Tre.
"Il nemico è la paura. Si pensa che sia l'odio; ma, è la paura."
Gandhi
No, quello non era affatto un controllo casuale.
Con la sciarpa a celare la smorfia di terrore ormai perennemente impressa sul suo viso, Nikolaj sollevò lo sguardo sugli altri otto passeggeri radunati nel corridoio, e il suo cuore mancò un battito. Nemmeno gli abiti delle fogge più disparate riuscirono a nascondergli l'evidenza: quegli uomini gli somigliavano. Erano alti quasi quanto lui, avevano i suoi stessi capelli ramati e il medesimo pallore.
No, ripeté una voce nella sua testa, questo non è affatto un controllo casuale.
«Verrete scortati nell'ufficio uno alla volta!» Il soldato che gli aveva impedito di salire sul vagone lo superò con una tale foga da urtargli la spalla col cane del fucile. «Se collaborate, forse riuscirete a non perdere il treno e a sprecare i soldi del biglietto.»
Per molti di loro – Nikolaj compreso –, quella di dover riattendere il passaggio di un secondo convoglio diretto a Tjumen era una prospettiva a dir poco inconcepibile, e un mormorio indignato s'alzò verso il soffitto.
«Silenzio!» Bastò il ringhio del soldato con la stella sul colbacco a ripristinare l'ordine. Poi si voltò verso uno degli indiziati, e gli fece cenno di abbandonare la panca sulla quale s'era seduto in attesa dell'ispezione. «Andiamo.»
Nikolaj li vide scomparire entrambi dietro la porta metallica dell'ufficio. Non notò alcun tremito, alcuna protesta: consapevole di non aver nulla che potesse destare l'attenzione delle guardie, il passeggero aveva accettato di buon grado di sottoporsi al loro controllo.
Ma Nikolaj? Che cosa avrebbe dovuto fare? Era chiaro che stavano cercando lui. La notizia della sua fuga da Ekaterinburg si era diffusa con una rapidità che lui non aveva neppure lontanamente previsto...
«Ma perché ci hanno fermato?»
Nikolaj si voltò verso il contadino dai tratti vagamente signorili che aveva osato porre la domanda. Non faceva che tormentare un berretto rattoppato con le dita ferite dall'aratro. Perfino uno stupido si sarebbe accorto di quanto poco avesse a che fare con lo zar.
«Perché?» balbettò, aggrappandosi al braccio di Nikolaj. «Mia moglie e i miei figli sono già saliti! Non possono andarsene senza di me!»
Nikolaj s'irrigidì tutto d'un tratto, costringendo il contadino a mollare la presa. Una parte di lui avrebbe soltanto voluto cominciare a correre, a correre per non vedere più gli occhi di quell'uomo puntati sul suo viso, a correre per non tornare... L'altra avrebbe preferito riavvolgere il tempo per cancellare dalla memoria quelle frasi dolorose.
«Aiutatemi» biascicò il contadino, rivolgendosi al resto dei passeggeri. «Non ho fatto niente!»
«Probabilmente nessuno di noi ha fatto niente, compagno» ribatté un operaio, passandosi le dita sottili fra le ciocche rossastre. Allungò il collo verso la porta, ma ovviamente non udì né vide alcunché. «Ma chi stanno cercando? Un ladro? Una spia dei Bianchi?»
«Un evaso, credo... e non uno qualunque» replicò l'uomo accanto a Nikolaj, sbattendo le palpebre sotto la visiera del cappello militare. A giudicare dall'uniforme lisa e dagli orli scuciti, era uno dei tanti reduci del conflitto mondiale ormai congedati perché troppo vecchi per venire arruolati nell'Armata Rossa; eppure non doveva avere che sei o sette anni più di Nikolaj. «Non avete sentito l'ultimo annuncio del compagno Lenin?»
Il silenzio calato all'istante convinse l'ufficiale a proseguire.
«Lo zar...» sussurrò dopo qualche secondo, circondato da una selva di occhi sgranati. «Lo zar è di nuovo libero.»
Nessuno fece in tempo a commentare la notizia, perché la porta s'aprì lasciando uscire il primo passeggero. Il sorriso sollevato che ora gli increspava le labbra confermò a Nikolaj il buon esito del controllo.
