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Quattro.

"Ad ogni tentativo di incatenare una persona 

corrisponde un piano di fuga uguale e contrario."


Valemille



Per diversi secondi, si udì soltanto il crepitare della radio collegata con Mosca.

Nikolaj rimase immobile, senza neppure respirare, in attesa di una risposta da parte del sottosegretario. L'aveva forse messo a disagio? Oppure stava semplicemente rimuginando la replica più adatta?

«Innocenti?» ripeté Stalin dopo un minuto buono, con un tono che fece accapponare la pelle a Nikolaj. «Sei persone innocenti, dici? E innocenti di quale crimine, di grazia?»

Nikolaj non poteva credere che gli avesse davvero posto quella domanda. «Erano soltanto dei bambini...» balbettò.

«Già, ma i bambini di chi?» rise candido Stalin. «Se li avessimo lasciati vivere, i Bianchi li avrebbero usati per continuare a fomentare la rivolta. E questo popolo non può permettersi un decennio di guerra civile: non ne sopravviverebbe.»

Nikolaj strinse le dita attorno alla cornetta fino a bloccare l'affluenza del sangue. Era stato per troppo tempo lontano dal mondo per saperlo ancora diviso fra i suoi sostenitori e quelli dei bolscevichi. Pensava che Lenin avesse già soppresso le ultime ribellioni; pensava che i Bianchi, ormai, si fossero arresi... Era veramente colpa loro se Alix era stata uccisa? Se non avrebbe mai più visto crescere Aleksej e le sue sorelle? Se quel poco di bello che la vita gli aveva dato era scomparso per sempre?

«Mostro» sibilò, sputando fuori la prima parola che gli era venuta in mente.

Stalin scoppiò di nuovo a ridere al di là dell'apparecchio. «Mostro? Io?» A giudicare dai tonfi metallici che ne seguirono, era evidentemente occupato a ripulire la sua pipa dal tabacco in eccesso. «Divertente sentirsi definire in questi termini dall'uomo che ha rovinato per sempre la mia Patria.»

«È anche la mia Patria!» ruggì Nikolaj. «E io non l'ho...» Si fermò a metà frase, raggelato. Il volto di Artemy, distorto dall'odio, gli lampeggiò per un istante davanti agli occhi.

«Che cosa succede, Altezza? La verità ti fa passare la voglia di ribattere?»

Nikolaj abbassò la testa. Il capitano Spektor stava ghignando di gusto di fronte a lui, e aveva contagiato anche il resto delle guardie. Se non altro, ciò li aveva spinti ad abbassare temporaneamente pistole e fucili.

Nikolaj sbatté le palpebre davanti agi occhi ormai vitrei della sua Anastasija. «Pensi che il mondo rimarrà a guardare il vostro operato senza alzare un dito per fermarvi?» mormorò. «Se credi anche solo lontanamente di potermi rinfacciare tutti gli errori che ho commesso, ti sbagli di grosso. Sì, ne ho commessi parecchi, e sì, mi sono pentito di ognuno di loro... e in particolare di uno.»

«Quale?» domando Stalin, curioso.

«Quello di non averti ucciso quando ancora ne avevo la possibilità» ribatté Nikolaj con uno strano sorriso. «Chissà perché non ho voluto firmare l'ordine di esecuzione... sai, me lo chiedevano in tanti. Eppure ti ho relegato ai semplici lavori forzati.»

Il silenzio di Stalin sapeva di rabbia trattenuta a stento e vecchi ricordi mai del tutto svaniti.

«Che cosa succede, sottosegretario?» rise Nikolaj. «La verità ti fa passare la voglia di ribattere?»

«Sei soltanto un traditore...» boccheggiò Stalin. «Il peggiore traditore del popolo russo! Meriti di fare la stessa fine della tua famiglia di rinnegati e profittatori...»

Nikolaj deglutì, colpito al cuore. Aveva ormai compreso quanto fosse inutile discutere con un burocrate del pari di Stalin, e si limitò a sussurrare: «Sì, me lo merito...» Abbandonò allora la foto sul tavolo, senza avere il coraggio di scrutare il resto del plico, e si voltò verso la cornetta come se fosse stata la faccia grassa e baffuta del suo interlocutore. «Ma prima rimedierò al terribile errore di cui ti ho parlato.» Gli occhi azzurri gli brillavano di un'inquietante, oscura luce. «Io ti ucciderò, mi hai sentito? Mettimi pure alle calcagna gli assassini del tuo Partito, giustizia tutti i miei sostenitori, devasta l'intera Russia per trovarmi, ma io non mi fermerò mai finché non vedrò il tuo cadavere sorridermi con un proiettile conficcato in mezzo agli occhi!»

