto il tasto con su scritto "random" e stessero estraendo un ricordo vincitore.
Poi tutto si placò. Di nuovo il buio, il silenzio.
«Elizabeth!», sentii quella voce gridare il mio nome, e di colpo ebbi la sensazione di cadere dalla montagna più alta del mondo. Quell'orribile sensazione di cadere nel vuoto in un sogno, in cui si prova il vuoto d'aria ed ormai si sa perfettamente che quando si toccherà il suolo ci si farà del male, ma ci si rifiuta di provare quel dolore anche si sa di non avere altra scelta.
«Elizabeth!». di nuovo quella voce, era come avere un appiglio invisibile a quel ricordo che la mia memoria confusa era riuscito a ripescare.
Aprii gli occhi. Sollevai la testa dalla superficie fredda su cui mi ero appoggiata.
Davanti a me c'era una ragazza asiatica con i capelli castano scuro legati in una crocchia fatta con due matite. Aveva un paio di occhiali che le calzavano a pennello, le davano un tocco quasi professionale.
«Ti sei addormentata durante l'esercitazione!», borbottò sottovoce sperando che la sentissi solo io.
Mi guardai attorno, sperando di non vedere nessuno degli addetti ai controlli dei test. Ce n'era solo uno ed era dietro una scrivania, col volto abbassato su un quadernino.
«Sta' tranquilla, il signor Janson non ti ha vista.»
«Credevo che i ratti fossero molto attenti... non sarà un vero e proprio ratto, ma ci somiglia parecchio», brontolai, provocando una risata nella ragazza seduta davanti a me.
«Smettila, scema! Finiamo questa esercitazione, così dopo dovremo solo preoccuparci dei dettagli da sistemare e infine potremo dormire.»
«Non che il fatto di dover sistemare i dettagli del progetto D2MH mi elettrizzi parecchio», mormorai con un tono sconfortato. Detestavo dover lavorare per quel progetto, anche se non ricordavo precisamente che progetto fosse.
Ricordavo con chiarezza l'odio che ci mettevo, lo riversavo tutto nel lavoro, creando dei mostri orribili. Questo lo ricordavo con chiarezza. Ogni idea malsana, ogni cosa che avrei voluto fare verso le persone che mi costringevano a fare quelle cose, la disegnavo su un foglio, creando così creature inimmaginabili anche per la mente più diabolica. Tutte cose perfettamente studiate ed elaborate per un unica ragione, anche se poi sarebbero stati usati per altri scopi.
Sapevo, però, che una volta ciò che avevo creato si era rivoltato contro uno di quegli uomini vestiti con un camice bianco che camminavano spesso nella struttura. L'aveva preso, impalato alla parete e ridotto in tanti piccoli pezzettini.
Era stata una scena davvero macabra, ma allo stesso tempo in un certo senso sentivo una parte di me piuttosto felice di ciò che avevo visto. Provavo un odio incondizionato perché mi avevano fatto qualcosa di veramente brutto e continuavano a farlo.
«Sai bene che noi, in confronto agli altri, siamo graziati», sussurrò. «Pensa a Jill...», il tono della sua voce si fece così fine e tremolante che per un attimo pensai che sarebbe scoppiata a piangere.
«Si sa nulla sulle sue condizioni attuali?» Allungai la mano verso la sua cercando di non farmi vedere da Janson.
La ragazza davanti a me nascose le mani sotto il tavolo. Non voleva essere vista. Sapeva che Janson avrebbe reagito male, come sempre quando vedeva che qualcosa non andava come doveva andare.
«No, quei bastardi non ci fanno sapere nulla. Ieri sono passata davanti alla stanza dove la tengono rinchiusa per osservarla e mi hanno cacciata via immediatamente. L'unica cosa che so è che sta recuperando la vista lentamente», mormorò.
Janson chiuse il quaderno e si alzò, dirigendosi con un passo calmo e deciso verso di noi. Ci rivolse un sorriso smagliante e falso. Scosse lentamente l'indice verso destra e sinistra, scuotendo anche la testa in segno di totale disappunto.
«No no, signorine, così non va bene! Potrete parlare solo quando avrete terminato il test. Su via signorina Elizabeth, non dovrebbe essere così complicato per lei, visto che tali esseri sono frutto della sua fervida immaginazione!», disse con un tono quasi di stima. «Thomas è così entusiasmato che ha grosse aspettative riguardanti il progetto D2MH! Anzi, pensa che lei potrebbe addirittura migliorarlo!»
Sospirai e cominciai a smanettare sullo schermo touch incastrato nel tavolino sotto di me.
Ingrandii l'immagine dell'essere, sollevai il palmo della mano e l'immagine venne proiettata fuori tridimensionalmente grazie ai riflettori appesi proprio sopra le nostre teste e sotto il tavolo.
Non ero in grado di vedere l'immagine, forse per via della mia memoria abbastanza danneggiata.
Ma sapevo che una parte di me era orgogliosa della mia creazione, perché racchiudeva in un unico essere tutto l'odio per quelle persone, mentre l'altra ne era totalmente disgustata.
«Eccolo», dissi, poggiando l'indice sull'immagine e facendolo ruotare per mostrarne tutte le sfaccettature. «Ha passato il test, capo. Come da aspettativa, ha saltato tutte le barriere, anche le più alte. Le sue lame hanno distrutto tutto, il metallo utilizzato è uscito proprio come avevo richiesto nel progetto, quindi dica pure agli scienziati che hanno svolto un lavoro a dir poco eccellente nel svilupparlo.»
Presi un grosso respiro, mandando avanti l'immagine e passando a quella successiva. Un video che mostrava ciò che faceva quella creatura, ma non riuscii a vederlo nemmeno iniziare.
Ci fu un salto temporale. Fu come se qualcuno mi avesse scosso la testa velocemente e mi avesse fatta girare su me stessa: tutto attorno a me cominciò a ruotare per poi fermarsi nuovamente.
Janson si congratulò con me per il lavoro svolto, le persone attorno a me battevano le mani.
Non volevo che mi elogiassero, non per una cosa fatta contro la mia volontà.
«Si può dire che il progetto D2MH è praticamente invincibile! Ma veda di migliorarlo ancora di più, se è possibile. Come le ho già detto, Thomas pensa che potrebbe essere anche perfezionato. Pretende da questo progetto la totale perfezione. Abbiamo grosse aspettative su di lei, Elizabeth.»
Chiusi gli occhi e presi un grosso respiro. «Signore, stavo pensando che forse sarebbe meglio creare esseri più piccoli di questo che le ho appena mostrato. Come può ben vedere, questo è veramente enorme: supera di gran lunga la grandezza dei suoi predecessori già in utilizzo nei test del Gruppo A e del Gruppo B. Ovviamente i più piccoli si atterranno sempre al progetto D2MH, ma supereranno di poco la grandezza dei precedenti e saranno leggermente più deboli di questo. Diciamo che lui...», indicai l'immagine in 3D alle mie spalle, «è l'Alpha».
Janson storse leggermente il naso, assumendo un espressione strana più di quanto già non lo fosse senza fare smorfie. Ci stava pensando su. Ma perché doveva essere così... "rattoso", anche mentre pensava?
