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2-𝒩ℯ𝓈𝓈𝓊𝓃ℴ 𝓂𝒾 𝒸𝓇ℯ𝒹ℯ

«Com'era?» chiese Yara l'impicciona non appena terminai di raccontare cosa mi fosse accaduto.

«Altissimo, quasi come questa casa. Aveva gli occhi grandi e spalle enormi. Le zanne mi hanno terrorizzata. Come lo hanno sempre descritto, in pratica» risposi nell'eccitazione del racconto.

«Parlavo del ragazzo» sbuffò,
mentre si assicurava di non bruciare la carne.

«Yara! Tua sorella stava per essere aggredita da un Killiuk e tu pensi al ragazzo?»

«Grazie, Myura!» risposi mostrando la maggiore, mentre fissavo incredula agitando la testa in direzione della mia sorellina. «Qualcuno che s'interessa alla mia vita c'è in questa casa. Ne sono felice.»

«Io mi interesso alla tua vita amorosa. Scacci via tutti gli spasimanti come una zitella acida. Vuoi fare quella fine?» domandò Yara retorica. «Come la signora Agnes? Ti ci vedo a parlare tutto il giorno con i gatti.»

«Credo siano fatti suoi, Yara!» Mi difese Myura, allargando le braccia. «Più pretendenti per te», continuò schernendomi.

Restai imbambolata a fissarle, scuotendo il capo. Era chiaro a tutti che non volevo saperne di uomini, fidanzamenti, matrimoni e smancerie varie, ma la mia sorellina minore non riusciva ad accettarlo.

«Non per me di certo, Myura. Sono troppo giovane per accettare i pretendenti della vecchia.» Affermò con una certa stizza.

«Ehi! Vecchia a chi? Ti ricordo che ci passiamo solo due anni!»

Yara: il raggio di sole della famiglia. Quando venni al mondo, mia madre entrò in uno stato di infelicità che nessuno si seppe spiegare. Era cambiata, diversa. Stava quasi sempre, svogliata, nel letto. Mi nutriva, forzata da una piccola Myura di cinque anni. Non rispondeva più alla vita. Credevano fossi io il suo problema, ma quando arrivò la piccola di casa, tutto cambiò. Mia madre tornò a sorridere e iniziò ad amarmi senza costrizioni. Si scusò così tante volte con me, anche se sapeva che non potevo ricordarne i motivi.

«Sorellina, come ti permetti tali illazioni? Mi sento offesa!» la canzonò Myura che di anni gliene passava ben sette.

«Tu sei fidanzata e stai per sposarti. Anche se credo che l'età da marito sia passata da un bel po' anche per te» rispose la minore strizzando l'occhio. «Di questo passo potremmo organizzare il tuo funerale. Sai, per portarci avanti!» rise di gusto e il suo splendido sorriso rimbombò nel piccolo cucinino, facendosi spazio tra le pareti, così prepotente da suscitare in tutte noi la stessa reazione.

«Cosa avete da ridere?» chiese mia madre rientrando in casa dopo essere andata a medicare uno squarcio sulla caviglia di Agnes, regalato da uno dei suoi amabili gatti malefici.

«Nulla, madre» risposimo in coro, mentre asciugavamo le lacrime dovute alle grosse risate.

«Questioni di cuore» continuai, mostrando la piccola con gli occhi per far capire alla donna che aveva ripreso a battere sulla faccenda fidanzamento della sottoscritta.

«Yara, quando la smetterai d'infastidire tua sorella? Lei non vuole un marito, per ora. È una ribelle non convenzionale. Morirà triste e sola, è una sua scelta» disse con fare beffardo.

«Non ti ci mettere anche tu, madre. Possibile che non possa decidere per me stessa di vivere la mia vita nella più completa beatitudine? Non voglio un uomo che mi dica cosa fare, come mi devo comportare o vestire. Che decida per me quanti figli avere. Oh, i figli! Accudire dei neonati. Io?! Ma Ve lo immaginate?»

Calò il silenzio più assordante che avessi mai ascoltato. Le tre mi osservarono perplesse, chinando la testa da un lato. Mi stavano sezionando con la mente, senza riuscire a proferire parola. Quella buia cucina a legna, riscaldata dal fuoco acceso che illuminava l'ambiente di una luce calda e accogliente, diventò d'un tratto gelida e inquietante.

«Vi ho fatto una domanda...»