Prima di poter udire la replica di Stalin, Nikolaj si sentì strappare di mano la cornetta. Non fece in tempo a protestare, che uno schiaffo ben assestato lo convinse a lasciar perdere. Con la guancia già arrossata dal colpo, non poté fare altro che rimanere seduto a fissare il volto corrucciato del capitano Spektor.

«Compagno Stalin, sono di nuovo io» lo udì mormorare, una volta ritornato in possesso della ricetrasmittente. «Devo procedere?»

Nikolaj spostò lo sguardo sull'assistente dell'ufficiale, che aveva appena poggiato una piccola valigetta rigida sulla scrivania.

«Sì» rispose secco Stalin. «Il mio sottoposto sarà lì a ritirare il prigioniero entro questo pomeriggio. Passo e chiudo.»

Spektor ripose la cornetta con un sospiro così profondo da offuscare per un istante il suono intermittente della radio. «È perfino riuscito a indisporre il sottosegretario...» biascicò, interdetto. «Non l'avevo mai sentito così irritato durante una conversazione.»

Nikolaj non replicò. Continuava a fissare la valigetta, sperando che non contenesse ciò che temeva con tutto se stesso.

«Curioso, eh?» gli domandò Spektor notando il suo sguardo. «So che non vede l'ora di scoprire cosa Stalin ci ha ordinato di fare per spedirla a Mosca senza ulteriori fastidi...» Fece scattare i ganci della valigetta, e la aprì mantenendone nascosto l'interno a Nikolaj. «Eppure, considerato il trattamento che Jurovskij le ha riservato alla Casa a destinazione speciale, credo che lei l'abbia già intuito qualche minuto fa.»

Nikolaj cercò di alzarsi, ma le mani di una delle guardie lo immobilizzarono sulla sedia. «Bastardi!» guaì. Brividi di nausea avevano nel frattempo incominciato a risalirgli lungo la colonna vertebrale. «Non avete nessun diritto di...»

«Noi non abbiamo il diritto di metterla a tacere, signor Olendev?» rise stupefatto il capitano, sollevando un barattolo ricolmo di un liquido trasparente e agitandolo davanti al viso di Nikolaj. «Noi ne abbiamo il dovere!»

Nikolaj vide l'assistente estrarre una siringa vuota dalla valigetta e porgerla a Spektor, che la conficcò di punta nel tappo del barattolo.

«Questa non ha nulla a che vedere con la morfina di Ekaterinburg, sa? È molto più raffinata, e agisce in un batter d'occhio.»

Nikolaj abbassò la suola chiodata del suo scarpone sopra lo stivale di una guardia. Un grido atroce e una bestemmia ancor più bestiale gli assicurarono di aver fatto centro.

Scattò di nuovo in piedi, approfittando di quel breve istante di confusione, ma crollò in ginocchio dopo pochi passi, le mani già premute sulla tempia.

Un soldato gli aveva scaraventato il cane della pistola proprio sopra la cicatrice della sua vecchia ferita.

Rammentava bene quando se l'era procurata. «L-La testa...» Rammentava le urla delle sue figlie violentate dai secondini. Rammentava il sorriso ignobile di Nikita Duvlotep a pochi metri da sé. «La mia... testa...» Rammentava tutto ciò che aveva pregato di dimenticare.

«Avanti, basta scherzare!» strillò Spektor, la siringa già piena fino all'orlo. «Riportatelo qui.»

Un paio di braccia sollevarono Nikolaj dal pavimento e lo sbatterono nuovamente sulla sedia.

Sangue, pensò lui, tastandosi la pelle morbida sopra il sopracciglio. 

Non aveva altro che antiche memorie a velargli di odio lo sguardo.

«Si scopra il braccio, signor Olendev. Non renda le cose ancora più complicate.»