Distolsi lo sguardo, sobbalzando non appena emise un verso sognante, una sorta di sospiro strozzato. «È un ottima idea! Potresti diventare il capo ufficiale di questo progetto!» Mi guardò, facendomi l'occhiolino. A volte trovavo quell'uomo veramente viscido.
Sospirai, la ragazza davanti a me brontolò qualcosa sottovoce, ma Janson, sebbene avesse uno sguardo sognante, se ne rese conto. Sbatté violentemente il pugno contro il tavolo, facendo sobbalzare sia me che la ragazza.
«Qualcosa da ridire, Jocelyn?», chiese Janson con tono di sfida.
Jocelyn. Sebbene non avessi memoria, sapevo che quel nome era sbagliato.
Infatti la ragazza schioccò la lingua infastidita. «Mi chiamo Evangeline, signore. Non voglio essere chiamata Jocelyn. Voglio mantenere il mio nome.»
«Mi scusi, credo di aver già chiarito che non è possibile. Lo sa bene. Nomi speciali per ragazzi speciali», rispose con tutta calma anche se il suo tono di voce nascondeva un po' di scocciatura, probabilmente dovuta al fatto di averlo dovuto ripetere per l'ennesima volta.
Evangeline chiuse gli occhi, facendo un respiro profondo ed abbassando lo sguardo con fare rassegnato. Sapevo però che lei non si sarebbe arresa così facilmente.
Non ricordavo Evangeline, ma ricordavo chiaramente che era una ragazza tosta. Infatti, quando Janson si girò per andarsene, lei fece un grosso sospiro e riaprì gli occhi. Mi guardò con uno sguardo amaro, non poteva parlare a voce alta e la cosa le rodeva parecchio. Sapevo che sarebbe successo qualcosa di brutto se l'avesse fatto.
«Questa è esattamente la prova schiacciante di quanto a loro freghi dei soggetti ai test diretti, come Jillian. A noi non è concesso conservare il nome reale, perché siamo "speciali", loro invece possono tranquillamente tenerlo», disse in un sussurro con una calma apparente.
Non ricordavo Jillian, ma sapevo che le era successo qualcosa di brutto per colpa dei test.
Cos'erano i soggetti ai test diretti? Non ricordavo che test fossero, ma ricordavo che c'erano dei diversi livelli di test e che Jillian apparteneva al peggiore.
Janson si avvicinò a grandi falcate ad Evangeline. Le diede una spinta, cacciandola col busto sopra il tavolo. Non poteva toccarci nemmeno con un dito in quanto soggetti speciali, a me perlomeno non mi aveva mai toccata, eppure spesso capitava che, in preda al nervoso, colpisse qualche ragazzo.
«Jillian È speciale, Jocelyn!», sbraitò, «Sai anche tu cosa le abbiamo fatto, no? Che test abbiamo svolto? Ma forse non ti è chiaro quanto fosse importante! Ciò che è avvenuto nel suo DNA potrebbe essere dannatamente utile! Il bene superiore, Jocelyn! Ricordalo!»
«A cosa servirebbe alterare il colore dei suoi capelli e dei suoi occhi? Restare ciechi a cosa servirebbe? Sentiamo!», sbraitò lei a sua volta.
«Evangeline...», sussurrai in una vaga speranza di attirare la sua attenzione e farle capire che sarebbe stato meglio se avesse abbassato i toni. Non volevo che Janson si arrabbiasse di più con lei.
«Abbiamo lavorato sul suo DNA, l'abbiamo alterato per vedere se avrebbe reagito in modo positivo ai test! Sono tanti piccoli passaggi utili a loro modo! La cecità è stata una causa della modifica e dell'operazione agli occhi che la ragazza ha dovuto subire per il controllo della riuscita dei test, per vedere se avesse retto o meno e come avessero reagito le sue attività celebrali. Ha superato egregiamente sia quel test che quello nel cuoio capelluto. Ed ora la sua amica ha dei bellissimi capelli fucsia naturali, oltre che gli occhi. Il suo colore è stato modificato, ora ci vede di nuovo e lo fa benissimo. Lavora in modo super efficiente come al solito.»
Evangeline sollevò un sopracciglio, schioccando la lingua. «Dica la verità, non sa come giustificare la cosa e ci sta rifilando una marea di bugie.»
Janson divenne rosso di rabbia. Sollevò una mano e, pochi attimi dopo, colpì il volto di Evangeline con uno schiaffo molto, troppo forte. Lei girò il volto. La sua guancia divenne rossa quasi subito.
Non dissi nulla. Non potevo farlo. Abbassai lo sguardo. Mi sentii in colpa perché non potevo fare niente. Ero impotente davanti a quella scena.
Non ascoltai ciò che disse Janson dopo, preferii non farlo. Aspettai che andasse via.
«Avresti dovuto tacere», mormorai. Evangeline tirò su col naso, scuotendo la testa e facendo un respiro profondo.
«Odio le ingiustizie. Jillian, come noi altri, è umana. Non merita alterazioni del DNA o qualsiasi altra puttanata le hanno fatto addosso.»
«Ora se la prenderanno a morte con te...»
«Non importa», mormorò, «So già dove finirò a breve». Si tirò indietro un ciuffo di capelli.
Sapevo bene anche io cosa sarebbe successo da lì a breve, ormai l'avevo accettato.
L'immagine si offuscò, di nuovo, i suoni si mischiarono tra loro, tutto cominciò a girare come un mappamondo impazzito.
Sentivo come se la terra stesse tremando sotto i miei stessi piedi e non avessi appigli. Ormai mi stavo abituando a quella pessima sensazione, ma il mio cuore batteva sempre così forte da farmi pensare di poterlo vomitare da un momento all'altro.
Era quella la parte peggiore di tutto. La sensazione che il sangue nelle vene scorresse dannatamente veloce, l'adrenalina che saliva a mille.
Era come scavare nella memoria, una scoperta nuova anche se solo un ricordo.
Ma per chi, come me, non aveva memoria di niente, beh... quella era una gran bella cosa, anche se, fino a quel momento, nessun ricordo era stato allegro.
Venni accecata dalla luce intensa. Ero circondata da tanti computer, stavo lavorando ad un progetto.
Ero piccola, sapevo di avere circa quindici anni.
Non ero lì da molto tempo, forse qualche mese. Mi stavo adattando a quel nuovo computer che avevo davanti, era super tecnologico e non avevo mai visto nulla del genere. Era nuovo ed era tutto per me, prima lo condividevo con un'altra ragazza che, oltretutto, in quel momento era accanto a me. Capelli lunghi, rossi, racconti in una treccia che ricadeva lungo la schiena.
Janson, come al solito, ci stava controllando, tenendo davanti al muso una cartellina sulla quale scriveva.
All'improvviso una donna entrò correndo nella nostra stanza, accompagnata da una ragazza più giovane vestita come se fosse già adulta.
La mia attenzione venne subito catturata dalla ragazza più giovane, forse per il modo in cui si comportava. La conoscevo bene, ma non ricordavo il suo nome.
Trovai quell'immagine abbastanza triste, quella ragazza sembrava voler crescere prima del tempo. Eppure la cosa non mi stupiva... sapevo che per poter sopravvivere lì dentro si doveva crescere. Non avevano tempo per quelli che volevano ancora giocare o pensare all'ultimo modello dei cellulari.