«Credo sia meglio che tu non abbia risposta. Non sarebbe confortante» disse Rahel sottolineando il concetto con un'altra sonora risata. «Vai a prendere la legna nel magazzino, per favore, figlia mia adorata. Forse è meglio» ribatté per chiudere il discorso.

Uscii offesa pestando i piedi, dopo aver messo la mantella di pelliccia per proteggermi. Percorsi il sentiero che portava al piccolo magazzino che aveva costruito mio padre per metterci le armi, gli attrezzi e gli alimenti ben sigillati che dovevano essere conservati al freddo. Non c'era posto più gelido di quel deposito. Ancora più ghiacciato di quanto potesse essere l'esterno. I rami di un paio di alberi si schiudevano su quella casupola, donandole un'aria fiabesca.

Aveva ripreso a nevicare da qualche ora, ma notai comunque sul manto alcune impronte che non riuscivo a distinguere bene.
Mi accovacciai, cercando di studiarle. Sembravano essere di un uomo, o di una donna con un piede di dimensioni anomale. Continuavano fino a poco prima del recinto intorno alla struttura in legno, per poi sparire. L'istinto mi portò a pensare di correre a prendere il mio arco, riposto all'interno del magazzino. Quell'idea si fece concretezza, dopo qualche secondo di confusione.

Dietro la staccionata, affioravano le orme delle zampe di un grosso lupo.

Il cuore sembrò scoppiarmi nel petto quando vidi il lucchetto infossato nella neve e la porta schiusa. Non avevo idea di cosa mi stesse dicendo la testa in quell'istante. La mia unica pena era assicurarmi di non lasciare la mia famiglia senza cibo. Lì dentro c'erano le armi che utilizzavo per la caccia e, quasi, un intero cervo porzionato.

Aprii la porta con uno scatto, rimanendo paralizzata per pochi secondi.

«Calmo, ti prego. Non voglio farti del male» dissi tremante, mentre cercavo il colloquio con quell'animale. Ringhiò, mostrando denti aguzzi color del sangue. Lo stesso della parte di cervo non ancora tranciata.

Le dimensioni di quella bestia erano esagerate. Quel lupo ne valeva almeno cinque.

Si avvicinò a rilento, fiero, temibile. Una zampa davanti all'altra. Arretrai allo stesso modo, seguendo i suoi passi che avanzavano. Una volta fuori la porta, prese uno slancio, balzando nella mia direzione. Mi parai il viso con un braccio, tenendo teso l'altro verso la minaccia. Urlai, per il timore di essere finita, ma quel lupo non mi raggiunse. Sentii il calore impossessarsi del mio corpo. Accadde tutto in un attimo. Un rumore sordo e il cane dei Killiuk era a terra, mugolante. Scoprii lo sguardo, attonita. Vidi in lontananza un'ombra inoltrarsi nella foresta.

Il bianco manto della bestiola si ricoprì di cremisi che colava fino a dipingere la neve in una pozza; gli occhi persi, color del ghiaccio, smisero di vedere sotto le palpebre pesanti.

Il panico prese il sopravvento al pensiero che la possibile morte di quell'animale potesse ritorcersi contro di me. Avevo stampate in mente le parole di quel ragazzo. Se non avesse inventato niente?

Corsi disperata da mia madre, supplicandola di medicare le ferite della bestia.

«Cosa stai farneticando, Al? Quale lupo? Dove?»

«Al capanno, era dentro. Stava... oh mio Dio, mi si è avventato contro. Io... io... non so cosa sia successo! È a terra ora, in fin di vita. Qualcuno deve averlo colpito per poi scappare nel bosco.»

«Aledis? Qualcuno? Cosa stai dicendo? C'era una persona qui intorno?»

«Sì, madre. Ti sto dicendo che uno di quei cani mi stava aggredendo, ma non è riuscito a farlo perché è stato colpito. Quando mi sono voltata, ho visto una figura nascondersi tra gli alberi.»

«Yara, prepara subito delle bende e dell'acqua calda. Myura, tu invece vieni ad aiutarmi lì fuori, svelta.»

Uscimmo, raggiungendo il posto in cui avevo lasciato il corpo immobile... era sparito! Come poteva essere?

«Al? Dov'è?» chiese Rahel guardandosi intorno.