Nikolaj gli rivolse un'occhiata truce. Che cosa avrebbe fatto Lazar? Che cosa avrebbe detto? «Fottiti, vigliacco.» Quasi non riconobbe la sua voce, ma non se ne preoccupò affatto. «Non sai fare altro che pregarmi?»

Spektor gli afferrò il polso in un impeto di rabbia e sollevò la manica del cappotto. Gli occhi gli caddero sul gatto tatuato sopra la mano di Nikolaj. «Da zar di tutte le Russie a criminale siberiano» mormorò, raccogliendo altre risate da parte dei suoi uomini. «Che carriera strabiliante.»

Nikolaj alzò lo sguardo sul petto della sua uniforme, dove campeggiava soltanto una misera medaglia d'argento, liscia, senza fregi. «Sempre meglio della tua.»

Spektor sollevò la siringa, furibondo. «Questa è l'ultima volta che ti prendi gioco della mia autorità, maledetto pazzo!»

Nikolaj chiuse gli occhi, rapito dalla stessa calma glaciale che aveva guidato la sua mano durante il duello con Artemy il Rompicollo, diverse settimane prima. 

Quando li riaprì, scorse la parabola discendente dell'ago, lento e lucido di gocce di morfina liquida. Lo colpì di piatto col palmo della sinistra, intercettandolo a metà strada, e chiuse le dita attorno alla mano di Spektor.

Accadde tutto in una manciata di secondi.

Nikolaj spinse in alto la mano come se avesse voluto mandare la siringa ad incastrarsi nel soffitto. E di certo sarebbe arrivata fin lassù, se lungo il suo cammino non avesse incontrato un ostacolo non proprio trascurabile: l'occhio sinistro del capitano Uljan Spektor.

Nikolaj lo vide di sfuggita portarsi la mano alla faccia e aprire la bocca per urlare. Avrebbe tanto voluto assistere all'intera scena, ma le guardie non gli lasciarono altra scelta che combattere.

«Capitano!»

Pistola carica.

Nikolaj guardò il dito del soldato intorno al grilletto. Si voltò, e superò uno dei suoi colleghi lanciandosi dietro le sue spalle. Quando il proiettile detonò, Nikolaj si vide crollare addosso il cadavere e una cascata di sangue nero.

«Idioti! Non dovete ucciderlo!» gridò l'assistente, impegnato a tentare di estrarre la siringa dal bulbo oculare di Spektor. «Il compagno Stalin lo vuole vivo!»

Nikolaj lo zittì sferrandogli un pugno in pieno collo. Si girò prima di udirlo cadere, e sbatté le palpebre: la porta era soltanto chiusa, non sbarrata. Si gettò nella sua direzione inseguito dalle braccia tese delle guardie rosse.

«Fermatelo! Fermatelo!»

Le dita di Nikolaj si chiusero finalmente attorno alla maniglia, ma un calcio ben assestato lo mandò a sbattere di faccia contro il metallo. Il dolore gli esplose nel naso, nelle gengive.

Le ultime parole del Gran Khan Likharev tornarono a rimbombargli indistintamente nella testa almeno una dozzina di volte: "Sei così debole! Sei così debole...!"

Le mani dei soldati lo afferrarono per le spalle, cercando di strapparlo alla presa ferrea con cui si era attaccato alla maniglia.

"E tu, razza di moccioso viziato che non sei altro, avresti governato questo Paese per vent'anni?"

Nikolaj spalancò gli occhi. Con un gesto fulmineo, sfruttò la forza delle guardie e si gettò all'indietro su di loro, colpendone una fra i denti col braccio piegato.

I suoi compagni gli furono addosso in un attimo.

"Sei così debole!"

Nikolaj si abbassò e lasciò che le guardie lo superassero sull'onda dello slancio, totalmente alla cieca. 

Spektor stava ancora strillando come una ragazzina dietro la scrivania: «Il mio occhio! Il mio occhioooo!»

«Combatti da uomo, se ne sei capace!» latrò il soldato che l'aveva fermato alla stazione, gettando a terra la pistola e preparandosi in posizione di guardia. «Non fai altro che scappare!»

Nikolaj sollevò i pugni, indietreggiando d'un passo. Il suo avversario doveva avere più di vent'anni meno di lui, ma non era questo a preoccuparlo: Nikolaj stava pensando al treno ormai in partenza da un momento all'altro.

«Allora?!» lo incalzò il soldato. «Che fai, codardo, scappi?»