Reggevano entrambe una cartellina clinica in mano, ma la ragazza sembrava essere più scossa.
«Janson, uno dei ragazzi è riuscito ad arrampicarsi fino a metà delle Mura e si è lanciato!», disse in modo frenetico la donna.
Janson fece un verso di curiosità e la ragazza annuì velocemente con la testa.
La sua pelle era olivastra, ma il suo volto era pallido come se avesse visto la cosa più brutta del mondo. Potevo capirla, comunque. Sicuramente quella non doveva essere una bella scena.
Janson arricciò il naso, sbuffò, poi cominciò a smanettare col computer. Tutti gli schermi davanti a noi cambiarono sfondo, mostrando tutti la stessa immagine.
Un ragazzo biondo era sdraiato a terra. Sanguinava, si era davvero lanciato da metà di quelle mura altissime.
Quale e quanta forza di volontà ci volevano per fare un gesto tanto estremo?
Quale limite aveva superato per portarlo a fare tanto?
Era solo un bambino. Aveva quindici anni. Provai una morsa al cuore. Il suo volto esprimeva dolore, delusione, odio, paura, terrore, panico ed altre cose... ma nemmeno una delle cose che esprimeva era positiva.
Ogni tanto gridava dal dolore, ma non lo faceva di continuo. Si lamentava con piccole grida, come se non volesse essere sentito, come se volesse lasciarsi abbandonare. O forse semplicemente l'adrenalina non gli faceva sentire ancora il dolore al completo.
Respirava faticosamente. Ero in ansia per lui. Allungai una mano sullo schermo, lo sfiorai.
Mi sentii una stupida. Mi sentii in colpa per ciò che gli era successo anche se io non c'entravo nulla con tutto quello.
Volevo fare qualcosa per lui, ma non sapevo cosa. Anche io ero solo una bambina. Sotto sotto sapevo cosa provava quel bambino, o meglio, potevo immaginare cosa l'avesse spinto fino a quel punto.
Stavo imparando a capire cosa succedeva in quel posto orribile e non mi piaceva affatto, ma ero costretta a stare lì e a svolgere il mio compito come tutti gli altri o le conseguenze sarebbero state parecchie e sgradevoli. Provavo dolore al posto di quel ragazzo.
«Svolta interessante», disse Janson con un tono distaccato, concentrato su ciò che stava accadendo in quel momento. Zoomò sul volto sofferente del ragazzo: teneva gli occhi sollevati al cielo, era cosciente, sebbene in procinto di lasciarsi andare. Le sue labbra erano rosee, macchiate di sangue e schiuse.
Janson poggiò un piede sul bordo della scrivania, si spinse un po' lontano e si girò verso la donna accanto a lui. «Di chi si tratta?», domandò infine, rivolgendo un occhiata veloce allo schermo davanti a lui.
«Di Newt, capo», rispose quella donna.
Non sentii cosa disse Janson dopo. La mia mente aveva deciso che avevo scoperto anche troppo.
L'unica cosa che vedevo era il volto di Newt, il suo sguardo. I suoi occhi erano lucidi, le mani di tanto in tanto si stringevano a pugno.
Sentivo il suo dolore, la sua sofferenza. Una forma di empatia veramente forte verso un ragazzo che non conoscevo, se non per nome. Volevo piangere per lui.
«C.A.T.T.I.V.O. è buono. Se questo è il buono, non voglio sapere cos'è veramente cattivo...», mormorai tra me e me. Ero costretta a guardare l'immagine che avevo davanti, non potevo guardare altrove. Forse quella tortura era la cosa peggiore che potessero costringermi a subire. Non mi era concesso guardare altrove per nessuna ragione finché Janson non ci avesse dato il permesso di riprende a fare ciò che stavamo facendo pochi attimi prima.
Quelle erano le regole e noi dovevamo rispettarle. Non sapevo perché, non sapevo per quanto, ma era così e dovevo farmelo andare bene.
Erano cose che non andavano bene a nessuno di noi, ma tutti dovevamo accettarle contro il nostro volere per un bene più grande.
Quella era diventata la nostra ramanzina quotidiana, anche se la odiavamo, era quasi diventato un detto.
Un ragazzo biondino che si trovava a due sedie di distanza dalla mia aveva uno sguardo un po' preoccupato. Si girò e si guardò attorno come se temesse di essere visto. I suoi occhi erano gonfi e rossi, stava trattenendo le lacrime. Aveva un viso carino, giovane. La pelle rosea e gli occhi verde oliva. Sapevo che aveva circa la mia età.
Rachel passò nel corridoio dietro di noi insieme a George, ormai nella mia memoria remota avevo presente quei nomi. Sopratutto quello di George. Rachel gli spiegava la situazione, gli parlava di un progetto, di certi piani che la C.A.T.T.I.V.O. stava seguendo.
Il ragazzo biondo trasalì nel sentire le parole di quella ragazza, fissava lo schermo con un aria terrorizzata.
«Non voglio essere il prossimo», sussurrò con un filo di voce.
Sapevo cosa intendeva, ma non comprendevo a fondo la situazione o cosa succedesse lì... eppure non ebbi il coraggio di parlare. Da come ne parlava Rachel non sembrava nulla di così brutto.
Un altro salto temporale, fu come se la mia testa girasse per un paio di secondi.
L'immagine del ragazzo steso per terra era ancora impressa nella mia memoria.
Davanti a me, c'era il ragazzo biondo di poco prima.
Eravamo l'uno davanti all'altra, seduti ad un lungo tavolo bianco che, ai bordi, aveva una forte luce
a led bianca.
Janson ci aveva mandati in quella stanza per una prova che aveva chiamato "test d'ingresso per uno stadio successivo". Aveva detto che solo chi fosse riuscito a passare quel test avrebbe ottenuto una sorta di promozione, che per quel test erano stati selezionati solo i soggetti migliori, quelli più promettenti e che chi non riusciva a passare il test non avrebbe avuto nessun tipo di conseguenza.
Il test davanti a noi non era altro che un foglio bianco con diversi tipi di quesiti, dai più banali ai più complicati. Avevamo due ore di tempo per terminarlo.
Il ragazzo davanti a me fissava le consegne dei quesiti, rigirava tra le mani una penna col tappo mordicchiato. Era nervoso e i suoi occhi erano ancora gonfi per le lacrime versate poco prima davanti allo schermo del suo computer.
I suoi capelli erano tirati indietro con del gel, ma erano ugualmente scompigliati per quanto fosse possibile.
Sospirava rumorosamente e Janson era infastidito da questo, ma non si lamentò a voce alta. Lo mostrava con finti colpi di tosse dopo ogni sospiro.
Dopo circa dieci minuti dall'inizio dei test, decisi di attirare l'attenzione del ragazzo. Volevo fargli delle domande, sapevo che era lì da più tempo di me, quindi logicamente sapeva più cose.
«Ehi!», sussurrai.
Il ragazzo sollevò lo sguardo su di me. I suoi occhi verdi sembravano due smeraldi sotto l'effetto delle luci led.
«Sì?», sussurrò a sua volta.
«Posso farti una domanda?»
Si guardò attorno in modo furtivo. Janson era impegnato a seguire i ragazzi più avanti di noi: li rimproverava perché erano "disordinati, distratti e correggevano troppe volte le loro domande".
Janson era un maniaco della perfezione.