«Tu!»
Trattenne il respiro, pregando che non fosse già arrivato il suo turno. Ma l'indice del soldato puntato dritto verso di lui gli fece crollare anche le ultime, sciocche speranze.
«Andiamo!»
Nikolaj non si mosse: non ne era in grado. Era come se le suole degli scarponi gli si fossero incollate al pavimento.
«Sei sordo, per caso?» ruggì il soldato, paonazzo, afferrandogli il braccio con malagrazia. «Ti ho detto di muoverti!»
Nikolaj non poté fare altro che lasciarsi trascinare dentro l'ufficio, la testa invasa dal bisbigliare curioso degli otto passeggeri. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, però, il tonfo tranciò di netto ogni altro rumore superfluo, oltre che la luce mattutina penetrata dalle finestre.
Nell'ufficio della stazione di Istok regnava una penombra caparbia, pesante, viziata, rotta a malapena da una piccola lampadina elettrica. Nikolaj dovette abituarvi gli occhi per qualche secondo, prima di riuscire a scorgere i profili dei suoi inquirenti.
«Si accomodi pure.»
Nikolaj si lasciò cadere impotente sulla seggiola posta davanti alla scrivania incrostata di ruggine.
Sentiva gli sguardi delle guardie rosse vorticargli intorno. Erano in cinque, ed erano ben diverse dal soldato che l'aveva condotto laggiù. Nikolaj scrutò nervoso la cornetta della radio ricetrasmittente stretta nella mano dell'uomo che aveva di fronte. Non riusciva a produrre un unico pensiero sensato: la paura di venire nuovamente catturato era riuscita persino ad oscurare l'odio che provava per i suoi aguzzini.
«Sono Uljan Spektor, capitano del reparto speciale per la sicurezza di Stato. Sa perché si trova qui?»
Nikolaj scosse il capo. Aveva ancora nelle orecchie il rombo furente degli spari che aveva udito la notte della fuga, e la testa sul punto di scoppiare.
Spektor abbozzò un ghigno divertito al di sotto dei baffetti curati. «Forse le sembrerà superfluo ripeterlo» mormorò, facendo scivolare una cartellina già aperta sopra la scrivania «ma i proclami del nostro amato presidente non mentono mai.» Diede per scontato che Nikolaj ne fosse al corrente, e lo invitò a dare un'occhiata all'oggetto che gli aveva posto sotto gli occhi. «I nemici del popolo non sono tutti morti, purtroppo.»
Stando ben attento a non esporre il tatuaggio che spiccava bluastro sul dorso della mano, Nikolaj allungò le dita tremanti verso la cartellina, e la scoprì ricolma di fotografie.
«Avanti, le guardi» lo incalzò il capitano, rivelando tutta la sua impazienza. «Molti nostri connazionali pagherebbero per poter vedere ciò che le stiamo mostrando ora, signor...?»
«Olendev» balbettò Nikolaj, abbassando lo sguardo sulla prima foto del plico. «Vladimir Olen...»
Non riuscì a ripeterlo, perché un morso gli serrò improvvisamente la gola.
Non era veramente Anastasija, la ragazzina che giaceva riversa sul pavimento col petto crivellato dai proiettili. No, non poteva essere lei.
Una seconda guardia sporse la testa nella sua direzione. «Qualcosa non va, signor Olendev?»
Ma Nikolaj non udì nulla. Non avrebbe potuto. Col respiro ansante e la mente ottenebrata dal dolore, continuava a fissare il cadavere di sua figlia senza riuscire a distoglierne lo sguardo. Perfino quella morte annunciata giorni prima e già parzialmente accettata come vera aveva finito per coglierlo impreparato.
Senza alcuna ragione, gli ritornò alla mente quel lontano pomeriggio a Carskoe Selo, quando Anastasija si era sbucciata un ginocchio durante una pazza corsa in cortile alle calcagna delle sorelle più grandi. Malgrado i suoi sei anni e mezzo, non aveva versato neppure una lacrima, e Nikolaj ne era rimasto stupito. L'aveva riportata in braccio nella sua camera premendole un fazzoletto sulla gamba per fermare il sangue.
"Non preoccuparti, papà" gli aveva detto Anastasija, le braccia avvinghiate attorno al suo collo. "Non ho paura come Aleksej."
