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Sei.

"La vita ti chiede soltanto la forza che possiedi. Solo un'impresa è possibile – non dover scappar via."

Dag Hammarskjold

Nikolaj si proibì di abbassare di nuovo lo sguardo. 

Aggrappato alla maniglia con entrambe le mani, aveva dovuto mordersi la manica del cappotto per soffocare i lamenti. Non sapeva quanto fossero vicini i sedili dei passeggeri: si era infilato dentro il bagno e aveva chiuso a chiave a porta, accecato dal dolore.

Si era lasciato dietro una scia di sangue? Forse. Ma in ogni caso ora sarebbe stato troppo tardi per rimediare.

Nikolaj si lasciò scivolare a terra con un gemito. Non ricordava di aver mai provato un dolore così intenso. Distese davanti a sé la gamba tremante, disegnando una linea rossastra sul pavimento già sporco.

Il proiettile era ancora là, incastrato nella carne viva. Per qualche secondo, Nikolaj rimase a a fissare lo squarcio aperto nello scarpone senza neppure respirare. Aveva la mente annebbiata, troppo annebbiata per reagire.

Una parata d'immagini gli sfilò davanti agli occhi sbarrati: il fronte, durante l'ultima offensiva tedesca; la sua vettura rovesciata e resa inservibile da un colpo di mortaio; la corsa frenetica dei suoi generali per condurlo al riparo nell'ospedale da campo; quelle tende bianche imbrattate di sangue...

Nikolaj sentì di nuovo su di sé gli sguardi accusatori dei soldati. Camminando fra una barella e l'altra, li aveva visti sollevare la testa per squadrarlo. Alcuni di loro sarebbero tornati a casa senza una gamba o un braccio; molti non vi sarebbero tornati affatto.

È una sorta di legge del contrappasso, pensò, tutt'altro che lucido, allungando la mano per slacciare le stringhe.

Lui aveva gettato la Russia nel conflitto, lui aveva usato i suoi sudditi come carne da cannone, ed ora lui – sempre lui – doveva espiarne la colpa. Nonostante vi fosse ben poco di razionale in quel pensiero, per la prima volta in vita sua Nikolaj ebbe la certezza di essersi meritato tutto quel dolore.

Perfino Rasputin, poche settimane prima della sua morte, l'aveva messo in guardia: "Questo sangue non è che l'inizio". E non era stato lui stesso, nel giorno dell'incoronazione, a prevedere le sofferenze cui sarebbe andato incontro? Tutto tornava.

Stava giusto cominciando a crogiolarsi in quei deliri, quando un rumore di passi appena oltre la porta lo riportò di colpo alla realtà. Udì distintamente lo schioccare di un paio di tacchi bassi sul pavimento, ma a giudicare dalla cadenza si rese conto che non appartenevano ai soliti stivali militari: erano scarpe da donna. Nikolaj trattenne il fiato e poggiò l'orecchio alla porta.

«Non è possibile!»

Non ricordava nemmeno l'ultima volta che aveva udito parlare una voce femminile, ma rammentava ancora le grida delle sue figlie e di sua moglie. Erano echi che tornavano a tormentarlo nei momenti più impensabili, e Nikolaj dovette lottare contro l'impulso di tapparsi le orecchie. Non avrebbe risolto nulla, in fin dei conti. Era tutto nella sua mente.

Rimase immobile, allora, la guancia appiccicata al legno, senza avere il coraggio di controllare la serratura. Aveva davvero chiuso a chiave? Sollevò appena lo sguardo verso la maniglia, che proprio in quel momento cominciò a fremere: la giovane dietro la porta la stava forzando.

Una seconda voce intervenne da lontano: «Posso aiutarla, signorina?»

Era il controllore, senza ombra di dubbio: lo stesso che gli aveva rivolto la parola ad Istok. Nikolaj si coprì la mano col palmo.

«Sì... credo che la porta del bagno sia bloccata. Siamo in viaggio da pochi minuti e non ho visto nessuno entrarci.»

«Mi faccia dare un'occhiata.»

Nikolaj udì altri passi. La maniglia tornò ad abbassarsi e alzarsi a vuoto, ma lui non osò tirare un solo sospiro di sollievo.

