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5-𝓟𝓲𝓪𝓬𝓮𝓻𝓮, 𝓪𝓷𝔃𝓲 𝓷𝓸!

Tra le mie braccia, così calde e forti, sento le tue fragilità.
Ti avvolgono, cullandoti ancora una volta, mentre scie di splendide luci rischiarano il nostro viaggio. Io so chi sei, ma so anche che un giorno mi odierai.

Con il viso schiacciato nei tuoi capelli che odorano di fiori, prendo la pace che desideravo da tempo, godendomi il momento. Lo stesso non durerà in eterno. Non potrei starti vicino ma, ora che ci sei, non potrò fare a meno di desiderare la tua felicità. Per sempre.

Come avrei mai potuto immaginare che l'Elisio potesse essere raggiunto mentre si era ancora in vita?

Stava accadendo tutto così in fretta. I colori, così variopinti e luminosi, si interfacciavano quasi a volerti toccare e rallegrare l'anima. Passavano a una velocità inumana, non riuscivo a comprendere se fosse lo spazio intorno a noi a muoversi o eravamo noi a rincorrere il tempo, i bagliori e il suono. Sentivo Raith poggiare il muso sulla mia testa. Mi stava... annusando?

Mi scostai un attimo, ritrovandomi con i suoi occhi serrati nei miei, seri. Le luci intorno si riflettevano all'interno di quelle iridi incredibili delle quali non riuscivo ancora a decretarne il colore. Viravano dal blu al viola, con qualche sfumatura rossastra che si alleggeriva man mano con l'ambra. Il suo sguardo celava misteri irrisolti di un'anima buona. Sorrise, senza mostrare quei denti acuminati.

Mi poggiai di nuovo sul suo petto che emanava una musica costante e ritmata. Il suo cuore era una coccola per i miei timori; casa, non per la lontananza dalla mia, ma per semplice istinto. Non riuscivo a spiegarmene i motivi. A ogni santissimo battito, non facevo altro che sorridere. Per fortuna mi sovrastava e questo gli copriva la visuale.

«Eccoci, capretta. Benvenuta a Ylion!» disse, mostrando con la zampa quel luogo incantato.

Eravamo arrivati a destinazione senza che me ne rendessi conto. Davanti a me si ergeva un palazzo maestoso dai colori accoglienti. La struttura avorio era in tinta con molte statue che abitavano l'immenso giardino ricco di piante di ogni specie; fiori appariscenti dalle tinte eleganti e mai banali; arbusti e alberi che richiamavano i pennuti tra i loro rami. Spuntavano, tra di essi, un paio di quei Dissalciuk più piccoli rispetto al simpaticone incontrato nella foresta, ma pur sempre guardinghi. Ormai non potevano fare altro che darmi quell'impressione.

Ai lati opposti di quella meraviglia si innalzavano due magnifiche torri dello stesso colore dell'intera struttura, ma al termine di esse un tetto spiovente del colore delle fragole donava un'eleganza quasi fiabesca. Tutto sembrava essere uscito da una di quelle favole che spesso mi facevano storcere il naso.

«Avanti, donzella! Prima le signore. Non sei curiosa di conoscere il nostro amato Killian?» chiese entusiasta.

«Ehm, no!? Dovrei?» risposi sarcastica prima di avvicinarmi a una vasta aiuola con peonie di ogni colore pronte per essere colte.

«Non toccarle!» quasi urlò perentorio. «Molti dei fiori dei nostri giardini sono ricchi di vita. E con questo intendo che, se capiscono che vuoi prendere possesso di loro, senza giusta causa, la mano che tenta di strapparli finirebbe sul prato» continuò allungando le braccia verso gli archi che facevano da cornice al portone d'ingresso del palazzo.

Feci finta di non cogliere l'invito, non avevo alcuna voglia di incontrare un altro mostriciattolo.

«Senza giusta causa, eh? Una di queste potrebbe essere... adornare una stanza?»

«No, ma se gli stai simpatica, potrebbero concedertelo, a modo loro» disse spazientito, continuando a mostrare il patio.

«Uhm, a modo loro dici!? Cosa intendi di preciso?» continuai a domandare per rinviare l'inevitabile.

«Tu fai un lavoro migliore di quello che stai facendo con me, e vedrai che riuscirai a conquistarli» sorrise a muso stretto agitando la zampa, ancora una volta, verso il portone.