Il ragazzo davanti me annuì. «Okay, ma sta attenta a non farti scoprire o penserà che ci stiamo suggerendo a vicenda», disse, riprendendo a scrivere.
Feci la stessa cosa e mi raccolsi tutti i capelli su una spalla. «Cosa intendi con "non voglio essere il prossimo?"»
Trasalì, anche se cercò di non darlo a vedere. Strinse la penna tra le mani, per un attimo pensai che potesse spezzarla, ma non lo fece. Prese un grosso respiro e scosse la testa. «Sei nuova di queste parti, vero?»
«Già...»
«Sono sicuro che mi sposteranno al test del Gruppo A. Non sono all'altezza di test come questo», indicò il foglio. «O meglio, sì, ma sarò sicuramente più utile nell'altro», mormorò, cercando di mascherare l'amarezza nella sua voce. Mi dispiaceva per lui, doveva essere davvero brutto avere una tale consapevolezza.
«Ma è okay», riprese, «Preferisco rendermi utile in qualche modo. In fondo non ho nulla da perdere. Ho già perso tutti... mia madre, mio padre, i miei nonni, mia sorella e mio fratello. Non mi resta più nulla e nessuno...». Si passò le mani sul volto, spostandole qualche istante dopo, mostrando un lato oscuro che i suoi occhi verdi avevano camuffato fino a pochi attimi prima. «E in ogni caso, non ho molta scelta», terminò.
«Sei stato costretto a venire qui?»
«Praticamente sì», sussurrò, riprendendo a scrivere prima che Janson si accorgesse del nostro chiacchiericcio. «Mia madre aiutava nella creazione dei Filtri che danno ai Soggetti prima di "spedirli". A me, mia sorella e mio fratello, essendo giovani, hanno fatto fare un test prima di farci entrare. Il solito ciclo, sai... solo io ho superato i test per accedere ai vari progetti, i miei fratelli no. Così, assieme a mio padre, hanno aiutato a svolgere varie faccende. Tutti lavoravamo qui e in qualche modo tutti contribuivamo per un bene superiore. In cambio, ci avevano promesso una cura...» Chiuse gli occhi. «Sì, certo... finte speranze...»
Chiusi gli occhi. Sapevo di essere in una condizione simile alla sua. Lo capivo. «Mi dispiace», mormorai
«Non dispiacerti, non è certamente colpa tua.» Sorrise, era uno di quei sorrisi falsi che si potevano riconoscere da diversi metri di distanza, ma accettai lo sforzo e ricambiai.
Abbassai lo sguardo sul foglio. Corrugai la fronte.
«Ehi... guarda la domanda numero venti...» Inclinai la testa.
Justin passò la penna lungo il foglio, scorrendo i numeri fino al venti.
Ci fu come uno scossone, sentii il mio corpo tremare, ma la stanza era immobile.
Le cose attorno a me divennero scure, poi i miei occhi si aprirono di colpo come se avessi fatto un incubo.
La testa pulsava, non misi subito a fuoco cosa c'era attorno a me. Era tutto offuscato. La mia testa, di colpo, svuotata di tutto ciò che avevo appena scoperto, fatta eccezione per qualche cosa.
Decisi di aggrapparmi a quelle poche cose che ricordavo, pronta ad esternarle. Volevo ricordare tutto, volevo fare chiarezza sul mio passato, su chi ero, sul perché non ricordavo nulla anche se le poche cose che ricordavo non avevano l'aria di un passato felice.
Ma ero sveglia. Ero di nuovo nella realtà, non nel fantasma di un ricordo.
«Ecco, testapuzzona! Si è svegliata di soprassalto, sei contento ora?!», sbraitò Newt, la voce proveniva da dietro di me. Era fastidioso perché sembrava essere tamponata e allo stesso tempo un eco.
Le immagini attorno a me divennero lentamente nitide, come se ci stessi passando un panno sopra così da poterle finalmente vedere.
«Scusa, ero solo preoccupato!», brontolò Chuck davanti a me. Sicuramente era stato lui a scuotermi, non avevo dubbi di questo
Poggiai faticosamente le mani sopra gli occhi, li strofinai. Sentivo le palpebre pesanti. Tenevo un pezzo di stoffa tra le mani, ma non ero nemmeno minimamente intenzionata a mollarlo.
Spostai le mani e mi guardai attorno.
Ero sdraiata su uno dei letti del Casolare, la stanza era quella dove dormivo di solito. Ma la mia testa non era poggiata sul cuscino. No. Era poggiata su un braccio. Ebbi un déjà vu di quel momento.
Alzai lo sguardo per vedere di chi fosse il braccio, ma ovviamente sapevo già che era quello di Newt.
Incrociai il suo sguardo, infatti. Si reggeva la testa con una mano, mentre l'altra era lasciata a penzoloni giù dal letto.
«Newt?», mormorai. Si portò l'indice sulle labbra per farmi cenno di fare silenzio e alzò lo sguardo su Chuck come se avesse voluto bruciarlo vivo.
«Questa testa di caspio ti ha scossa per farti svegliare.» Digrignò i denti, contraendo la mascella come se si stesse trattenendo dall'insultarlo in modo molto più pesante.
Chuck deglutì e abbassò lo sguardo sulle scarpe, fingendo di scalciare un sasso. «Ero solo preoccupato...», ribadì, poi tirò su col naso. «Non ti svegliavi più! Almeno ho cercato di fare qualcosa per svegliarti, mentre invece lui ti guardava beatamente rilassato su quel letto!», brontolò.
Trasalii e schiusi le labbra, prendendo un grosso respiro interrotto da un singhiozzo. Mi resi conto di avere le guance umide e che il pezzo di stoffa che tenevo in mano, non era altro che la maglietta stropicciata di Newt.
«Per caso ho...?»
«Sì, Liz, hai pianto come una Fagiolina», disse Newt con tono giocoso nel vano tentativo di sdrammatizzare.
Nella mia mente si rincorrevano le immagini di quel ragazzo a terra che gridava di dolore. Abbassai lo sguardo e mi guardai le mani. Non ricordavo praticamente già più niente. E pensare che ci stavo mettendo così tanto impegno per ricordare quelle cose...
Rialzai lo sguardo sugli occhi di Newt. Era preoccupato, la sua fronte corrugata e le sue labbra appena schiuse.
Fu come un lampo, uno squarcio nella mia memoria che lasciò intravvedere quello schermo, quel ragazzo a terra... lui.
Non volevo ricordare proprio quel dettaglio.
Riecco tutte le sensazioni che condividevo con lui in quel momento. Il dolore, la rabbia, la delusione, la sensazione di aver fallito...
Mi girai completamente verso di lui ed affondai il volto contro il suo petto, stringendo la sua maglietta tra le mani.
Portò una mano tra i miei capelli, accarezzandoli per calmarmi. «Ehi, ehi, ehi... che c'è?», sussurrò, poggiando le labbra sulla mia nuca.
Il suo respiro tra i miei capelli sembrava essere bollente come la lava incandescente, ma forse era solo una mia sensazione. Mi rilassava, ma non mi calmava. Non molto.
Avrei voluto parlargli di ciò che avevo visto, ma non volevo che lo sapesse anche Chuck. Temevo che poi si sarebbe preoccupato di più, e lo faceva già abbastanza.
