5. Cipolle fritte
"Sense and Sensibility?" chiese Alison, scorrendo con gli occhi sul mio quaderno di letteratura inglese. Annuí in risposta al mio sguardo vuoto, poi si portò un'altra manciata di noccioline alla bocca, producendo un rumore fastidioso e continuo con i denti.
Gettai la testa all'indietro, appoggiandola alla poltrona scomoda, e presi un respiro, senza sapere se avrei trovato la forza necessaria per continuare a torturarmi in quel modo.
"Sense and Sensibility" ripetei, imprecandolo, a bassa voce.
Erano quasi tre ore che ce ne stavamo nella stanza comune del nostro appartamento a prepararci per l'esame di letteratura di tre giorni dopo, con Josh malconcio e steso sul nostro divano. Guardarlo in quelle condizioni rendeva le cose più amare di quanto già fossero.
Dalla sua scarcerazione era stato difficile per me essere obiettiva: il mio amico era in evidente difficoltà e io avrei dovuto esserci, senza scremare la mia presenza e tenendo a fuoco il suo disagio. Per quanto ne fossi curiosa, non avevo nemmeno indagato circa la percezione della cosa da parte della sua famiglia.
Dopo che il padre era riuscito a tirarlo fuori di prigione, era stato Carl a parlare con loro e io mi ero limitata a aiutarlo a disinfettarsi le ferite. Speravo fossero almeno preoccupati per lui.
"Austen" aggiunsi poi, tamburellando le dita contro il materiale che rivestiva la poltrona e prendendo a muovere nervosamente la gamba. Persisteva, ingombrante, il macigno di stress postumo da quella notte.
Josh richiamò la mia attenzione. Si portò un a mano alla fronte, schiudendo piano gli occhi e le labbra in un lamento di dolore per un movimento errato. Per la costola rotta c'era poco da fare, oltre al riposo.
Lo sguardo appannato e scuro vagò per la stanza, così come la sua bestemmia. Ancora una volta interrotta nello studio, mi fermai, osservandolo in silenzio. Il taglio sul naso aveva un colore migliore del giorno prima e il viso si stava sgonfiando. Gli rimaneva qualche linea di febbre e la faccia arrossata e tumefatta.
"Gli hai controllato la temperatura?" chiesi sottovoce ad Alison, voltatasi anche lei in direzione del nostro amico; si fermò, finalmente, dal masticare noccioline, e annuì convinta, scrutandolo con apprensione.
"Allora sta solo esagerando come al solito" minimizzai, ritornando a guardare il soffitto sopra di noi e la macchia d'umidità che lo macchiava dal almeno tre mesi.
"Vaffanculo Sam" lanciò Josh, sistemandosi meglio lungo il divano. Mi scoccò un'occhiataccia, ma non poté evitare a un abbozzo di sorriso di comparirgli sulle labbra gonfie e spaccate.
"Mi conosci davvero bene. Dovremmo sposarci" aggiunse poi, allungando la mano sul tavolino al suo fianco e osservandomi dalle palpebre affinate. Sorrise, quando le sue dita trovarono il pacchetto di sigarette, e affondò con il canino nel labbro inferiore. Una fitta di dolore gli smorzò l'espressione, facendolo mugolare.
"Non demordi mai" commentò Alison, che aveva nel frattempo sostituito il mio quaderno con una rivista, facendo dondolare le gambe dal bordo del tavolo all'angolo della stanza. Josh tenne ancora meglio il sorrisetto, guardò lei e poi subito me, tirando più a fondo un altro respiro sporco di tabacco.
"Stasera c'è una festa" la ignorò, sornione; le sue labbra - strette attorno alla sigaretta - smorzarono le parole, lui ci tenne gli occhi sopra per tutto il tempo necessario ad accenderla. Mi riguardò, quando uno sbuffo di fumo grigio ne lasciò l'estremità rovente, finendogli davanti al viso.
"Hai un piede nella fossa e pensi già ad un'altra festa" ricambiai lo sguardo e l'attenzione con serietà, notando i suoi occhi accendersi, e inclinai il capo in attesa.
"Stronza" quasi sputò, a bassa voce, cacciando fuori anche del fumo e abbassando lo sguardo alle sue dita, che sistemavano l'anello nero sul dito medio della mano destra.
"Comunque stasera c'è davvero una festa" borbottò.
Alison alzò lo sguardo dalle pagine piene di consigli di moda e ricette di tutti gli strani intrugli che si spalmava sulla faccia ogni tanto, guardandomi imbarazzata. Non avevamo ancora riparlato del suo essere pazzamente ossessionata da Ty, ma avevamo discusso abbastanza riguardo il suo obbligo di rimanere lontana dall'alcool e speravo se ne ricordasse a lungo.
"Non è che siamo obbligati ad andare a tutte le feste" esordii, tirando i capelli dalle punte e poi prendendo a rigirarmeli fra le dita.
"Non è che devi essere così sempre rompiballe, Sam" Josh respirò ancora dalla sigaretta. In risposta al mio sguardo truce, mi scoccò un bacio da lontano.
"Come farai anche solo a camminare, per cominciare?" chiesi, scuotendo la testa di fronte alla sua ostinazione. Mi chiesi se, fra noi due, la persona con più consapevolezza, dopo il suo arresto, fossi davvero io.