«Ha ragione, deve essere bloccata. E sono quasi certo che sia a causa del freddo...» mormorò il controllore pur di non incolpare il metallo scadente delle serrature. «Torni a sedersi, per ora. Andrò a recuperare le chiavi di riserva.»

Nikolaj si staccò dalla porta. Ormai non era che una questione di tempo. Dove si trovavano le chiavi? Presumibilmente nella cabina di controllo della locomotiva. Quanto ci avrebbe messo il controllore a percorrere l'intera lunghezza del treno? Dieci, quindici minuti?

Nikolaj ringraziò Dio di trovarsi sull'ultimo vagone, e abbassò di nuovo lo sguardo sulla ferita. L'odore del sangue stava iniziando a dargli alla testa. Mosso più dal panico di essere scoperto che dal desiderio di far cessare quello strazio, allungò la mano e infilò le dita sotto la calza. Si dovette mordere la lingua per non urlare: era come avere un tizzone ardente conficcato sotto la pelle.

Nikolaj lasciò vagare lo sguardo lungo le pareti del bagno, finché non trovò ciò che stava cercando. Strisciò quindi fino al lavandino, afferrò il piccolo asciugamano bianco e si sistemò di nuovo contro la porta.

La stoffa grezza – dopotutto, era in terza classe – si strappò senza nessuno sforzo, e Nikolaj riuscì a fabbricarsi in tutta fretta una mezza dozzina di bende.

Ormai gli restava soltanto una cosa da fare. Sforzandosi di non chiudere gli occhi, trasse un profondo respiro e avvicinò di nuovo le dita alla ferita. Poteva sentire i lembi di pelle già morta sotto i polpastrelli. Un conato di vomito minacciò di fargli perdere la presa, ma Nikolaj non ritrasse la mano.

Non c'era nessuna via di scampo, nessuna alternativa. Nessun Lazar disposto a fare il lavoro sporco al posto suo. Doveva risolvere da solo la questione e uscire da lì il prima possibile.

Nikolaj scosse la testa. Non era riuscito ad evadere dal carcere per morire d'infezione. Non era sopravvissuto all'inferno per crepare nel bagno di un treno. Non era questo il suo destino.

Lo ripeté a se stesso un paio di volte, prima di infilare il pollice e l'indice nella ferita. Il dolore si fece ancora più intenso, ancora più atroce, e lui per tutta risposta spinse le dita ancora più a fondo. Dovette allargare il foro lasciato dalla pallottola per poter raggiungere il proiettile, e quando finalmente avvertì il gelo del metallo in mezzo a tutto quel sangue caldo si rese conto di stare piangendo.

Grazie, pensò. Grazie...

Lo strinse forte con le unghie e lo tirò fuori. L'ennesimo fiotto di sangue gli imbrattò i pantaloni, ma non vi prestò attenzione. Si fermò anzi a fissare il proiettile, che per qualche bizzarro motivo non ebbe cuore di gettare via. Lo fece anzi cadere nella tasca del cappotto, e prese a fasciarsi la ferita. Riuscì perfino a riallacciare lo scarpone senza troppi problemi, e sollevò la testa.

Quanti minuti gli restavano? Nikolaj lanciò un'occhiata alla porta ancora sbarrata. Sarebbe stato impensabile fuggire in quella direzione, e voltò la testa dalla parte opposta. La sua unica via di fuga era la minuscola finestra accanto allo specchio.

Nikolaj si aggrappò al lavandino e si rimise in piedi. Il dolore non l'aveva abbandonato, ma se non altro adesso era di gran lunga più sopportabile.

Avanzò barcollando fino alla finestra e afferrò la manopola con la mano sporca di sangue. Dovette faticare parecchio per sbloccarla, ma quando vi riuscì gli parve di essere d'un passo più vicino alla libertà.

Il vento gelido della steppa gli carezzò il viso. Non vi era nessuna città, davanti ai suoi occhi, nessun nemico sulle sue tracce: soltanto la neve, immensa e accecante.