Non volevo preoccupazione, non volevo che qualcuno mi compatisse.
Volevo solo restare da sola.
Volevo restare sola con Newt, perché sentivo che lì in mezzo era l'unico in grado di capirmi davvero.
Non sapevo se fosse una mia illusione, una mia convinzione o qualcosa del genere, in ogni caso ero certa che lui fosse l'unico in grado di capirmi a pieno.
Chuck si avvicinò al letto, la sua mano toccò il mio braccio, provocando uno sbuffo contrariato da parte di Newt.
Ritrasse la mano e sospirò. «Eli, è tutto okay?», domandò con un tono premuroso.
Annuii e sollevai la testa, girandomi verso di Chuck assumendo un sorrisetto, sperando che sembrasse almeno minimamente sincero.
Il suo sguardo divenne simile a quello dei vitellini nel recinto vicino agli Squartatori.
«Sì, Chuck, non preoccuparti, è tutto okay», mormorai, singhiozzando solo una volta (per mia fortuna).
«Okay... tornerò tra poco, Fagio, e ti porterò da mangiare!», esordì con un tono orgoglioso, come se quella fosse la sua missione principale nella Radura, poi uscì dalla stanza sbattendosi la porta alle spalle.
Mi girai nuovamente non appena ebbi la certezza che Chuck fosse abbastanza lontano da non sentire nemmeno il lontano brusio della mia voce.
Chiusi gli occhi e nascosi il volto contro il petto di Newt, che fino a quel momento era rimasto in silenzio a giocare con le ciocche dei miei capelli.
Trasalì, continuando a giocherellare con la mia chioma. «Liz... che succede?», mormorò con un tono preoccupato, cercando però di non darlo a vedere. Cosa che non gli riuscì tanto bene dato che, ormai, avevo imparato a conoscere ogni sfumatura della sua voce.
Feci un respiro profondo e ripresi a singhiozzare. Volevo smettere, ma era più forte di me.
Il ricordo di lui steso a terra non mi dava tregua.
Detestavo apparire così debole, ne ero stanca. Volevo essere forte, ormai ero nella Radura e dovevo comportarmi da Raduraia, non da femminuccia.
Strinsi la sua maglietta tra le dita, giocando col tessuto, poi poggiai la fronte contro il suo petto e cercai di calmarmi.
Newt sospirò, poggiando le labbra sulla mia nuca. Per un attimo pensai di averlo stufato col mio continuo piagnucolare... poi capii che era semplice frustrazione.
«Non tenermi così sulle spine, mi fai dannatamente preoccupare», mormorò contro i miei capelli.
«Ho di nuovo... ricordato delle cose, diciamo. Non so dirti quando e dove le ho viste, ma erano veramente orribili.» Presi un respiro profondo, stringendo di nuovo il tessuto della sua maglietta. «Ti ho visto a terra, agonizzavi... so che ti eri arrampicato fino alla metà di una delle pareti del Labirinto e ti sei lanciato. Non ho visto quella scena, grazie a Dio, ma ho visto che soffrivi contro quel pavimento di marmo.» Mentre parlavo trasaliva sempre di più.
Ad ogni parola sembrava che lo ferissi con un pugnale vecchio e arrugginito. Alzai lo sguardo verso il suo volto, riaprendo gli occhi.
Aveva uno sguardo perso, come se si fosse spento di botto per non provare nessun tipo di sensazione. Forse se l'avessi pugnalato davvero non avrebbe avuto quell'espressione.
Solo in quel momento ricordai che mi aveva raccontato di essersi lanciato da una parete. Che era quello il motivo per cui zoppicava.
Ma perché io avevo visto quella cosa? Cosa facevo in passato?
Alla fine fece un respiro profondo e ricominciò ad accarezzarmi distrattamente i capelli. «Capisco...», disse in un sussurro, fissando un punto indefinito della parete davanti a lui. «Sei sicura che fosse un ricordo e non un incubo?»
«Sicurissima, Newt, era veramente troppo nitido... e poi, non poteva essere un incubo.»
Chiuse gli occhi e annuì. Forse ci stava pensando su. «Ti credo...», disse infine, schioccando la lingua poco dopo e legando un braccio attorno alla mia vita, stringendomi a lui come se fossi stata il suo peluche preferito, «Avanti, raccontami un po'».
Presi un grosso respiro per evitare di singhiozzare ogni secondo e cominciai a raccontargli ciò che mi ricordavo. A dire il vero non era molto, avevo parecchi vuoti di memoria, ma tutto quello che rammentavo glielo raccontai con una precisione a dir poco perfetta.
Tutti i dettagli, le sensazioni... una voce vaga che diceva che il ragazzo che si era lanciato era lui, lo schermo davanti a me che riproduceva l'immagine di lui a terra, le grida, il suo sguardo, il sangue...
Rabbrividì solo al pensiero. «Immaginavo comunque che c'entrassi io», disse con un tono calmo e pacato, accarezzandomi i capelli. Si era calmato lui e mi ero calmata anche io.
Non aveva smesso di accarezzarmi i capelli nemmeno per un attimo, mi stava provocando il sonno, infatti di tanto in tanto chiudevo gli occhi.
«Mi hai chiamato un paio di volte. A dire il vero, prima di salire sul letto, io ero seduto a terra e tu eri sdraiata con la testa sulle mie gambe. Non volevi lasciarmi andare, mi stringevi la mano per non farmi allontanare. Chuck ha ben pensato di cambiare le lenzuola con un paio più pulite prima di farci sdraiare, per quello era qui con noi. Pensavo che stessi dormendo, non che avessi un ricordo in corso... se così si può dire. Vorrei capire come mai ti è successo di nuovo», brontolò.
«Non lo so... non ne ho la minima idea, credimi. So solo che sono già stanca di questa cosa. Quando succede è come se stessi cadendo in un burrone. Poi ci passo per quella debole. Vi faccio preoccupare, comincio a piangere come una bambina, i Radurai fanno i loro commenti, ti metto pressione e la mia mente si carica di domande assurde! Sono stanca, voglio essere forte perché, dannazione, ormai sono una Raduraia e dovrei diventare forte e indipendente, e invece sono qui nel letto a lamentarmi di quanto faccio schifo!»
Poggiai le mani sugli occhi, facendole strisciare verso il basso e spostandole sulle tempie poco dopo, cominciando a premerle. «Per non parlare di quanto mi senta inutile! Ho mille pensieri per la testa, mille al secondo, tutti incasinati! Mi fanno uscire fuori di testa, dannazione! Non ne posso più di averli qui, potessi li vomiterei per non tenerli, visto che non hanno mai un filo logico. Non riesco a fare ordine, sembrano mille ricordi sbiaditi, informazioni incasinate, non riesco a trovarne un sens-»
Interruppe tutto. I miei pensieri, la sensazione che la situazione stesse sfuggendo di mano... tutto. Sparì tutto in pochi attimi. Dal momento in cui spostò le mie mani dalle tempie e le strinse nelle sue, a quando pochi secondi dopo le sue labbra incontrarono le mie, sorprendendomi come la prima volta.
Durò pochi attimi, ma ne valse la pena.
Riaprii gli occhi lentamente, il suo volto era a pochi centimetri dal mio, con un sogghignetto soddisfatto stampato sopra, come se avesse appena combinato uno scherzetto a qualcuno.