"Per stasera sarò sano come un pesce. Esistono antidolorifici davvero interessanti" controbatté roco, scrollando la cenere dalla sigaretta direttamente nel piccolo portacenere, che aveva afferrato minuti prima dal tavolino, e mi inchiodò con lo sguardo. Parlava di droghe? Non volli indagare oltre.
"Continuo a pensare che avresti bisogno di una pausa, un pensionamento, magari" dissi solo, sfregandomi la fronte con i polpastrelli. Non mi era chiaro del tutto quale fosse il motivo di questo suo sfrenato bisogno di uscire, ma non avevo intenzione di iniziare ad essere sua madre.
Josh scosse la testa, sorridendo derisorio e pulendo il quasi mozzicone dalla cenere che ci si era accumulata sopra, veloce abbastanza da poterlo portare di nuovo alle labbra e prenderne gli ultimi tiri.
"Non mi avete portato il pranzo" mi ignorò scoccandoci un rimprovero; io sospirai.
"Si che l'abbiamo fatto, ma non l'hai mangiato" gli risposi, leggendo distrattamente dal quaderno di letteratura gli appunti sullo stile neoclassico di Austen.
Lui incrociò le braccia indisponente, dopo aver spento la sigaretta nel posacenere, sfidando gli occhi che gli rilanciai, "Chi cazzo la mangerebbe quella roba? Mi hai portato della gelatina e il riso della mensa".
Feci spallucce imbronciando leggermente le labbra con noncuranza, "Tutto quello che di commestibile c'era oggi" aggiunsi poi.
Lui fece una smorfia disgustata, "Voglio le cipolle fritte".
Permisi ad una risata abbastanza piena di uscire dalle mie labbra, guardando il suo viso incrinarsi in un'espressione irritata.
"Non ridere, valle a comprare" mi disse, indurendo la voce e increspando lo sguardo.
"Mi sa che la febbre ti è risalita, deliri di nuovo" mormorai stanca, cercando di rilassarmi contro la poltrona con scarsi risultati. Alison ricominciò a masticare le noccioline; imprecai, nella mente sovraccarica. Non era stata un'ottima sostenitrice per le mie ripetizioni.
Improvvisamente, morivo dalla voglia di uscire da lì e respirare aria diversa.
"Ti passo gli appunti di Frankie, me li ha prestati mercoledì" Josh incalzò, seduttore, sistemandosi le coperte scure lungo le gambe.
"Sono stata qui dentro per tre ore a ripetere quelle cento pagine su Jane Austen, di cui non sono nemmeno sicura, e tu me lo dici solo adesso?" la mia voce uscì fuori in un tono abbastanza alto, ma lui non si scompose. Si limitò a tenere lo sguardo deciso contro il mio e un accenno di sorriso sulla bocca.
"Te l'ho detto adesso. Te li do solo se vai a comprarmi le cipolle fritte al Green Mountain" vagò per un po' con lo sguardo su di me, alzandolo controvoglia dalle mia gambe e portandolo al mio viso, sorridendo angelicamente.
"Quindi mi stai ricattando" incrociai le braccia, indagante, guardandolo attenta.
"Vedila più come uno scambio" allontanò gli occhi da me solo per prendere un'altra sigaretta e controllare quelle che erano rimaste nel pacchetto, poi se l'appoggiò fra le labbra e ritornò a guardarmi.
Era difficile frenare la voglia di scrollarlo forte dal colletto del pigiama grigio che aveva addosso, o quella di tiragli le coperte e gettarlo giù di lì, ma alla fine rimasi ferma e sbuffai solamente. Questo prima di sollevarmi e camminare veloce verso la porta, prendendo a volo lo zainetto di pelle nero dal pavimento, ripendomi quanto mi servissero quegli appunti e quanto contasse che fossero usciti dalla penna di Frankie. Probabilmente mi avrebbe fatto bene davvero uscire di lì.
"Una bella porzione!" lo sentii urlare mentre richiudevo la porta alle mie spalle, udendo anche una risata di Alison. Non risposi, sospirando. Mi affrettai a lasciare la maniglia con le dita e allontanarmi da quel buco zeppo di stress.
**
Mi ci vollero ben venti minuti per raggiungere il locale, dieci dei quale mi avevano vista intrappolata in autobus in un asfissiante traffico, causato dal mal tempo di quella giornata.
Avevo realizzato come starmene in tranquillità, mentre la pioggia picchiettava contro i vetri, fosse di gran lunga migliore, e avevo anche realizzato di non aver visto per tutto il giorno né Carl, né Darla.
Appurai, con poca difficoltà, si fossero nascosti assieme da qualche parte e che avessero saltato le lezioni per godersi un po' di tempo da soli. Alla fine, nemmeno loro si preoccupavano di fingere più di tanto, quindi potevano permettersi di sparire in contemporaneo e non destare sospetti che non ci avessero colpiti già da molto.
Mi chiedevo perché mai Darla non avesse mai ceduto alla tentazione di dirci riguardo Carl, perché non ci avesse mai chiesto consigli o non si fosse mai messa a parlare del suo segreto fidanzato. Forse, però, era perché io ed Alison eravamo una completa frana nelle relazioni.
Io, a differenza della rossiccia, non ero una frana perché incapace di amare o perché non disposta a condividermi con qualcun altro, ma perché ero una vera e propria distruttrice. Sembrava attirassi le sfortune, che diventavano quindi di chiunque mi stesse intorno. Una frana di quelle grandi, schiaccianti e paurose. Avevo inoltre una personalità piuttosto audace e puntigliosa e, a i ragazzi con cui ero stata, non era mai piaciuto.