A Nikolaj parve di udire, lontani, gli ultimi fischi d'avvertimento della locomotiva. Scoprì solamente allora di trovarsi con le spalle contro la porta, e abbassò di nuovo le dita sulla maniglia. «Credo proprio di sì» mormorò. Poi, spalancò l'uscio.

Precedendo di qualche secondo la reazione del soldato, si mise a correre verso i passeggeri dai capelli rossi, sbatté la spalla contro quella del contadino, e ripercorse il corridoio al contrario.

Doveva fare presto, doveva fare presto.

«Fermatelo! Non fatelo passare!»

Nikolaj riuscì ad attraversare la folla ferma davanti al bigliettaio senza che nessuno osasse sbarrargli la strada, e alzò la testa. I vagoni erano già stati chiusi, e il treno diretto a Tjumen stava ormai per lasciare la stazione.

Ma lui non volle fermarsi.

«Spostatevi, razza di idioti!» sentì sbraitare il soldato qualche metro dietro di sé.

Nikolaj continuò a correre, di pari passo con gli ingranaggi che sfrigolavano sulle rotaie vomitando fumo e clangori. Lui tossì, sputò il sangue che s'era tenuto in bocca fino a quel momento e strinse i denti. Dopo un così lungo digiuno spezzato solo dal magro pasto donatogli dalla vecchia, era già un miracolo che fosse arrivato ad Istok sulle sue gambe.

«State intralciando un membro del Partito!»

Nikolaj si sfregò gli occhi offuscati dalla caligine. Era una scaletta, quella che pareva sorridergli dal fondo del secondo vagone? 

Nikolaj accelerò il passo più che poté, ormai fuori dalla stazione. Ad ogni suo passo, ora s'alzava la neve, e le pareti di cemento armato avevano ceduto il posto ad una sterminata recinzione di filo spinato.

Stava per allungare il braccio ed afferrare il passamano, quando uno sparo riecheggiò nell'aria.

«Fermati!»

Il soldato. Aveva gettato la pistola, ma naturalmente si era tenuto stretto il fucile.

«Ti ordino di fermarti!»

Nikolaj continuò a trascinarsi disperato verso i vagoni che stavano iniziando ad accelerare. Altri spari lo fecero sussultare, ma non tanto da spingerlo ad obbedirgli. 

Lui era un ricercato speciale: ora che Stalin in persona sia era messo sulle sue tracce, nessun bolscevico avrebbe mai tentato di ucciderlo. O quasi.

«Fermati!» ripeté il soldato, che stava rapidamente riguadagnando terreno. «O giuro su Dio che ti centro entrambe le gambe!»

Nikolaj fece finta di non averlo sentito, e tese di nuovo il braccio. Mancavano pochi centimetri, ma i fischi della locomotiva s'erano fatti ancora più frequenti. Questo significava una cosa sola: doveva sbrigarsi a salire.

Nikolaj inspirò, batté a terra la punta dei piedi e si lanciò verso il passamano. Un ultimo, violentissimo fischio gli perforò i timpani, ma quasi non se ne rese conto. Un rumore ancora più intenso l'aveva colpito.

«Ci rivedremo presto, bastardo!» Le risate del soldato: sempre più lontane ma tuttavia sempre più crudeli. «Vedi di non sporcare troppo il treno!»

Nikolaj lanciò un grido, in ginocchio sopra i pioli di metallo. Ne seguì un altro, a breve distanza dal primo, ma ancora più prolungato. Un gelo orrendo pareva avergli penetrato la caviglia, scavandosi un passaggio fino a scontrarsi con l'osso.

Nikolaj rimase prostrato e urlante sulla scaletta fin quando non si decise ad abbassare il capo sulla gamba sinistra. La vista del bordo forato dello scarpone fu sufficiente a dargli un'idea dell'entità della ferita, e Nikolaj urlò di nuovo, ma più per il rimpianto di non essere salito prima che per il dolore provocato dal proiettile.

Si aggrappò al passamano, circondato dal fumo e dai fiocchi di neve sollevati dal passaggio del treno, e si issò in piedi.

"Sei così debole!" udì ancora rinfacciargli il Gran Khan.

Gemendo, Nikolaj premette una mano sul vetro opaco dell'entrata di servizio, e spinse con tutte le sue forze.

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