«Non lo so, era qui fino a qualche minuto fa! Ve lo giuro» risposi, continuando a guardare in tutte le direzioni per cercare le tracce del sangue che aveva perso. Niente, neanche una goccia. Il manto di neve era tornato a essere candido come sempre. Come se non fosse accaduto nulla. Mi domandai se stessi diventando pazza, se avessi ingerito qualche bacca che potesse portarmi ad avere le allucinazioni.

«Io non capisco, Aledis. Perché fare uno scherzo così? Vuoi che il mio cuore si fermi?» mi bacchettò mia madre adirata.

«Ti assicuro che era qui, sanguinante!» risposi, alzando il tono della voce.

Ero agitata, tremavo. Nessuno in quel momento, mi stava ascoltando davvero. Iniziai a dubitare anche io di me stessa. Assurdo... tutto lo era.

Feci finta di mettermi il cuore in pace, seguendo le due donne, a passi lenti e indecisi, all'interno della dimora. Quell'immagine era talmente reale da non poter essere falsata in alcun modo.

Mi lasciai cadere su di una seggiola e, fissando il fuoco proveniente da sotto il cucinino, mi persi nei miei pensieri chiudendo la mia mente al mondo esterno. La figura di quell'animale assetato di sangue mentre tentava di aggredirmi, diventava sempre più vivida. La potevo ancora toccare con mano, ma chiunque mi avrebbe dato della pazza se avessi continuato a parlarne.

Quella sera, mi rifiutai anche di cenare. Una parte di me si sentiva perfino offesa. Credevo, allo stesso tempo, che neanche io al posto loro, mi sarei bevuta quella storia. Andai a dormire con un peso nel cuore e con il terrore che potesse accadere di nuovo, anche solo nei miei sogni.
Non chiusi occhio quella notte.

Arrivarono le prime luci dell'alba che filtravano dalla finestra, accecando le immagini che ancora attraversavano ogni angolo della mia mente. Continuavo a ripetermi di aver inventato tutto.

All'imbrunire andai nuovamente nel bosco, questa volta non per cacciare. Il cervo ci sarebbe bastato per qualche settimana.

Volevo evitare gli sguardi accusatori di mia madre che, ancora convinta l'avessi presa in giro, mi osservava torva a braccia conserte facendomi sentire in colpa, sbagliata. Mi aggiravo, tra gli alberi, senza meta alcuna, ricercando una spiegazione ovvia alla sparizione di quel lupo e delle tracce del suo sangue. Dovevo trovarle per non impazzire. Non mi resi conto di quanto mi fossi addentrata nella foresta e di quanto tempo avessi trascorso al suo interno.

I versi incessanti delle bestiole che la circondavano, non mi distolsero dal mio cruccio. Arrivai, senza accorgermene, ai piedi della montagna maledetta. Quando me la trovai davanti, uno strano brivido mi percorse la schiena e le braccia. Guardai queste ultime, meravigliandomi della sensazione sconosciuta che mi stavano provocando. Perdevo battiti senza motivo apparente.

M'inginocchiai per riprendere fiato dall'oscurità che stavo sentendo in quell'istante. Una stretta allo stomaco mi bloccava da ogni possibilità di fuga nel caso in cui fossi stata attaccata da qualunque tipo di bestia. Il terrore iniziò a impadronirsi del mio stesso sangue. Il cuore pompava, facendomi sentire un flusso arrivare direttamente al cervello fino a non sentire più nulla. Niente più rumori, niente più freddo. Mi gettai a capofitto, con le mani sul manto bianco, alla ricerca di qualunque sensazione che potesse riportarmi alla realtà. Il nulla. Neanche la neve sotto le dita riusciva a farsi strada per donarmi il suo gelo. Ne sentivo la consistenza, la toccavo, ma non erano altro che granuli pulverulenti che riempivano i miei pugni fino a strozzarsi in essi. Il suo candore si trasformò in un attimo, mischiandosi con fango e sangue. Quello che scendeva al posto delle mie lacrime. Mi lasciai cadere sul terreno soffice, cullandomi per tentare di riacquisire autocontrollo.

Mentre credevo di morire, di essere arrivata allo stremo, una luce calda mi colpì in pieno petto e persi i sensi.

Mi risvegliai dopo non so quanto tempo. Era notte fonda. Sembrava non essere successo nulla. Stavo bene, mi sentivo rinata, forte come non lo ero mai stata.

Decisi di tornare a casa, non ero più spaventata.

Non ero niente ed ero tutto.

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