In realtà ero fortemente convinta che a nessun essere umano di sesso maschile sarebbe mai piaciuto il mio essere in quel modo, perché sentire il mio carattere stridere continuamente con il loro sarebbe stato sfiancante.
Avevo tempo per studiare, tempo per ascoltare la musica che adoravo nel negozio di dischi in città e di sparire in biblioteca, dimenticando il cellulare, con nessuno che mi cercasse preoccupato; avevo la possibilità di perdermi nei diversi sguardi che incontravo e che mi rapivano, giocarci senza provare una scomoda appartenenza a quelli di qualcun altro, senza che mi sentissi legata in modo troppo stretto a un'altra persona.
Non avevo, certo, qualcuno a cui stringermi, quando mi sentivo sola e sceglievo il negozio di musica anziché parlarne con le mie amiche, né qualcuno che mi regalasse i libri che mi avevano colpito e che avevo scritto in una lista sul primo foglio della mia agenda, o che mi impedisse di andare in biblioteca a starmene da sola.
Riuscii a saltare giù dal bus a pochi passi di distanza dal Green Mountain, quindi mi affrettai ad entrarci, per evitare che la pioggia mi inzuppasse i vestiti o che divenisse ancora più forte.
Il caldo del locale sciolse subito le gocce d'acqua fredda sulle mie guance. Scivolarono lungo la mia pelle, subito asciugate via dai miei palmi, mentre camminavo piano dalla soglia e le mie gambe si rilassavano nell'ambiente.
Di giorno il posto aveva un aspetto diverso. La luce esterna entrava a malapena e mi sembrava più spoglio e serio, ma forse perché solo pochi tavoli erano occupati e perché non c'era più la musica alta o tutti i corpi sulla pista da ballo e per quasi ogni metro del posto. Era un semplice e serioso ristorante rustico.
Un uomo, sulla cinquantina, se ne stava a pulire il lungo bancone di legno marrone con uno straccio bianco; lo guardai imbronciare le labbra, coperte dai grossi baffi ancora neri, e tirare a sé un bicchiere vuoto, lasciato lì.
Agli sgabelli erano seduti un paio di uomini, che potevano avere più o meno la sua stessa età, ad eccezione di un ragazzo più giovane, impegnato a sospirare nel largo bicchiere di scotch.
Nessuno fece caso a me, nemmeno il barista, quindi potei guardarmi meglio attorno e camminare tranquilla fino a lui, per dirgli dell'ordinazione da portare via.
Ferma accanto al bancone, mi schiarii la voce, e dovetti infilarmi fra due sgabelli per poggiarci i gomiti. Sospirando, l'uomo alzò finalmente lo sguardo a me.
Sollevò le sopracciglia, forse sorpreso di vedere una ragazza a quell'ora, quando tutti gli altri presenti avanti con l'età affogavano i dispiaceri in molteplici bicchieri d'alcool, quindi gli sorrisi in un modo che sperai fosse abbastanza normale.
Non mi dispiaceva stare lì, anche se il fatto che fossi l'unica donna in tutto il locale mi faceva sentire osservata e io desideravo di poter presto ritornare a studiare.
"Mi dica" borbottò con voce paffuta, muovendo le guance assieme ai baffi voluminosi; si gettò lo straccio sulla spalla destra e appoggiò i palmi al bancone appena lucidato.
"Salve, mi stavo chiedendo una cosa" cominciai, un pò e stranamente impacciata, appoggiando leggermente le dita al bordo del bancone e tamburellandolo, poi, con i polpastrelli.
L'uomo, che aveva scritto sulla targhetta appoggiata al lato sinistro del petto il nome 'Nathan', mi fece un cenno cortese per incitarmi a parlare.
"Posso ordinare una porzione di cipolle fritte e portarla via?" chiesi, addolcendo il sorriso e sentendomi come se i miei occhi fossero appena diventati enormi, per la supplica fatta.
Nathan ridacchiò, muovendo i suoi baffi mentre preparava le labbra a rispondermi, poi scosse la testa proprio nel modo in cui temevo.
"Ragazza, le cucine sono chiuse fino alle cinque e adesso sono solo le tre. Per di più, non prepariamo cibo d'asporto, non ancora" mi informò, riprendendo lo straccio dalla sua spalla e spingendolo nel bicchiere preso dal bancone, ancora bagnato dal suo averlo sciacquato.
"Cazzo, no" imprecò qualcuno, dietro di me e, sia io che Nathan, ci voltammo a guardarlo.
L'uomo sollevò le guance in un'espressione scocciata e irritata: i suoi occhi marroni e dal taglio lungo erano fermi sulla grande finestra, posta proprio sulla porta d'entrata, e sulla pioggia forte che ci sbatteva contro. Si portò una mano al viso, sfregandosi le labbra e poi il mento con l'accenno di barba, e mi sorpresi di tutto il tempo che mi servì per riconoscerlo. Il collega.
Il ragazzo si voltò verso di noi, forse accortosi di esser osservato, e ci fece un cenno gentile, poggiandosi le mani sopra i fianchi e lasciandomi intravedere la pistola - portata stretta al suo torace dalla fibbia nera; ritornò poi sui suoi passi, fino a fermarsi alla fine delle scale di ferro nero poste poco lontano dall'entrata alle cucine.
