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23-𝓒𝓱𝓲 𝓼𝓮𝓲 𝓽𝓾? 𝓒𝓱𝓲 è 𝓵𝓮𝓲?

«Dovresti tornare ad Airsa e costruirmi una statua di ghiaccio, testona di una ragazzina!» La voce del lupo risuonava nella mia testa come la più celestiale delle sinfonie.

Non ero mai stata così felice di sentirlo e, per un'istante, un solo piccolo e microscopico momento, mi sentii profondamente grata di aver, in maniera del tutto involontaria, ferito quell'animale la notte in cui lo avevo incontrato la prima volta.

La stanza scura e smorta aveva preso vita, per un secondo, anche quella lugubre prigione parve essere quasi calda e accomodante.

Portai le mani sulla collana, l'afferrai e, per istinto, la strinsi forte tra le dita chiuse a pugno.

«Lantus! Non sono mai stata più felice di sentirti, come in questo momento.» La gioia che provai fu incontenibile a tal punto da stritolare la mia amata pietra, fino a farmi male.

«Spegni la tua eccitazione, uragano. Sono un lupo, non uno dei tuoi sogni proibiti!» Mi schernì senza alcun ritegno. «Sappiamo dove sei, stai tranquilla. Lei non ti farà del male, non vuole colpire te.»

«Lei chi, Lantus, di chi diamine stai parlando?» chiesi, presa da una strana inquietudine.

«Killian ha appena ricevuto un invito. Lei non lo aveva mai fatto.» Continuava a blaterare senza dirmi ciò che avevo bisogno di sapere.

«Lei chi è, Lantus!» urlai nella mia testa per cercare di capire qualcosa.

La situazione diveniva sempre più pesante e, quel peso opprimente, iniziò a farsi strada nel petto. Sentii stringere delle dita intorno al collo, il respiro si fece corto, ma cercavo di prendere più aria possibile, annaspavo. Quella morsa divenne calore, dolore; bruciava all'interno delle viscere, delle ossa e di ogni più minuscolo lembo di pelle per poi svanire nel nulla dopo pochi secondi che parvero infiniti.

Mi guardai intorno, non c'era anima viva. Ma io quelle mani le avevo sentite sul serio. Controllai nello specchio scuro appeso alla parete. Mi sembrò di vedere dei segni rossi, ma non appena mi avvicinai per capire meglio, quelli sparirono. Al centro del collo, dove poggiava il ciondolo di ossidiana, sentii un leggero pizzicore accompagnato da una frescura che si irradiò fino alle spalle, lenendo quel forte fastidio che era rimasto.

Toccai la collana, fredda come ghiaccio e, tra le mie mani, riprese la normale temperatura.

Anche il ciondolo, proprio come me, possedeva qualche potere che non gli era appartenuto in passato, o forse ero io a non conoscere.

«Aledis! Al, mi senti? Ti prego, rispondimi

La voce del lupo era come ovattata nelle mie orecchie, ma pian piano tornò a essere limpida come sempre.

«Lantus, è successo qualcosa. Ho sentito delle dita prendermi da... per tutti gli dei, non so neanche cosa dire. Qui non c'era nessuno, ma il dolore è stato così reale, te lo giuro!» E fu in quell'attimo che sentii di aver perso il controllo e ogni briciola di dignità. Proprio nell'istante in cui, presa dal panico più totale, le lacrime scesero, accarazzando il mio viso fino a quando non dovetti asciugarle a causa del rumore dei passi sempre più vicini alla porta della stanza.

«Cambio di programma, bambina. Devi toglierla quella collana. Non devono vederla, altrimenti, potrai dirle addio per sempre.» La donna che fino a qualche tempo prima si era rivolta con gentilezza e con una calma ineguagliabile, tornò con una strana agitazione, poggiando un tessuto morbido del colore del cielo su di una sedia. «Nascondila, opteremo per altro stasera.»

L'ascoltai, tolsi subito la collana e la poggiai sul mobiletto in legno scuro accanto al letto. La donna si avvicinò, ma io indietreggiai, quasi offesa dalla reticenza che aleggiava nell'aria.

«Perchè, cosa è successo? E perché mi stai aiutando, chi sei tu? Chi è lei?» Non capivo più niente, mi trovavo in un limbo dal quale avrei voluto uscire ma, allo stesso tempo, mi lasciava con una strana voglia di conoscenza.

Avevo sete...

Il suo sguardo sconosciuto e sincero, divenne di colpo familiare, ma irraggiungibile. Si spense in un silenzio che non compresi subito, rizzò la schiena e smise quasi di respirare. Si perse nel vuoto, non accennò più ad alcun sorriso, nessuno di quelli che fino a quel momento mi aveva dedicato.

Qualcuno bussò alla porta rimasta semi aperta e, senza aspettare risposta, entrò.

«Effe, puoi andare, non servi più qui!» Ares, con i suoi occhi di pece e neve, era tornato più agguerrito.