«Mi stai dicendo che sono antipatica?» chiesi incrociando le braccia e allungando il labbro inferiore verso il basso.

«Ti sto dicendo che sai essere alquanto stremante, se ti ci metti. Possiamo andare ora, Aledis? Ti prego!»

Lo avevo fatto spazientire abbastanza e non mi aveva dato altro modo per ribattere e perdere tempo. Era stato perfino gentile, mancava solo che si mettesse in ginocchio.

«Come si dice?»

«Aledis!» sbraitò con l'arto ancora teso.

«Io c'ho provato» dissi, alzando e abbassando le spalle.

Iniziai a camminare verso quella porta a passo svelto ma pesante, mettendo su lo stesso broncio di quando, a sette anni, Myura mi sottrasse dalle mani l'ultima patata al cartoccio.

Varcato l'arco, subito dopo i quattro scalini che lo anticipavano, le porte del palazzo si schiusero come d'incanto, lasciando apparire un maestoso salone dalle tinte calde e accoglienti. Enormi finestroni che affacciavano sul giardino nel retro, illuminavano la stanza di luce naturale. Poltrone e divani di una sfumatura di azzurro che non avevo mai visto erano sistemati a regola d'arte. Due sedute, in particolare, vicino alle finestre con al centro un tavolino basso da tè, in legno, facevano venire voglia di accomodarti per leggere un buon libro, sorseggiando una bevanda fresca. Non ero abituata a quel tepore.

Airsa era quasi sempre gelida. Solo in estate si poteva godere di un leggero calore.

«Ho bisogno di spogliarmi!» dissi prima di iniziare a slacciarmi la mantella.

«Ah, così? Dovresti darti un contegno, donzella. Killian ci raggiungerà a breve e non vorrei ci trovasse in situazioni poco consone. Sarebbe da maleducati.» Lo guardai torva per far arrestare il suo sproloquio, continuando a privarmi degli abiti ingombranti. «Capisco l'eccitazione del momento davanti a tutto questo pelo ma, capretta, devi darti una calmata» continuò sornione.

«La vuoi smettere? Ho caldo, devo togliere tutta questa roba da dosso!» affermai nervosa, mentre cercavo di slacciare il corpetto sopra la camicia leggera.

«Ok, la smetto. Stavo solo scherzando. Posso darti una mano, signorinella? Ti vedo in difficoltà.»

Dopo un attimo di esitazione, annuii spazientita. Raith mi si avvicinò con estrema calma, un po' troppa, forse. Mi voltai di schiena verso di lui e mise le mani sui lacci del bustino. Non stava sfiorando la mia pelle, c'erano parecchi strati di stoffa prima di essa, ma sentii, ancora una volta, quella scossa che mi aveva fatta arretrare quando ci eravamo sfiorati le mani nella foresta.

«Ancora la magia, Raith?»

«Esatto! Credo che succeda perché vorrebbe uscire dopo tutto il tempo rimasta ferma, inutilizzata.»

Continuavo a chiedermi come avrei potuto sentirmi se non avessi avuto la possibilità di utilizzare il mio arco per un così lungo periodo.

Che diamine...

«No, no, no...» sbuffai, portando le mani alle tempie.

«Cosa? Cosa succede, Al?» chiese Raith preoccupato.

«Dannazione, il mio arco, l'ho dimenticato! E ora, come faccio?»

«Scherzi, vero? Pensi che potrai girare nel bosco per cacciare? Sei impazzita forse?»

«Ah, perché, non posso?» chiesi riluttante.

«No, Aledis, no!» rispose. «Hai capito che dovresti essere una prigioniera? Non ti è chiaro il concetto? Hai ferito il lupo di Killian, devi curarlo e pregare che non muoia, non pensare di andare a farti le scampagnate rischiando di ferire qualcos'altro di intoccabile o di incontrare qualcuno che possa farti del male.»

«Ancora con questa storia della prigioniera? Vedremo! Ora aiutami a slacciare questo marchingegno che mi sento mancare il respiro.»

Non appena ci riprovò, sentii dei passi fastidiosi e agitati avvicinanarsi. Immaginai l'apparizione di quel Killian: un tipetto tarchiato, pelato e cicciotto che dettava legge a chiunque incontrasse... ridicolo. Mi scappò un sorriso che ne provocò uno ulteriore in Raith.