«Signor Olendev.»
Nikolaj si portò le dita agli occhi per asciugare in tempo le lacrime. Aveva udito gli spari, e Lazar gli aveva confermato di persona di non essere riuscito a salvare in tempo la sua famiglia; eppure, data l'assenza di prove concrete, aveva scelto di barricarsi nelle sue abituali illusioni. Ma la realtà – forse più terribile dei suoi stessi incubi – non aveva tardato a rovinare ogni cosa. Come sempre.
«Si tolga la sciarpa dal volto, per favore.»
Nikolaj conficcò le unghie negli angoli della fotografia. Perché continuava a guardare? Non aveva già forse sofferto abbastanza?
«Signor Olendev» ripeté la guardia in piedi dietro le sue spalle, afferrandolo per un braccio. «La sciarpa. Se la tolga. Subito.»
Nikolaj alzò gli occhi su Spektor, seduto al di là della scrivania. Gli stava ancora sorridendo, ma ora la sua espressione s'era fatta morbosa, e gli occhi gli brillavano di una specie di perverso e feroce compiacimento. Era già pronto a chiamare personalmente i piani alti di Mosca per dar loro la buona notizia: lo zar era caduto per la seconda – e ultima – volta nelle loro mani.
Nemmeno il ticchettio metallico della sicura tolta da una pistola di grosso calibro riuscì a convincerlo a scoprirsi la faccia.
«Non ho mai visto nessuno tanto sprezzante della nostra autorità, signor Olendev» sghignazzò Spektor, con gli occhi che parevano quelli di un allucinato. «O forse dovrei chiamarla signor Romanov?»
Nikolaj sollevò la mano libera, la strinse attorno al bordo della sciarpa e se la levò dal volto. Ormai non aveva più senso continuare a nascondersi.
Un grido – sbalordito e strozzato – si levò all'unisono dalle bocche dei custodi della rivoluzione.
«Mettimi in contatto con il compagno Stalin» comandò Spektor al suo assistente, accostandosi la cornetta all'orecchio. Quasi tremava per l'euforia: probabilmente stava già fantasticando sul valore e soprattutto sulla dimensione della medaglia che gli avrebbero presto appuntato al petto. «Se non può rispondere, passami Berija. È urgente.»
«Sissignore!»
Nikolaj fissava con la coda dell'occhio la canna della pistola puntata a pochi centimetri dalla sua tempia sinistra. Era ormai così assuefatto alle minacce da non avvertirne più il peso. L'unica cosa che percepiva adesso era l'odio, quell'odio immortale e sincero che il terrore era a malapena riuscito a sedare.
Dopo tre brevi segnali acustici, il capitano si umettò le labbra e si schiarì la voce. «Compagno Stalin, qui è Spektor, dalla stazione di Istok.» Nessun suono, a parte un lieve e remoto raschiare. «Compagno Stalin, riesce a sentirmi...?» domandò, timido.
La risposta non si fece attendere, e perfino Nikolaj udì chiaramente la voce del sottosegretario gracchiare oltre i fori della cornetta: «Ci sono novità?»
Il sorriso di Spektor si fece ancora più raggiante. «Abbiamo preso l'obiettivo, compagno.»
A giudicare dal silenzio che ne seguì, il sottosegretario, cauto come da abitudine, non aveva creduto alle sue stesse orecchie. «Che cosa?» chiese dopo qualche secondo, accrescendo a dismisura la già esorbitante soddisfazione del capitano.
«Nikolaj Romanov. È qui. Proprio davanti a me.»
Stalin parve tentennare, sorpreso. E tutti sapevano quanto odiasse mostrarsi sorpreso di qualcosa. «Me lo passi» grugnì.
Spektor allungò la cornetta a Nikolaj, che se la portò a sua volta all'orecchio senza battere ciglio. Lo sfrigolio delle interferenze sembrò per un istante fare a gara col battito accelerato del suo cuore.
«Sto parlando con il nemico del popolo?» udì chiedergli Stalin al di là dell'apparecchio.
«Sì.» Nikolaj strinse ancora più forte la fotografia della sua bambina ricoperta di sangue. «Ed io sto parlando con l'assassino di sei persone innocenti?»
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