Il suo petto gonfio mostrava una certa sofferenza. Respirava nervoso, lanciò un'occhiata alla donna che poteva avere il doppio dei suoi anni, facendole capire che doveva lasciarci soli. Non appena lo sguardo dell'uomo sì posò su di me, Effe, con una mossa fulminea, prese il ciondolo dal piccolo mobile, senza farsi vedere. Non azzardai ad alcun movimento. Mi fidai, qualcosa continuava a dirmi che potevo farlo e mi lasciai andare all'istinto, senza pensarci troppo.

Non avevo nulla da perdere.

La donna lasciò la stanza e richiuse la porta alle sue spalle, non prima di avermi lanciato un ultimo sguardo di compassione. Lei era davvero bella, di una bellezza fine ed elegante che non aveva nulla a che fare con ciò che indossava o con un fantomatico ruolo che poteva o meno ricoprire. Effe era oltre. Tutto ciò che faceva era fatto con classe e umiltà, la stessa che le donava la luce che possedeva.

«Ben trovata, Bocconcino, ti sono mancato?» La voce calda di Ares, la stessa che qualche secondo prima ordinava perentoria a Effe di sparire, era tornata per sciogliermi, ma non ci sarebbe riuscito. «Ti ho portato questo!» Da dietro la schiena tolse un pacchetto ben avvolto in una carta semi trasparente e me lo porse. «Anche se credo che ti doni l'abbigliamento di ora.» Si morse le labbra e mi squadrò nella mia interezza.

L'imbarazzo che mi assalì quando mi guardai e mi resi conto che ero ancora in intimo, fu devastante. Mi nascosi dietro le mie stesse braccia che, in realtà, non coprivano niente.

Tentennai, prima di afferrare quel pacco, ma lo presi soffermandomi per un po' tempo, come incantata, a osservare i braccialetti che avevo ai polsi.

«Questi cosi dovranno stare per molto sulle mie braccia?» chiesi, continuando a fissare quelle specie di blocchi per poteri.

«Il nostro orafo ne sta creando due nuovi per la serata speciale in tuo onore» disse con un sorriso malizioso. «Non preoccuparti, Bocconcino, saranno degni del tuo aspetto.» Si avvicinò all'armadio attaccato alla parete di fronte al letto e, quando l'aprì, notai subito che non era presente neanche un vestito che fosse comodo. Tutti gli abiti erano come quelli strani presenti in casa di Killian. Di quel genere che fasciano il corpo e mettono in risalto le curve. «Quello che ti ho portato lo indosserai stasera. Ora verrai con me a conoscere la mia Signora.»

Non dissi nulla, su quell'ultima affermazione. Finalmente, con non poco timore, avrei conosciuto colei che mi aveva rapita e confinata in quella torre lontana da ogni forma di vita. Avevo dormito due giorni, ma era arrivato il momento delle presentazioni.

Guardai Ares con sdegno per fargli capire che sarebbe dovuto uscire per permettermi di cambiarmi, ma non si decideva a fare un passo verso la porta.

Feci due colpi di tosse, di proposito, portando un pugno vicino la bocca.

«Che c'è, che vuoi?» chiese quando si rese conto che lo stavo fissando.

«Beh, dovrei cambiarmi, che dici?» risposi sarcastica.

«Ah, sì, giusto!» Al contrario di ciò che credevo, non uscì, si avvicinò, mi prese per le spalle e mi volto con la schiena diretta verso di lui. «Se vuoi ti butto nuovamente sul letto, l'ho sentita la tua eccitazione prima» soffiò sensuale vicino al mio orecchio.

Rabbrividii al suono di quelle parole così gelide e impersonali, ma dette con tono di voce che poteva diffondere calore in ogni parte del corpo.

Mi slegò l'intimo con il quale ero rimasta, lo fece seducente, lento. Ogni suo gesto atto a spogliarmi era voluto, sporco. Cercava di afferrarmi da qualunque parte nella mente, senza mai raggiungermi. Non era vero, non avevo provato alcuna eccitazione nel sentire il suo corpo sul mio. Ciò che avevo provato era più simile al disgusto, uno di quelli che ti fanno sentire sudicia, piena di fango e polvere, di melma.

Sentivo il bisogno di lavarmi da tutta quella feccia. Di scostarmi da quelle mani che non mi stavano accarezzando con il pensiero. Erano delicate sulla mia pelle, ma terribili e dolorose frustate che mi piegavano dentro. Ognuna provocava un male atroce che avrei potuto attutire se solo avessi urlato per far uscire tutta la frustrazione e la rabbia che stavo provando. Mi lasciai toccare, però. Lasciai che le sue dita scorressero sulla mia schiena, affondando nel solco sopra il sedere.

«Uhm, amo queste due fossette che hai qui in fondo» Si avvicinò di nuovo, soffiandomi sul collo, spostò le ciocche di capelli che lo coprivano e schioccò un bacio che mi fece rabbrividire.