Guardarlo camminare fu stranamente piacevole: ben stretto dalla sua divisa, fu calamita per i miei occhi per tutto il tragitto. Mi chiesi che ci facesse lì, se fosse solo.
"Sono ancora qui" Nathan sbuffò, riposando sulla mensola alle sue spalle - in un modo che mi fece temere l'avesse rotto in pezzi - il bicchiere a testa in giù, accanto a tutti gli altri. Tenne, per tutto il tempo, il collega stretto in uno sguardo torvo.
"Chi?" chiesi, senza togliere gli occhi da quel ragazzo. Troppo curiosa per distoglierli, con la mente che lavorava a ritmo accelerato attorno a flash di ricordi di due sere prima, lo osservai ancora per un po'. Era bello. Quando, da dov'era, mi guardò dritto in faccia, mi convinsi a farlo in uno scatto.
Per dissimulare quel mio interesse, mi concentrai su Nathan, aspettando che anche gli occhi dell'uomo ritornassero su di me. Non mi fu difficile immaginare una smorfia stretta sulle sue labbra, anche se erano coperte dai suoi baffi, e lo trovai ancora più buffo di prima. I suoi occhi blu non tardarono a guardarmi e lui se ne stette un pò in silenzio, prima di riparlare.
"Sono due poliziotti, sono arrivati due ore fa per parlare con il responsabile e non sono ancora andati via" si lamentò, voltandosi parzialmente con il corpo per afferrare una bottiglia di succo di frutta dal banco alle sue spalle. Ritornò subito a guardarmi, "Non sono a mio agio con la polizia londinese in casa".
Al solo pensiero che l'impertinente Styles potesse essere in quel locale, il mio corpo cominciò a fremere; la mia mente fu incapace di produrre un pensiero che non fosse smorzato dai ricordi dei suoi sguardi, del suo corpo stretto dai vestiti aderenti e scuri, dall'eccitazione che provai e il calore improvviso che mi costrinse ad abbassare la zip del mio giubbotto. Con urgenza, lo feci, soffiando fuori l'aria.
"Quanti anni hai?" chiese Nathan, dopo aver ripulito scrupolosamente un bicchiere già pulito e averlo posto davanti a me. Agitando una mano davanti al mio viso per recuperare aria, deglutendo in silenzio.
"Ne ho venti" risposi distrattamente, forse troppo. La velocità con cui mossi gli occhi da lui all'agente e poi di nuovo al suo viso mi sorprese. Sorrisi appena, notando che mi stava riempiendo un bicchiere di succo di frutta arancione. Ace.
"Ho indovinato, quindi. Un succo di frutta è sempre meglio di un bicchiere di scotch" parlottò, dirigendo per alcuni secondi lo sguardo agli uomini abbandonati a spalle curve sugli sgabelli, quasi sospirando "Ecco a te, te lo offro io".
Ritirò la bottiglia di succo dal riempire il mio bicchiere e gli sorrisi più forte, ringraziandolo. Con non poca difficoltà, mi sedetti di fronte a lui, sullo sgabello alto. Le guance mi bruciavano ancora, così come il cuore batteva più veloce. Mi costrinsi a calmarmi.
"Cipolle fritte, eh?" mi chiese con un sopracciglio alzato, ritirando un altro bicchiere, appena lasciato vuoto dall'uomo seduto a quattro sgabelli lontani da me. Seguii i suoi movimenti, annuendo piano.
"Non sono per me" dissi solo, prima di prendere un sorso e quasi morire. Il succo mi andò di traverso e combattei per non tossire teatralmente.
La sua voce, la riconobbi subito, rimbombò nella quiete del posto mentre io lottavo per un respiro pieno. Nathan ne fu infastidito molto più di me, già in difficoltà com'ero.
"Spero lei sappia che non sarà privo di conseguenze, é una rissa abbastanza seria" la sua voce roca riempì il silenzio, facendosi più chiara man mano che la sua figura si rendeva chiara lungo le scale, "Due persone hanno riportato dei danni".
Nessun degli ubriaconi sussultò nel modo in cui lo feci io, troppo persi nel loro stato confusionario, e sperai improvvisamente di poter esserlo anch'io, per non sentirlo così forte dentro.
Nathan volò con lo sguardo a loro, proprio come feci io, attento a non farsi scappare nulla.
Proprio come feci io, esattamente come feci io.
Styles indossava la divisa e il giubbotto scuro della prima volta che l'avevo visto, sulla strada extraurbana e scendeva le scale in un modo che trovai dannatamente sexy. Lo sistemò sulle sue spalle appena sceso, mentre rimaneva fermo a guardare l'uomo alto e magro che si accingeva a toccare il suolo in fretta.
"Ma certo" acconsentì lui, impegnandosi in uno sguardo mortificato, sotto lo sguardo contrariato di Styles. Il collega, nel frattempo, rivolse nuovamente lo sguardo a me. Entrambi furono fin troppo per i miei occhi. Tossicchiai nervosamente, con due piccoli colpi, voltandomi subito.
Con la sensazione di essere stata colta in flagrante, ripresi a sorseggiare il succo con il cuore che bucava il mio petto. Sperai che il liquido fresco calmasse anche il prurito e il calore che sentivo lungo la gola e le guance bollenti.