«Signore, mio signore, siete tornato?» Una vocina stridula fece eco nel corridoio antecedente al salone, risvegliando Raith dal suo stato. Tossì, prima di rispondere.

La donna poteva avere l'età di mia madre, ma sembrava un'adolescente per quanto fosse minuta. Ciuffi di capelli biondi uscivano da una cuffia, gli occhi azzurri e le gote rosa sembravano esprimere una timida gentilezza. Mai giudicare una persona dall'aspetto... lo imparai in fretta in quei luoghi.

«No, Ester. Sono Raith e abbiamo ospiti... ehm, la prigioniera.»

«Raith? Ma-»

«Come sta Lantus?» Bloccò i suoi dubbi sul nascere, riservandole un'occhiataccia.

«Guaisce, piange. Deve avere molto dolore, povero. Lo hanno ridotto proprio male. Fortuna che è stato visto. Altrimenti sarebbe morto dissanguato, questo è sicuro.»

«No, l'avrei curato. Ero entrata in casa per chiedere aiuto, ma quando sono tornata, lui... era sparito.» Mi affrettai a giustificarmi.

«Allora siete voi, signorina? Siete stata voi ad aver ridotto Lantus in fin di vita?» disse quasi disgustata dalla mia vista.

Dovevano tenerci molto più di quanto pensassi a quei lupi. Le reazioni che stavo vedendo le trovai a dir poco eccessive.

«Io non ho fatto niente, signora. Lantus stava per aggredirmi, io mi sono coperta il viso per proteggermi e quando ho scostato le braccia era a terra. Se non volete credermi, sono fatti vostri, non miei!»

«Aledis, basta ora. Ti hanno vista, non possiamo farci molto» disse Raith con tono pacato.

«Chi? Chi mi ha vista? Fatemi incontrare la persona o la bestia che osa dire queste fandonie e io... potrei mangiarmelo per colazione, ecco.»

I due soggetti mi osservarono divertiti, con la testa piegata da un lato, si guardarono per un attimo, perplessi.

«Fidati, capretta. Non potresti mangiartelo durante nessun pasto.»

«Era per dire, Raith. Mi sono stufata. Dove si trova questo signore nostro sovrano che deve rinchiudermi nelle gabbie? Spero che almeno siano dorate.»

«Arriverà presto, abbi pazienza. Non ti deve delle presentazioni. Vuole solo guardare negli occhi colei che ha ridotto in fin di vita il suo adorato Lantus. E no, non starai in una gabbia. Non teniamo lì dentro neanche gli uccelli, ma per chi ci hai presi!?» spiegò la Bestia con aria intrisa di preoccupazione.

«Bene, perché avrei proprio bisogno di un bagno rigenerante. Sono esausta.»

«Il bagno, per ora, non vi è concesso» sottolineò la donna, «questioni di tempistiche», precisò.

«In che senso? Non posso neanche lavarmi? Ma puzzo!» dissi disgustata.

«Certo, potrete fare una doccia veloce.»

«Una cosa? Qualcos'altro che riguarda quelle vostre arti magiche?»

Entrambi mi osservarono curiosi, mentre io ricambiavo con il medesimo sguardo. Il loro, sempre più perplesso e ricco di dubbi, si aprì in un cenno di comprensione disarmante. La stessa di una madre che vede il suo bambino scottarsi su una fiamma rovente, perché il poveretto non conosceva, fino a un secondo prima, la potenza del calore del fuoco.

«Venite con me, piccola cacciatrice di lupi, vi accompagno nella vostra stanza per farvi vedere cos'è e come funziona una doccia» disse Ester, prima di avvicinarsi, facendomi cenno di seguirla.

Lo sguardo che la donna lanciò a Raith fu incomprensibile. Solo qualche tempo dopo mi resi conto che non avrei mai voluto sapere cosa significasse.

Le scalinate che portavano al piano superiore sembrava non volessero mai terminare. Mentre le percorrevo fissavo le venature della strana pietra liscia e lucida del quale erano composte, coperte, in parte, da un lungo tappeto rosso. Non avevo mai visto niente di simile ad Airsa. Queste formavano un arco da un lato e dall'altro dell'enorme salone che ci stavamo lasciando alle spalle. I passamano, tirati a lucido, mi lasciavano quasi specchiare al loro interno.