Non avevo intenzione di dire nulla, ma le parole uscirono contro il mio volere.

«Non credo che tu sia in grado di amare qualcosa o qualcuno...» Mi tappai le bocca e avanzai di qualche passo per evitare di aggiungere carbone sul fuoco.

«Non posso darti torto, Bocconcino.» Mostrò i denti in una risata appena accennata. «Non sono capace di provare alcun sentimento, ma distinguo la buona fattura da quella scadente e tu hai qualcosa...» continuò, accorciando di nuovo la distanza che ero riuscita a creare distraendolo «... qualcosa che mi porta a desiderare di possederti, di provocare in te un dolore così profondo da non poterlo dimenticare, di imprimerlo sulla pelle, marchiarlo a fuoco e poi lasciarti sul letto e sentire che preghi di averne ancora.» Inghiottii la saliva che si era bloccata in gola, la spinsi con tutta la forza per poter respirare «Oppure, che speri con tutte te stessa di non incontrarmi mai più, neanche per sbaglio.»

A quelle ultime parole ebbi un crollo, mi cedettero le gambe e dovetti appoggiarmi sul letto. La sua risata divenne qualcosa di inudibile.

Si avvicinò al pacchetto che aveva portato, lo aprì, prese quello che conteneva al suo interno e me lo lanciò.

«Indossalo, hai cinque minuti. Ci sta aspettando.» Il tono con cui me lo ordinò non ammetteva repliche.

Era di una bellezza che avrebbe potuto sconfinare oltre i mari. Aveva un fascino ignoto. I suoi occhi taglienti color dell'ebano con la pupilla di quel colore candido e puro, erano velati da qualcosa di sconosciuto. I capelli parevano seta nera e lucida; il corpo non mostrava segni d'imperfezione, ma io non ero attirata da quel tipo di oscurità, o almeno, non credevo di poterlo mai essere.

Avevo già altro a cui pensare.

Tanto altro...

Presi fiato, mi alzai dal letto e diedi le spalle ad Ares, per non farmi vedere, tolto l'intimo che aveva già slacciato, con i seni scoperti.

«Questo abito è troppo sottile, si vedrà tutta la roba sotto.» Mi lamentai, mentre osservavo quella stoffa del colore del vino. Era seta, pura seta, morbida e splendente, ma un velo sulla pelle.

«Non devi indossare l'intimo con quello» rispose, provocandomi uno scatto.

«Scusa, come?» Voltai lo sguardo, facendo attenzione a non scoprirmi i seni chiusi nelle mie stesse mani. «Secondo voi, io devo girare praticamente nuda? Questa è follia!»

«È così e basta!» urlò, mostrando i denti e gli occhi quasi iniettati di sangue. «Non sei tu a comandare, qui non siamo a casa di quel Killian, qui non sei nessuno e farai tutto quello che ti verrà comandato, siamo intesi?»

Ero sola, senza alcun potere e avevo perso ogni briciolo di strafottenza. Mi continuavo a domandare perché non avessi mai avuto paura fino a quel momento. La risposta era una soltanto.

Dal primo secondo, dentro di me avevo sentito che Raith, Lantus e Killian non erano miei nemici. In quel momento, invece, non solo non sapevo con chi avessi realmente a che fare, ma era qualcuno che non teneva affatto alla mia pelle.

Indossai in fretta l'abito e notai che la scollatura, sul davanti, arrivava fino all'ombelico. La stoffa morbida poggiava sui seni, delicata ma, un soffio di vento avrebbe potuto scoprirli. Le bretelle sottili sfioravano le spalle per allungarsi su di un'altra profonda apertura sulla schiena. Un ampio spacco lasciava scoperta una gamba a ogni passo e arrivava fino ai piedi. Era un vestito davvero particolare, ma avrei potuto inciampare su di esso.

«Ok, andiamo, sono pronta!» affermai, guardando Ares.

«E queste?» All'angolo dell'armadio vi erano delle strane scarpe con un tronco che alzava da terra come una magia di sospensione. Ce n'erano per tutti i gusti: ricolme di gioielli; con stringhe lunghe o corte; colori di ogni tipo ma, ognuna di quelle scarpe, aveva una cosa in comune con l'altra. Erano maledettamente scomode e impraticabili.

Lo scoprii non appena provai ad indossarne una. Non riuscii a capirne il meccanismo e vi rinunciai subito.

«Sei davvero una frana, non hai mai usato i tacchi?» chiese. Scossi la testa e la piegai da un lato, curiosa. «Sono accessori fondamentali per segnare l'eleganza in una donna. Dovrai imparare a usarli, ma ora, cammina scalza, non importa.»

Non ci pensai due volte, mi affrettai a raggiungere la porta e la spalancai.

«Andiamo, su, fammi strada, Ares. Portami a conoscere "La tua Signora".»

Pensavo di sapere tutto della vita, ma non avevo ancora conosciuto Clelia... sua Maestà Clelia.

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