Realizzai che forse aveva quell'espressione perché ero arrossita in una maniera disumana.
Tornò serio, accarezzandomi le guance. «Tutto okay?»
Annuii, anche se ero un po' distratta dalla vicinanza dei nostri volti. Riuscivo a sentire il suo respiro sulle mie guance. «Perché mi hai baciata?». mormorai, deglutendo poco dopo.
Ridacchiò e fece le spallucce. «Non posso farlo?» Avvicinò di nuovo le labbra alle mie con fare provocatorio, come se volesse baciarmi di nuovo... poi si allontanò e tirò su la testa, poggiandola sulla mano per reggersi. «Seriamente parlando, era per calmarti. Ha funzionato?»
Dovevo averlo guardando con uno sguardo d'odio puro in quel momento. Lo ammetto, avrei voluto baciarlo di nuovo... non potevo farci nulla.
Ad ogni modo, cercai di non farci caso. Non volevo dargli quella soddisfazione.
«Sì, ci sei riuscito», risposi secca, gonfiando le guance.
«Bene così.» Scosse le spalle. «Ho fatto la mia buona azione giornaliera, allora.»
Annuii e mi misi seduta, scendendo dal letto poco dopo. Sistemai i capelli sulla schiena e mi stiracchiai, grattandomi la nuca e guardandomi di nuovo attorno.
Eravamo soli e c'era parecchio silenzio, anche se fuori dalla finestra riuscivo ad intravvedere alcuni Radurai fare avanti e indietro. Ebbi un lampo di memoria. Ricordai ciò che era successo prima di "svenire". George. Il tatuaggio... la scritta.
Dovevo scoprire qualcosa di più. Volevo farlo. Sentivo il bisogno di risposte.
«Dov'è George?», domandai, alzando lo sguardo su Newt che nel frattempo si era alzato e sistemato per bene.
«All'altro mondo, probabilmente», rispose, poi mi guardò con la fronte corrugata e sollevò un sopracciglio, incrociando le braccia al petto. «Perché me lo chiedi?» C'era una punta di gelosia e amaro nella sua voce, sembrava pronto a sputare veleno da un momento all'altro.
Sollevai un sopracciglio a mia volta e assunsi la sua stessa posizione, corrucciando le labbra. «Cos'è quel tono che hai appena usato?», ingrossai la voce, cercando di essere fedele al suo tono.
«... mi stai imitando?» Schioccò la lingua, assumendo una finta espressione offesa. Lo trovai adorabile, dovevo ammetterlo. Sembrava un bambino che non voleva mai crescere.
Risi e annuii, poi abbassai il volto, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Seriamente parlando, voglio sapere cos'è successo.»
«È nella stessa sala in cui l'hanno portato durante la Mutazione. Se stai meglio, ti ci porto, ma penso vivamente che non sarà un bello spettacolo.»
«Non mi interessa, voglio vedere almeno come sta», brontolai.
Sbuffò e si avviò fuori dalla porta, facendomi segno di seguirlo.
Newt aveva ragione, era la stessa stanza dell'ultima volta.
Al suo interno si erano radunati tutti i Costruttori attorno al lettino su cui era disteso George.
Il suo corpo era davvero in pessime condizioni, era praticamente marmoreo ormai talmente era grigiastro. Era coperto da un vecchio telo pieno di cuciture e toppe, il tanto giusto per coprirlo, dato che era nudo.
Justin era seduto sul lettino, probabilmente ormai non gli interessava più "nascondere" ciò che provava per George. Gli teneva la mano, l'accarezzava dolcemente seguendo la linea delle sue dita. Voleva prendersi cura di lui come se fosse stato il suo bene più prezioso... anzi, forse lo era.
Sospirò in modo frustrato mentre Jeff ascoltava il battito cardiaco di George, tenendo due dita sul suo polso destro e l'orecchio sul suo petto.
«Ha il battito molto debole», disse Jeff, «Non capisco come abbia fatto a sopravvivere fino ad ora, ma probabilmente non arriverà a domani». Si scrocchiò le dita delle mani.
«Non possiamo dargli dell'altro Dolosiero?»
«Gliel'abbiamo già somministrato, dargliene dell'altro non cambierebbe le cose, Justin, ormai è andato.»
Justin annuì, ma la sua testa era altrove.
«Visto? Te l'avevo detto che non era una bella scena», brontolò Newt alle mie spalle.
Alby entrò nella stanza, spintonando via i Costruttori. Voleva parlare con Jeff per sapere le condizioni di George, un po' come tutti. Si avvicinò a lui per farsi ripetere la pappardella detta a Justin.
Dal modo in cui Jeff alzò gli occhi al cielo potevo capire che l'aveva ripetuta almeno mille volte, mentre Justin ormai era già stufo di sentirselo dire, ma non fece una piega. Non era intenzionato a lasciar andare la mano di George. Disegnava mezzelune sul dorso della sua mano, l'accarezzava come se fosse la prima vota che la vedeva, come se volesse studiarne ogni dettaglio.
Volevo fare qualcosa, mi faceva male vedere il mio amico così giù di morale. Tutto ciò che faceva era come una preghiera muta.
«Ehi?» Newt tamburellò l'indice sulla mia spalla, cercando di richiamare la mia attenzione.
Lo guardai con la coda dell'occhio, ma la mia attenzione era praticamente del tutto richiamata dal corpo di George che sembrava diventare sempre più grigiastro ad ogni secondo che passava.
Newt schioccò la lingua, allora mi girai, ma ormai si era messo a chiacchierare con Alby.
Jeff tornò accanto a George, lo controllò di nuovo. Forse aveva notato che peggiorava sempre di più.
Il mio sguardo cadde allora sul collo di George, su quel tatuaggio. "Gruppo A, Soggetto A19. L'innesco". Cosa poteva significare? Per qualche strano motivo nella mia mente tale frase non era nuova. Ma perché?
Abbassai lo sguardo sulla mia mano destra.
Per un secondo la mia vista mi sembrò appannata, sentii la necessità di mettermi in salvo.
Le mie gambe cominciarono a cedere senza un motivo preciso, mi sentivo debole, ma cercai di reggermi sulle mie gambe.
«Ragazzi... temo che George sia andato», mormorò Jeff dopo aver ascoltato di nuovo il battito, tenendo tra le mani uno dei polsi di George.
Justin trasalì sul lettino, il suo volto divenne bianco come la tela. Il suo sguardo si spense di botto, lo sollevò velocemente verso Jeff e schiuse le labbra. «E questo cosa significa?», disse.
Alby sospirò pesantemente, avvicinandosi al lettino con un passo lento e sollevando lentamente la coperta sul corpo di George.
Jeff prese un respiro profondo e lasciò andare definitivamente il polso. «Non sento più il polso... temo proprio che sia and-»
Un verso somigliante ad un risucchio riempì la stanza. Era simile al rumore dell'acqua che viene risucchiata da uno scarico ostruito, faceva venire la nausea da quanto era forte, poi un sussulto da parte del corpo di George e tutti si girarono di botto verso il lettino.
