Capitolo 10
Quella notte, la festa al liceo fu un successo. La palestra si riempì di studenti e adolescenti venuti da tutta la città, che ballavano scatenati al ritmo della musica a tutto volume che risuonava per la scuola. Tra le luci del palco, Leila si dimenava provocante, cantando le rime della sua nuova canzone rap, mentre i ragazzini storditi dalle luci stroboscopiche danzavano e facevano foto con i loro smartphone. Ferdinand dovette sgomitare tra la folla di studenti già alticci, per riuscire ad entrare nella palestra del liceo. Una volta ritrovatosi in mezzo a quella calca sudata e urlante, gli sembrò di essere finito in un girone infernale. Il tenente mostrò il suo distintivo a un addetto alla sicurezza, che lo fece passare dietro al palco. Conclusa l'esibizione, Leila si inchinò tra i flash degli smartphone mentre gli studenti applaudivano. Corse dietro le quinte, dove c'era Filippo ad attenderla. Gli buttò le braccia al collo e gli diede un bacio sulle labbra, tra gli sguardi stupiti delle sue amiche, che ancora non riuscivano a capacitarsi di quella relazione. La preside e alcuni professori si congratularono con lei: era evidente che sarebbe stata la vincitrice del concorso. Alcuni studenti del primo anno chiesero di poter fare una foto insieme a lei, e Leila si mise in posa per i loro scatti. Suo padre si avvicinò con un signore dall'aspetto distinto, vestito con un completo appariscente e i capelli brizzolati. La abbracciò e, dopo essersi congratulato, la presentò al talent scout del programma televisivo, che le fece i complimenti per la sua esibizione. In disparte, Ferdinand osservava tutto quel teatro. Fumava una sigaretta dietro l'altra, senza sapere che cosa fare. Di sicuro, aveva definitivamente abbandonato l'idea di smettere. Sentiva una rabbia furente montargli nel petto e non aveva idea di come placarla. Raggiunse il culmine dell'indignazione quando incrociò lo sguardo di Filippo. Lo studente non pensò neppure per un attimo di abbassare i propri occhi, fosse anche solo in segno di rispetto per l'anzianità del poliziotto. Anzi, si avvicinò al tenente camminando con passo sereno. Ferdinand sentì come se un vulcano gli stesse per eruttare in testa e le sue mani iniziarono a fremere. «Che cosa intendi fare?», lo schernì Filippo, «vuoi ancora picchiarmi?». Ferdinand guardò oltre allo studente, sopra le sue spalle. Leila e il talent scout chiacchieravano amabilmente, sotto lo sguardo estasiato del padre medico, mentre la preside gioiva per il successo della manifestazione scolastica. Ferdinand sentì lo stomaco bruciargli dal nervoso: non riusciva a togliersi dalla mente il ricordo del cadavere freddo e senza vita di quella studentessa, giovane promessa stroncata cinicamente da questi ragazzini, che adesso venivano innalzati sul piedistallo dal sistema scolastico. Era tutto così ingiusto e non poteva smettere di pensare al viso di Sabrina, a tutti gli sforzi che doveva avere compiuto per poter inseguire i suoi sogni, lottando contro la sua terribile malattia. E ora tutto era stato vanificato, annullato, da questi adolescenti viziati, questi assassini, pensò Ferdinand, che ora venivano osannati e fotografati dai loro consimili. «Te la stai prendendo troppo a cuore, zio», mormorò Filippo, sprezzante. A Ferdinand, quel tono di voce fece salire il fumo negli occhi e dovette fare uno sforzo sovrumano per restare calmo. Forse il ragazzino voleva solo provocarlo, oppure quella generazione era davvero composta da figli di papà, viziati e coccolati, che pensavano di poter giocare con le vite altrui come facevano con i videogiochi sulle loro consolle. Ferdinand si accese un'altra sigaretta. Che cos'altro poteva fare? Provava vergogna per non essere riuscito a incastrare un assassino, nonostante quello gli avesse confessato apertamente in faccia il suo crimine. Gli sembrò di stare infangando il distintivo che teneva nella tasca della giacca. Forse era davvero arrivato il momento di andare in pensione. Si sentì patetico. «Torna a casa, vecchio», gli sussurrò in un orecchio Filippo. Adesso Ferdinand non riuscì più a provare rabbia, ma si sentì soltanto fuori posto. Ormai, il mondo apparteneva a loro, a quei ragazzini che, con un click sul cellulare, avevano accesso all'universo intero, e non sentivano più bisogno dell'opinione di chi l'esperienza se l'era fatta provocandosi i calli sulle dita. Quell'aggettivo, "vecchio", risuonò dentro le sue orecchie come il rimbombo di una lapide deposta sopra a una tomba appena scavata. Il tenente abbassò il capo e si girò, camminando verso l'uscita in silenzio, tra gli studenti ubriachi che sgomitavano per scattarsi un selfie insieme alla nascente stella della musica rap.
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