Non seppi spiegarmi perché mi ritrovai soggetta a quel tipo di sensazioni, con lui attorno, né perché continuavo a incontrarlo. Mi fu chiaro, però, quanto mi piacesse. Ero perfino contenta che la pioggia al di fuori mi impedisse di scappare fuori, seguendo l'istinto che aveva iniziato a pizzicarmi il retro delle cosce.
"Mi permetta di offrirvi qualcosa, mentre aspettate che il tempo migliori. Mi avete detto di non aver pranzato" aggiunse l'uomo, che immaginai proprio fosse il proprietario, e non potei non riguardarli.
Lo feci di sbieco. L'uomo indicò ai due poliziotti un tavolo alla sua destra, ma la mia mente e attenzione si strinsero attorno alla figura dell'agente.
Styles captò subito il mio sguardo, ficcandoci il suo dentro, quasi come se ne fosse stato richiamato. Fu sorpreso e divertito e, mentre il collega si accomodava, prese a camminare lentamente verso di me.
Scossi la testa, per acconciarmi i capelli in qualche modo sbadato, e inarcai meglio la schiena, contro lo sgabello scomodo. Quando mi rivolsi a Nathan, lui lo guardava in cagnesco. Immaginai non gli stesse davvero per niente simpatico.
"Attenta, adesso interroga anche te" scherzò infatti l'uomo, in modo sarcastico e anche un pò acido, spostandosi di alcuni passi e lanciando un cenno alla persona di dietro di me, che immaginai fosse Styles. In risposta a quella sensazione fisica, respirai piano, con calma, e presi un sorso avido di succo di frutta.
L'agente si appoggiò al bancone, alla mia destra, osservandomi mentre tenevo ancora le mie labbra attaccate al bicchiere. Gli rivolsi uno sguardo di lato, staccandocele con lentezza e ingoiando con gli occhi nei suoi. Fu un sollievo tenerli con i miei, uno strano piacere.
Lui tentennò con la lingua contro i denti, prima di parlarmi.
"Dì un pò, mi segui?" sorrise. La sua palpebra sinistra ebbe un fremito, mentre passeggiava con le iridi verdi sul mio viso. Allontanai il bicchiere con il palmo, leccandomi le labbra e poi passandoci contro il dorso della mano, e mi girai piano sullo sgabello, sotto il suo sguardo divertito e attento. Styles si permise ora di guardare anche il resto del mio corpo.
"Mi ha scoperto, sono ossessionata da lei, Agente Styles" mi accinsi a parlare, con poca enfasi. Il suo divertimento crebbe di secondo in secondo e, ben presto, si appoggiò allo sgabello affianco al mio.
Posò il cappello da poliziotto - fino a quel momento tenuto dalle dita della mano sinistra - sul bancone, poi le passò ai lati della bocca, pronto per scagliarmi contro una delle sue provocazioni.
"Che ci fai qui sola soletta? Ti ubriachi di...succo di frutta?" chiese, increspando lo sguardo al notare il liquido nel bicchiere, ancora sul bancone.
"Affari miei" risposi, piegando le labbra in un sorriso che volli fosse malizioso, e lui rise.
"Se non fosse per queste tue maniere da cattiva bambina, potresti essere addirittura piacevole" constatò, toccato dalla mia risposta. Le sue pupille si allargarono, su di me. Muovendo lo sguardo nel suo, di un verde strano e seduttore; il suo sorriso si affievolì e le sue labbra si chiusero in un accenno più cordiale. L'agente continuò a scrutarmi cauto.
"Mi dispiace di non essere di tuo gradimento" feci spallucce; mordicchiandomi il labbro inferiore, e lui sospirò forte. Mi apparve infastidito, contrariato. Solo allora, mi accorsi di aver dimenticato di dargli del 'lei'.
Lui intensificò lo sguardo su di me, "Ti avevo detto che non avrei più tollerato che mi dessi del tu, signorina" mi rimproverò, con l'angolo destro della bocca sollevato in un sorriso ambiguo. Il suo tono fu a metà fra il giocoso e lo spaventosamente serio. Mi chiesi come fosse possibile, percependo i suoi occhi insistere sulla pelle del mio collo.
Si fermarono, infastiditi, dove cominciava lo scollo della mia maglietta, scoperta dal giubbotto aperto. L'agente Styles si morse l'interno delle labbra e rilasciò un sospiro affannato, quasi. Sentii il peso dei suoi occhi su di me, come se mi stessero chiedendo qualcosa.
"È uno strano gioco?" confusa, scossi la testa per accentuare la mia incredulità. Lui si avvicinò di più a me, sporgendosi, e mi ritrovai in una terribile iperventilazione.
"Vorresti che lo fosse?" sussurrò, inumidendo le labbra. L'agente cadde ancora con lo sguardo al punto il cui la mia pelle del petto scoperto. Sorrise sghembo, alla fine.
Senza parole, affondai con le iridi tremanti nelle sue, sentendo lo stomaco contorcersi per l'eccitazione che aveva preso a pungermi il corpo. Il suo respiro mi raggiunse, caldo.
Era tutto quello che avevo desiderato da quando l'avevo visto e non riuscivo a spiegarmi il perché lo desiderassi a quella vicinanza e più; piccoli brividi mi percorsero la pelle, quando respirò di nuovo un mezzo respiro affannoso e spostò gli occhi, facendoli rimbalzare da uno all'altro dei miei.