Arrivate in cima, Ester voltò sulla destra prendendo un lungo corridoio agghindato da un numero spropositato di quadri. Alcuni di essi parevano osservarci.

«È così inquietante tutto questo» dissi ad alta voce, rendendomene conto troppo tardi.

«Scusa, puoi ripetere?» rispose la donna davanti a me.

«No, no, nulla. Ho il vizio di pensare ad alta voce. Non era niente d'importante.»

Lasciò correre la mia piccolissima bugia, accennando a un sorriso, mentre scuoteva la testa.

«Questa è la tua stanza, anche se non la meriteresti, ma d'altronde siamo famosi per essere generosi con i nostri ospiti, di qualunque natura siano. Scordati, però, che io un giorno possa rivolgermi a te con il dovuto rispetto. Rimarrai sempre quella che ha provato a uccidere il povero Lantus.»

«Ancora con questa storia? Non l'ho fatto, basta. Lo curerò, farò tutto ciò che è necessario, ma io non ho tentato di uccidere nessuno» dissi, perdendo una parte della mia infinita pazienza. «Di quale dovuto rispetto parli?» continuai curiosa.

«Sappi che ti darò del voi solo davanti al signor Killian, perché lui pretende rispetto per chiunque varchi la soglia della nostra porta ma, lontano da lui, lo potrai solo sognare.»

«Sai quanto mi frega di questi convenevoli? Ti rispondo subito... meno di zero. Dovrai fare di meglio per non mostrarmi rispetto.»

Ester abbozzò un altro sorriso, credendo di non essere vista, prima di lasciarmi entrare nella meravigliosa ed essenziale camera che mi era stata assegnata.

Quando la porta venne spalancata si aprì quella della dimora degli dei. La stanza richiamava i colori del cielo; le pareti, il lampadario, la grande toletta e il letto a baldacchino erano tinti di azzurro e bianco, che mi donarono una sensazione di pace istantanea.

Dopo avermi spiegato l'uso di quel marchingegno che faceva scorrere l'acqua a pioggia dal soffitto, lasciò la camera, ma non prima di assicurarsi di farmi sapere che il tempo a mia disposizione per prepararmi, era diventato irrisorio. Killian non amava aspettare. Ma a me poco importava di un "nanetto" sconosciuto.

Mi feci scivolare di dosso i vestiti, lasciandoli cadere sul pavimento caldo, prima di entrare nel bagno e provare quella strana cosa diversa dalla vasca. Aprii l'acqua e la feci scorrere, assaporando lo stupore che vivevo in quel momento. Pioveva dentro casa, ridicolo.

Sentii bussare alla porta d'ingresso, mi dissi che Ester aveva dimenticato di farmi la ramanzina su qualche altra cosa inutile.

«Avanti!» urlai dal bagno «Puoi entrare, anche perché non mi hai detto dove sono le asciugam-»

Le parole mi morirono in gola nel momento in cui, dal grosso specchio appoggiato alla parete, vidi apparire una figura opposta a quella di Ester.

Un uomo alto con spalle larghe e una camicia azzurra, stretta sul suo busto statuario, appariva dietro le mie spalle facendomi sussultare.

Lo stesso sussulto si tramutò in puro terrore quando mi voltai e vidi che la sua presenza non era frutto dell'immaginazione. I suoi lunghi capelli, legati per metà da uno chignon, incorniciavano un volto tagliente con mascelle squadrate. Un sorriso sornione apparve, mettendo in mostra una splendida fossetta, dal lato in cui erano inclinate le sue labbra carnose. Il colore dei suoi occhi mi accecò. Un altro di quei colori particolari che non avevo mai visto su un paio di iridi. Bellissimi, introvabili, infiniti. Il suo sguardo mi squadrò da capo a piedi per alcuni interminabili ma intensi secondi.

«E quindi, i miei quadri ti inquietano? Mi fa piacere!»

«E tu chi sei?» chiesi impaurita e, allo stesso tempo, in completo imbarazzo.

Il suo sorriso si allargò anche dall'altro lato e, sì, quella maledetta fossetta apparve anche lì facendomi sciogliere, per un attimo.

«Chi sono io? Il cattivo della storia, Cappuccetto.»

E io... ero nuda, cazzo!

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