Aveva sbarrato gli occhi e schiuso le labbra, il suo petto si gonfiò per prendere un grosso respiro e la sua schiena si inarcò in un arco perfetto degno del miglior ginnasta del pianeta. Ricadde di peso sul materassino con un tonfo fortissimo, temevo che avesse spaccato il lettino dal pessimo rumore prodotto dalle molle.
Anche Justin si era allontanato, aveva preso tutti alla sprovvista.
Cominciò a tossire faticosamente i suoi occhi balzavano da un lato all'altro della stanza come se fosse in preda al panico. Balbettò parole incomprensibili, poi fermò lo sguardo su Newt.
Chiuse le labbra, abbassò lo sguardo su di me, infine su Justin. Il suo sguardo di panico si placò, scomparve, sostituito da un sorriso appena accennato.
Alby spostò la coperta e la piegò leggermente, lasciandola cadere sul petto di George. «Bene Pive, fuori da questa stanza del caspio, lasciamo loro un po' di privacy!», brontolò, facendo cenno di uscire a tutti.
George si mise seduto (come faceva a mettersi seduto dopo aver inarcato la schiena in quel modo?) e afferrò un braccio di Alby. Tossì un paio di volte e si passò una mano tra i capelli. «Da qui non esce nessuno», disse. La sua voce era un gorgoglio continuo, al punto di essere fastidiosa solo ad ascoltarlo.
Alby ridacchiò in modo nervoso, scostando il braccio con fare violento. «Hai fatto un viaggio nell'aldilà e sei tornato, okay, capisco, ma a noi non interessa vedere le vostre smancerie.»
«Nessuna smanceria. Ho un avvertimento». Chiuse gli occhi, riaprendoli lentamente. «Loro mi hanno detto che stanno arrivando.»
«Loro? Chi?» Sussurri. Continui sussurri. Nella mia testa riuscivo a sentire ogni singola parola anche se erano tutte accavallate.
La sensazione di debolezza si faceva strada lungo le mie gambe. Sentivo di poter cadere da un momento all'altro. Avevo bisogno di aria. Mi sentivo soffocare.
«I Creatori», rispose in tutta calma George. Una calma tetra, di quelle che precedono una crisi di nervi. Il suo sguardo non era lo stesso dell'altra volta. Forse era dovuto solo al colorito più grigiastro, ora più evidente, o ai suoi occhi arrossati che gli davano l'aria di un drogato.
Alby corrugò la fronte e sollevò un sopracciglio. «Cosa intendi dire con "i Creatori"? Quando li avresti visti?»
«Dove credi che sia stato tutto questo tempo? Assieme ai Dolenti a giocare a carte? Guardami, Alby! Guardami negli occhi!» Fece per scattare in piedi, ma poi si fermò e cominciò a ridacchiare in modo isterico. Mi dava i brividi.
«Siete tutti fregati. Tutti! Una volta usciti di qui non saprete nemmeno dove girarvi! Non avete idea di cosa ci sia oltre quelle Mura del caspio! Io l'ho visto! L'ho visto caspio, durante la Mutazione!» Tossì, le vene del suo collo si ingrossarono così tanto da rendersi dannatamente visibili.
Si guardarono tutti negli occhi, domandandosi di cosa stesse parlando.
«George, calm-»
«Non dirmi di stare calmo quando non sai di cosa sto parlando! I Dolenti mi hanno punto tante volte quanto si battono gli occhi in una giornata intera! Ho visto tanti Dolenti. Tantissimi! Non sono tutti uguali. No, ce ne sono un paio diversi, più grandi, Alby, più temibili! E si sono svegliati ora!» Scattò in avanti, acchiappò il braccio di Alby e lo strinse forte, mostrando le vene della mano, ormai gonfie anche quelle. «Capisci? Si sono svegliati ora, Alby! Sono arrabbiati! Sono crudeli! Mi volevano morto, ma sono vivo! Alby, sono vivo! I Creatori mi hanno salvato prima che mi tagliassero via tutto, anche la faccia! Mi hanno detto di dirvi che arriveranno presto!»
Era serio. Era dannatamente serio. Poi scoppiò a ridere.
Alby si liberò dalla sua presa, facendo un cenno verso Jeff, che scrollò le spalle, picchiettandosi la tempia con l'indice. «È andato mentalmente, non è colpa mia. Sarà un effetto collaterale del Dolosiero.» Fece spallucce.
George schiuse le labbra, «Vi sto dicendo la verità!»
«Sì George... sì. Andiamo via, forza.» Uscì dalla stanza, cosa che facemmo anche noi subito dopo di lui.
La sensazione di debolezza era sempre più forte, sembrava non volermi dare tregua. Solo una volta uscita da quella stanza cominciai a sentirmi meglio.
«È tutto okay, Fagio?», brontolò Newt alle mie spalle. Il suo tono di voce era simile a quello di un bambino che implorava le caramelle.
Annuii e feci un respiro profondo, poggiando la schiena contro la porta di legno, sentendo uno scricchiolio veramente poco affidabile. Poggiai le mani tra i capelli e tirai su le ginocchia, stringendole contro il petto.
«Sento la testa esplodermi», sospirai, poggiando poi la testa contro la porta e alzando lo sguardo al soffitto. «Sono distrutta. Non capisco più cosa sta succedendo, sento che la situazione potrebbe crollarmi addosso da un momento all'altro.»
Newt schioccò la lingua e si poggiò anche lui contro la porta, accanto a me. «Beh, benvenuta nel mio mondo, Liz. Quella è una sensazione che mi perseguita da quando ho messo piede nella Radura. So cosa provi.»
Lo guardai con la coda dell'occhio, poi chiusi gli occhi.
Sentii le voci di George e Justin, parlavano sottovoce, per cui non sentii bene cosa dicevano e non mi sembrava nemmeno giusto origliare.
Sentii un colpo improvviso, come un corpo che cade a terra, poi qualcuno che sussurrava in modo isterico. Corrugai la fronte e poggiai l'orecchio, cominciando ad origliare. Okay, non era educato, c'era da ammetterlo, ma era strano sentire certe cose.
Newt chiuse gli occhi e si poggiò una mano sulla fronte, sospirando. «George dev'essere caduto giù dal letto.»
«Sh!»
«Eh? Che fai, origli?!»
«Zitto, non riesco a sentire!»
Sbuffò e poggiò l'orecchio contro la porta, brontolando tra sé e sé qualcosa che non riuscii a sentire.
Ero troppo impegnata a cercare di capire cosa si stavano dicendo George e Justin. Per qualche strano motivo, avevo la netta sensazione che si stessero dicendo qualcosa di veramente importante.
Forse, le mie deduzioni non erano poi così sbagliate.
«Devi credermi, Justin... almeno tu, credimi! Non ti direi mai una bugia! Non a te...», disse George, con un tono che dava la sensazione di qualcuno veramente distrutto.
«Lo so, George, ma sembra tutto così assurdo», rispose Justin.
«Non vuoi proprio credermi, mh? Justin... ascoltami, non ti mentirei mai, lo sai.» Sembrava sincero. Dannatamente sincero.
«Non lo so, la cosa non mi convince molto...»