"Dipende da che tipo di gioco" sussurrai a mia volta, vedendo il suo sguardo aprirsi ancora di più - in modo repentino - e le labbra lasciarsi prendere dai suoi denti.
"Sono un poliziotto, che gioco potrei mai fare?" rise sommessamente, mantenendo la poca distanza con il mio viso e trattenendo troppi respiri pesanti, per rilasciarli quasi esausto.
Mi venne in mente 'Guardia e ladro', ma mi sembrò una risposta troppo stupida da dargli. L'atmosfera era carica di tensione che non riuscivo a definire e il suo respiro, come il mio, anche. Avevo paura di romperla, di scioglierla, che si allontanasse.
Styles imbronciò le labbra per fermare un sorriso, senza mai lasciare i miei occhi.
"Cosa vuoi da me, Samantha Chase?" mi chiese con un lieve cenno del capo, quasi afflitto, e mi sembrò serio. Aggrottai la fronte, confusa: ero abbastanza sicura di non volere niente di specifico da lui.
Magari avevo solo immaginato di poter toccare le sue guance, bucate dalle fossette quando mi sfidava con i suoi sorrisetti sghembi. Magari avevo solo perso il senno, immaginando che le sue mani mi prendessero con violenza i fianchi per avvicinarmi al suo corpo. Magari, però.
"Continui a comparirmi davanti, tu e il tuo impertinente sguardo" aggiunse, come a chiarirsi, notando la mia espressione, ma non sottrasse nulla al caos della mia confusione. Appoggiò meglio il gomito al bancone, scivolandoci quasi contro e posizionandosi meglio accanto a me. Nathan ci guardava di sottecchi, quasi incredulo; lo notai, quando volai con lo sguardo a controllare che nessuno fosse in ascolto di quello che ci stavamo dicendo.
"Tu e questo giovane e impertinente corpo" sibilò. I suoi occhi, come non mi aspettavo, rimasero nei miei e non scorsero lungo me, mentre lo osservavo di rimando e mi dicevo che non era poi così vecchio, rispetto a me. Anzi, non era vecchio per niente.
Mi chiesi, infatti, quanti anni avesse.
"Sembri quasi un invito a dimenticare ogni tipo di legge e principio" respirò piano, mordendosi poi leggermente il labbro inferiore dall'interno.
Mi parve come se il mio corpo fosse sul punto di esplodere, per il calore che mi pungeva da sotto la pelle. Strinsi le gambe, avvertendo una scomoda eccitazione per le sue parole; Styles abbassò lo sguardo a catturare il mio gesto, poi sorrise con un angolo della bocca, leccandosi il labbro precedentemente morso.
"Lo sei?" mi chiese dopo un pò, riportando lentamente - e mortalmente seducente - gli occhi a me.
Cosa? Cosa ero? Feci per parlare, ma tutto ciò che uscì dalle mie labbra fu un sospiro afflitto.
"O sei solamente una ragazzina che, strano il caso, sfortunatamente incontro spesso?" continuò, facendomi un leggero cenno per invitarmi a rispondergli. Le sue parole scorrevano morbide e vellutate verso di me.
Sfortunatamente, il suo 'sfortunatamente' fu l'unica cosa che catturò la mia attenzione.
La rabbia contribuì presto a farmi rinsavire e ritornare in me, sciogliendo l'intreccio di respiri eccitati e strani fra di noi.
"Devo andare" dissi, spingendo e facendo scivolare verso il bordo opposto del bancone il mio bicchiere quasi vuoto. Sotto il sguardo intenso e attento, mi sistemai lo zainetto sulla spalla e spostai dal collo i capelli che erano rimasti intrappolati dal gesto.
Samantha Chase, la frana in azione; ecco quello che era successo, ma ne fui contenta. Mi ero eccitata al pensiero che potessi attrarlo, solo per sapere - alla fine - quanto lo scocciasse ritrovarmi fra i piedi di continuo. Il ragazzo verso cui provavo un'improvvisa e inspiegabile attrazione in quel periodo era a così poca distanza da me, a respirarmi dentro, che la cosa più ovvia da fare per me fu respingerlo per orgoglio.
Styles sospirò impercettibilmente, abbassando per una frazione di secondi lo sguardo pesante alle mie gambe, che velocemente scesero dallo sgabello, poi cercando il mio. Mi fermai ad aggiustarmi il giubbotto lungo le braccia, ma lui rovinò la mia uscita scenica.
"Non puoi uscire lì fuori, piove troppo" spezzò il silenzio con la sua voce roca e mi costrinsi a riguardarlo. Fece spallucce, indicando la finestra sopra la porta, e io sospirai frustrata.
"Okay, ma non rimango seduta qui, con te" decisi, scocciata, incrociando le braccia al petto.
"Con lei" mi corressi subito e anche un po' ironicamente.
Lui sorrise, afferrando il cappello dal bancone e accingendosi a sistemarne l'interno, spingendoci le dita contro; si fermò con un gomito appoggiato all'indietro, controllo l'orlo del lungo bancone in legno, a guardarmi.
"Hai paura" mormorò soddisfatto. Non fu una semplice affermazione: me lo stava troppo cordialmente chiedendo.
Sbuffai una risata, guardandomi attorno con nervosismo, e non risposi affatto. Lo inchiodai con lo sguardo dopo pochi secondi, di nuovo.
"No" risposi solamente, spingendo le labbra in una linea dritta e irritata.