Nikolaj sporse la mano fuori. Come aveva immaginato, trovò il primo piolo di una scaletta d'emergenza, e vi si avvinghiò.

Ricordò con un sorriso di aver già usato quella via parecchi anni prima, in circostanze del tutto diverse: da ragazzino, sul treno privato della famiglia fermo alla stazione, era sgattaiolato in quel modo fuori dal vagone per salutare suo padre.

Ora, più di trent'anni dopo, issarsi fuori dalla finestra costò a Nikolaj uno sforzo sovrumano. 

Non conosceva la velocità del convoglio, ma una cosa era certa: avrebbe avuto la forza del vento contro di lui. Se ne accorse non appena richiuse la finestra con un calcio e iniziò la salita verso la cima.

Il fumo della locomotiva e i fiocchi di neve trasportati dalla bufera lo travolsero obbligandolo a strizzare le palpebre. Si appiattì contro la scaletta, cercando di resistere all'aria, ma finì soltanto per sbilanciarsi verso il vuoto.

Un unico passo falso e la caduta l'avrebbe ucciso, lo sapeva per certo.

Nikolaj alzò la testa: sette pioli appena lo separavano dal tetto del vagone. Una volta arrivato lassù, sarebbe stato al sicuro almeno fino alla prossima stazione. Il vento non era così forte a quell'altezza.

Nikolaj inspirò l'olezzo acre del combustibile, e staccò una ad una le dita della destra dal piolo. Poi sollevò il braccio, agguantò il piolo successivo e fece lo stesso con l'altra mano. Costrinse i piedi a seguire la manovra, ignorando le fitte alla caviglia, e dopo pochi minuti si trovò a ridosso della balaustra alla quale era stata fissata la scaletta.

Nikolaj non dovette far altro che scavalcarla e stendersi prono sul tetto del vagone stando ben attento a non mollare la presa. L'ululare del vento lo assordava a tal punto da non lasciargli nemmeno la forza di pensare.

Avrebbe voluto sollevare una mano per sistemarsi il colbacco, ma il terrore di venire sbalzato via dal turbine lo persuase a lasciar perdere. Non riusciva a vedere nulla all'infuori dei tetti dei vagoni che precedevano il suo.

Il paesaggio s'era ridotto ad un astratto biancore sopra e sotto di lui, coperto a tratti dalla caligine nera della locomotiva.

Prima di abbandonare una volta per tutte la paura di essere scoperto dal controllore, Nikolaj voltò la testa per accertarsi di essere in una buona posizione. E sì, in effetti lo era: lui stesso poteva scorgere a malapena la finestra da lassù, senza contare che difficilmente un uomo qualunque avrebbe alzato il capo per cercarlo.

Ma quel sollievo non durò a lungo.

Nikolaj impiegò diversi secondi ad accorgersi che non solo la finestra si era appena spalancata, ma che il controllore aveva anche sporto fuori la testa.

Eppure non l'aveva visto. Si era limitato a lanciare una rapida occhiata alle altre finestre, svogliato e irritato dal freddo.

Nikolaj non osò muovere un muscolo. Sarebbe bastato un movimento brusco del braccio per farlo scoprire. Continuò a fissare il controllore pregandolo con gli occhi di richiudere in fretta la finestra. Le sue preghiere parvero esaudirsi dopo un paio di minuti, e fece per riportare lo sguardo all'orizzonte.

Senonché un'improvvisa folata – più intensa delle precedenti – lo investì facendogli scivolare via il colbacco dalla testa.

Nikolaj non fece in tempo a riprenderlo: terrorizzato, lo guardò volare verso il basso e passare proprio di fronte alla finestra. Non poté far altro che guardarla aprirsi una seconda volta.

Il berretto del controllore fu la prima cosa che vide. I suoi occhi sgranati puntati nella sua direzione lo pietrificarono più della paura di cadere dal treno. Rimasero a fissarsi in silenzio per un'istante infinito e penoso.

Lo aveva riconosciuto? Sapeva di trovarsi di fronte all'ultimo imperatore di Russia o l'aveva scambiato per un semplice criminale in fuga?

Nikolaj si disse che in fondo non aveva alcuna importanza.

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