«Sei il primo tra i due che aveva detto di ricordarsi di questa cosa ed ora non ne sei convinto? È assurdo. Questa storia non ha alcun senso. Fallo, ti prego, fai come ti ho detto», implorò, sospirando poco dopo. Cominciò a singhiozzare. «Non ti chiederei mai di farlo se non sapessi che è qualcosa di importante. Almeno tu, voglio che lo sappia almeno tu, che ti prepari a tutto questo. Non voglio che ti accada nulla di male, sei l'unico qui dentro che mi è sempre stato vicino, che c'è sempre stato sin dal primo momento. Voglio solo il tuo bene... Il progetto, Just! Il D2MH potrebbe essere qui da un momento all'altro!»
«Ti credo, anche io voglio il tuo. Mi hai fatto stare in ansia per tutto questo tempo.» Rise, facendo un respiro profondo. «Adesso riposati, ci pensiamo domani a tutto questo, okay? Voglio che ti riprenda al meglio.»
«Domani? Domani potrebbe essere trop-»
«Rilassati, amore. Riprenditi, quando sarai più lucido né riparleremo.»
«Okay...»
Spostai l'orecchio dalla porta non appena sentii dei passi avvicinarsi.
Nascosi il viso contro le ginocchia, feci finta di stare male. Cercai di essere il più credibile possibile. Mi sforzai così tanto che la nausea mi venne davvero.
La porta si aprì e Justin uscì come se nulla fosse, si chinò davanti a me, poggiandomi una mano sulla spalla. «Eli? È tutto okay?», mormorò con un tono premuroso.
Annuii. «Ho solo un po' di nausea.»
«Ancora?», domandò Newt, avvicinandosi anche lui e chinandosi alla mia altezza
«Vuoi che chiami Jeff?»
«No, grazie Justin.» Diedi un finto colpo di tosse e mi alzai, passandomi le mani tra i capelli. «Mi passerà presto, non preoccuparti. Magari è solo un po' di debolezza, nulla di più.»
«Bene così.» Newt scrollò le spalle e si alzò a sua volta.
«Okay, come vuoi. Vado in cucina, ci vediamo dopo...»
«Hai sentito anche tu cosa dicevano, vero?», domandai mentre saltavo i rami a terra.
Eravamo nella solita parte lugubre della Radura per starcene un po' in disparte. Questa storia del risveglio di George non si stava per niente rivelando tranquilla. Circa un'ora dopo la sua ricomparsa e dopo i suoi brutti presagi, in tutta la Radura non si faceva altro ce parlare di George il resuscitato, nemmeno fosse un santo o qualcosa del genere.
«Certo che l'ho sentito, non sono mica sordo!», brontolò Newt, allargando le braccia come se stesse facendo finta di camminare su un filo.
Era esattamente così che mi sentivo. Costantemente in bilico su un filo di seta sospesa ad un'altezza da vertigine. Ero già stanca di sentirmi in quel modo, eppure non potevo combatterlo in alcuna maniera.
Ad ogni respiro era come avere del fuoco nei polmoni, la tensione che si sentiva a pelle.
L'unico mio alleato in battaglia era Newt, e lui non era di certo messo meglio di me. Poteva solo capirmi e cercare di darmi una mano nell'affrontare le cose, distrarmi, come stavamo facendo in quel momento.
Di certo fare un puzzle come quella mattina non poteva aiutare a distarsi, non potevamo stare tutta la sera a lavorarci su.
«Credi a ciò che ha detto George?»
«A quali delle tante cose?»
«Ai Dolenti.»
«Beh, quello è innegabilmente vero. Li hai visti anche tu quelli dell'ultima volta. Non era come quelli che vediamo di solito, sai? Erano enormi il doppio. Su quello era indubbiamente sincero. Sull'altro non lo so, sembrava in preda ad un delirio.» Sospirò, grattandosi nervosamente la fronte. «Non so più a cosa credere ormai, se vogliamo essere sinceri.»
«Ti credo.» Mi stiracchiai, poi mi fermai. Corrugai la fronte e mi guardai attorno. Sentivo dei ronzii costanti nelle mie orecchie. Il suono era così forte che sovrastava tutto il resto.
Newt corrugò la fronte, avendo notato il mio strano modo di fare.
Cominciai a seguire il ronzio, era come se mi volesse guidare da qualche parte, come se mi stesse chiamando a sé.
La mia vista si appannò, era come se dovessi essere guidata solo dal suono. Mi lasciai trascinare ed una parte di me, infatti, si opponeva. Ero in conflitto, ma decisi che comunque lasciarmi guidare: era la cosa migliore da fare.
«Liz?» Newt mi seguiva. Era direttamente dietro di me.
Non risposi anche se mi chiamò più volte, il suono aumentava ad ogni passo in avanti. Non sapevo dove mi stesse portando, ma mi lasciai guidare. Una parte di me era sicura di ciò che stava succedendo, come se l'avessi già calcolato da tempo e quello fosse già tutto un piano prestabilito.
Non so quanto tempo passò o per quanto camminammo, ma in ogni caso dopo un po' il suono svanì.
Ciò che c'era davanti a me, però, era dannatamente visibile.
Un Dolente morto, le zampe rivolte verso l'alto e gli aculei conficcati a terra. La sua pelle era d'oro metallizzato. Era immobile e puzzava.
«Oh caspio!», sussultò Newt. «E questo da dove...?»
«Non lo so, ma forse dovremmo tornare indietro...», mormorai.
Una zampa del Dolente cadde a terra a peso morto. Il suo corpo era squarciato in due grossi pezzi uguali, segno che comunque aveva lottato.
Girai attorno al Dolente. Vederlo così vicino ed immobile mi dava una strana sensazione. Orgoglio misto a terrore.
Newt si avvicinò alla zampa, la prese e la controllò. Era enorme, lunga più di lui.
Prese il mio braccio e mi trascinò accanto a lui, indicando la zampa che aveva in mano. «Liz, leggi qui», indicò un punto della zampa e lessi.
Non volevo crederci. Non potevo. Guardai Newt come se mi fosse appena caduto il mondo addosso.
C'era una scritta in grassetto maiuscolo sul bordo della zampa.
D2MH.
Alla fine, poco più in basso c'era scritto il mio nome. Come il Dolente che avevamo visto nella Radura. Era come una firma evidente, o come se fossimo stati assegnati ognuno ad un Dolente. Solo D2MH.
Newt chiuse gli occhi e lasciò cadere di peso la zampa al suolo, sospirando in modo frustrato. Mi chinai, raccogliendola da terra.
«E questo cosa significa?», chiese Newt. Il suo tono era quasi assente.
Chiusi gli occhi. «D2MH... Dolenti di tipo 2, Metallo Duro. H è inteso come duro», dissi in modo automatico, sospirando. Riaprii gli occhi, alzando la testa verso Newt.
Le sue labbra erano schiuse, il suo sguardo mostrava stupore. «Come fai a...»
«Saperlo? Non lo so. L'ho visto in uno dei miei flashback. O meglio, l'ho ricordato da lì, o qualcosa del genere... non so spiegartelo.» Abbassai lo sguardo, guardando attentamente la scritta.
Notai poi che sotto il mio nome c'erano diversi graffi, come se qualcuno avesse cercato di cancellare qualcosa da lì. Ma cosa?
«Newt!» La vocina stridula di Chuck era come una sirena. Ma mai quanto il tonfo fortissimo del suo corpo che cadeva come un salame contro il terreno sottostante. «Justin è stato punto!»
Scattai in piedi. «Cosa?!», dissi assieme a Newt
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