Era un poliziotto irritante e presuntuoso, molto bello di sicuro, ma non mi aveva mai fatto paura, nemmeno la prima volta che l'avevo visto, quando mi aveva chiamata alla sua auto per intestarmi una simpatica multa.
"Hai paura di quello che posso fare, di quello che posso dirti. Hai paura che ti piaccia" parlò con lentezza, strascicando, ed ebbi un'irrefrenabile voglia di baciarlo.
"Questa non è una conversazione che un poliziotto dovrebbe tenere con una 'ragazzina', no?" replicai subito, sperando così di nascondere le mie debolezze al suo sguardo penetrante. La mia acidità fu dirompente ma il mio cuore era decisamente fuori controllo, sotto i suoi occhi.
Il verde delle loro iridi catturò di nuovo, in modo indissolubile, il marrone delle mie; di nuovo, i pensieri che avrei voluto scagliargli contro, con la prepotenza che si meritava, cominciarono a fluttuarmi attorno, immobilizzati, mentre mi perdevo nel suo sguardo.
Il suo corpo si sollevò piano dallo sgabello, fino ad avvicinarsi al mio. Mi guardò dalla sua altezza, imperturbabile, con il respiro un po' affannato. Il mio mento era quasi alto quanto la sua spalla e fui costretta a sollevarlo di molto, per tenere i suoi occhi nei miei nel modo in cui sembrava mi stesse ordinando.
"Giusto" disse solo, con voce più roca che mai, poi storse il naso "Qualche altro ragazzetto potrebbe infastidirsi. A proposito, come sta?" aggiunse, infilando la mano nella tasca destra dei pantaloni della sua divisa; la sua mascella si contrasse al punto da definire perfettamente gli spigoli del suo viso.
Feci per rispondere, ma la sua attenzione fu attirata dal suo collega, che lo chiamò, lamentandosi dei dieci minuti che stava aspettando per ordinare; Styles sollevò la mano per dirgli di dargli tempo, rinfilandola velocemente nella tasca.
I suoi occhi furono di nuovo su di me in pochi secondi e io deglutii, annuendo prima di parlare.
"Sta bene" ebbi il coraggio di dire.
"Spero tu non ti sia impressionata a vederlo in quel modo, totalmente messo fuori combattimento e col viso pieno di sangue" si finse gentile, non riuscendo però ad evitare di ridacchiare, alla fine. Si prese gioco di Frankie con gusto e io dovetti trattenermi dal ridere, ricordando i lamenti del ragazzo e il suo viso gonfio per il duplice impatto con il pugno di Ty.
"Non sono così facilmente impressionabile, Styles" lo sfidai ancora una volta e trattenni anche un sorriso, vagando con lo sguardo sulle sue labbra schiuse e rosee.
Prima che potessi parlare, dando voce alle domande che avevo riguardo Ty e la sua situazione attuale, lui le imbronciò fermandole dal ridacchiare, "A me è sembrato di sì" disse poi, sicuro.
Tenendo il suo sguardo ancora su di me, con palpebre affinate, i miei pensieri si riempirono di dettagli su di lui. Mi ritrovai a ricordare con esattezza ogni particolarità del suo viso, ad essermi abituata a respirare il suo profumo al punto da non sentirlo più ingombrante e a domandarmi se gli fosse mai capito, in quei giorni, di pensare a me.
"Che sei venuta a fare, Samantha Chase?" chiese poi, cambiando totalmente argomento e trattenendosi ancora a parlare, nonostante avessi sentito il suo stomaco brontolare.
"Ho ordinato- provato ad ordinare una porzione di cipolle fritte da portare via" diligente, gli risposi, spinta anche dall'interesse e dalla curiosità nei suoi occhi, "Ma le cucine per me sono chiuse e non fanno cibo d'asporto". Con fastidio, sottolineai come la sua divisa gli avesse procurato il privilegio di poter mangiare a quell'ora e di farlo, per di più, gratis.
"Cipolle fritte? Così non potrai baciare nessuno" sbuffò una risata, allontanandosi piano da me e alzando una mano verso Nathan, appoggiando l'altra al bancone.
"Hey, lei. Cortesemente, può venire un secondo?" domandò, facendogli un cenno e ricevendo in risposta uno sbuffo nascosto miseramente.
Rivoltatosi a me, sorrise. Era bello. Cavolo, se era bello. Il cuore mi batté forte, al vederlo rivolgermi quell'attenzione, ma sollevai il mento per ricercare contento interiore e per sostenerlo sotto i suoi occhi.
"Ho bisogno di una porzione di cipolle fritte, che siano molto aromatiche e forti. Voglio che me la confezioni in modo da poterle portare in auto. Sa, stasera non ho nessuno che cucini per me" impartì Styles, sotto lo sguardo scocciato di Nathan, che volò - per un pò - anche a me.
L'uomo non fiatò e gli fece un cenno in risposta, voltandosi e prendendo a camminare verso le cucine, così l'agente tamburellò soddisfatto le dita sul bancone e si rivoltò a me, vincente e con lo sguardo che gli brillava per il potere che mi aveva appena dimostrato di avere.
Non tardò ad avvicinarsi di nuovo, tanto, al punto che trattenni quasi il respiro.
"Ti basterà aspettare che siano pronte e potrai portarle al tuo ragazzetto" mormorò basso, nascondendo di nuovo una mano nella tasca dei pantaloni, eretto e teso di fronte a me.
"Sono molto aromatiche, però" aggiunse, lasciandosi scappare una risata leggera e stringendo le labbra, quando provò a guardarmi serio.
"Grazie" fu tutto quello che dissi, guardandolo dal basso senza altre parole.
"Non preoccuparti di pagarle, è come se fossero mie. Fammi un fischio, se l'uomo fa storie" disse ancora, roco, sicuro, in raccomandazione.
Annuii, stringendo sulla spalla lo zainetto e dondolando leggermente sui miei talloni.
"Grazie" ripetei, mimandolo quasi.
"E sta' attenta là fuori, non voglio per niente dover interrompere il mio pranzo per correre sul posto del tuo incidente" mi punzecchiò, prendendo ad indietreggiare lentamente verso la parte del locale in cui si trovava il suo tavolo e su cui erano stati appoggiati due piatti fumanti di salsiccia e omelette.
Scossi il capo, alzando gli occhi al cielo, e strinsi meglio le braccia al petto. In sfida, mi beccai un'altra sua risata.
"Ci vediamo domani in centrale, la multa ti aspetta" mi congedò, pochi secondi prima di salutarmi in modo veloce con la mano e voltarsi di spalle. Non ebbi l'occasione di replicare e rimasi lì, muta nella mia frustrazione.
Era così sexy, il suo corpo si muoveva liscio nei suoi passi e la sua divisa sembrava fosse stata cucitagli addosso, avvolgendo in modo aderente ogni centimetro del suo corpo. Giocherellò con il cappello nella mano sinistra,m, camminando al suo tavolo, e io ebbi finalmente la forza di distogliere lo sguardo, accortami anche di quello del collega su di me, ancora una volta.
Insomma, quante altre volte sarebbe capitato nello stesso posto in cui ero io? Quante altre volte mi avrebbe sussurrato roco e a poca distanza, come aveva fatto poco prima? Quante altre gli avrei permesso di scatenare in me la voglia di mordergli le labbra, senza che nemmeno lo conoscessi?
Attanagliata e quasi furiosa, lo osservai mentre si sedeva. Styles mi lanciò uno sguardo di controllo, non appena messosi a tavola.
Intento a osservarmi, mentre masticava lentamente il suo cibo e strofinava le dita della mano sinistra, appoggiata al tavolo dal polso, fra di loro, come a scrollare sabbia invisibile.
Il suo collega gli parlava, ma a lui sembrava non importasse di potergli apparire del tutto disinteressato; si prendeva la briga di continuare a guardarmi in quel modo e io mi prendevo la briga di continuare a volere che mi guardasse in quel modo.
Nathan tossicchiò, richiamando la mia attenzione in modo invasivo, al punto che parve volesse proprio interrompere il nostro scambio di sguardi, e io sciolsi di scatto la braccia dall'essere intrecciate, camminando verso la porzione di cipolle puzzolenti sul bancone e allungandomi a prenderle.
"Ecco a te, Samantha" mi disse Nathan, sottolineando il mio nome, e non mi chiesi come facesse a saperlo, in quanto ero abbastanza convinta avesse ascoltato tutto quello che Styles e io ci eravamo detti.
Mi sembrò di arrossire, così tenni lo sguardo basso per tutto il tempo in cui mi allungai a sollevare - dal lato meno scottante - la porzione, che lasciò il segno del vapore sul suo bancone lucido. Mormorai un altro "Grazie", salutandolo con un cenno del capo.
Non ebbi altro coraggio per voltarmi a guardare Styles mentre camminavo via da lì, anche se avrei tanto voluto farlo. Ebbi abbastanza dignità da non farlo e da camminare spavalda verso l'uscita, rassicurata dal fatto che la pioggia non battesse più in modo violento contro le finestre.
Non avrei potuto continuare a starmene seduta lì ad aspettare che non cadesse più nemmeno una goccia, con l'agente Styles a marcarmi da lontano e il mio stomaco a contorcersi per l'agitazione scatenata dal fatto che fosse lì anche lui o per la voglia pungente di ansimargli contro le labbra gonfie e rosa.
Non potevo desiderarlo, non era lecito, ma sembrava come se ad ogni respiro - che tirava e rilasciava in modo lento e sensuale - mi accadesse sempre più in modo incontrollabile.
Era lui, il mio invito. Un appetitoso invito a cedergli, a pendere dalle sue parole sussurrate o dal modo in cui mordeva l'interno delle sue labbra, guardandomi.
Ed io ero una frana, ancora più di quanto lo fossi prima, ancora più violenta e confusionaria, piena di pesanti e appuntiti pensieri di lui e del suo corpo slanciato, delle sue lunghe dita, un insieme di desideri e remissioni brucianti che puzzavano d'eccitazione e sensualità disarmante; ricordi della sua lingua, di come la faceva scivolare lungo le labbra, di come le inumidiva.
Ero una vittima del modo in cui respiravo ansimante, pur lottando aspramente contro quella irreprensibile incapacità di fare altro al guardare e sentire lui, e della speranza di recuperare aria pulita con il suo profumo a renderla schiacciante.
Ero sicuramente tutto ciò, un'auto dai freni ormai difettosi e in corsa, ma lui era certamente un invito irrinunciabile e distruttivo a franargli addosso.
Desiderai, chiudendomi la porta del locale alle spalle, potesse essere solo mio.
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