Prologo
Si accese una sigaretta e la strinse tra i denti. Era tabacco della Val Galimino, coltivato nelle piantagioni di Beliaz l'allampanato, della migliore qualità.
Peccato non poterne assaporare l'aroma.
Nel lungo corridoio, illuminato da un sole fatto a strisce da grate arrugginite, le spire di fumo s'avvolgevano diafane al pulviscolo centenario. Lavorare nei templi abbandonati o nelle rovine di antiche magioni era di una noia mortale. Presto, infatti, il copione fatto di stupidi avventurieri alla ricerca di vacui tesori si sarebbe ripetuto uguale ad altre centinaia di volte. Ma il suo compito non era certo porre un freno all'inesorabile susseguirsi del fato.
Voci giunsero in lontananza. Finalmente.
Gettò la sigaretta, che scomparve tra la polvere prima di toccare il suolo, sollevò il cappuccio e afferrò la falce. Sarebbe stato un lavoro facile e pulito.
«...mio padre ancora se lo chiede. Da quel giorno tutti mi chiamano Manolenza.» Seguì una risata sguaiata che si riverberò tra le pareti decrepite. «Hai capito? Mano-lesta, mano-lenza... perché con la canna da pesca... vabbè, lascia stare.»
Dietro un angolo buio fece capolino la testa fulva proprietaria della fastidiosa voce: «Via libera» disse al suo interlocutore ancora nascosto.
Un istante dopo il giovane dalla lingua lunga entrò nel corridoio, seguito da un vecchio incartapecorito.
«Che ti dicevo, Leuterio? Con Jonas Manolenza vai sul sicuro, non c'è trappola che mi ferisca o serratura che mi resista» si pavoneggiò il ragazzo, proseguendo baldanzoso per il varco, avvolto dalle nuvole di sabbia che i suoi stessi passi sollevavano.
Il fossile che lo accompagnava, infagottato in un pastrano tarlato memore di giorni migliori, lo seguiva a debita distanza.
«Dentro cosa dovrebbe stare questo tuo mazzo magico?»
L'anziano scosse la testa: «Chiudi la bocca e apri gli occhi Jonas, questa era la dimora di Malachia l'Ombroso, il più grande incantatore dei Tempi Remoti.»
«E allora? Sono passati millenni, qui è tutto in rovina. Troverò il tuo tesoro in un baleno e...»
Un click interruppe il fiume di parole. L'avventuriero sbiancò, il vecchio indietreggiò.
Lei strinse la falce e assunse la postura: il momento era giunto.
Uno sciame di frecce scricchiolò attraversando lo stretto passaggio: nove si sgretolarono contro la parete, otto trafissero il corpo di Manolenza che cadde a piombo.
Il tempo di un sospiro e lo spirito del giovane le apparve davanti, gli occhi eterei di lui piantati nelle sue orbite vuote.
«Tu... tu sei...» balbettò.
Morte si limitò ad annuire.
«Quindi... io sono...»
Morte allungò un dito scheletrico verso il cadavere disteso nella sabbia.
Seguì un silenzio rotto dai brontolii del vecchio: «Stupido incapace» bofonchiò scavalcando il corpo. Poi disegnò un cerchio nell'aria e sulla mano gli comparve una sfera luminosa, con l'aiuto della quale svoltò in un tetro passaggio.
«Ora non dovresti condurmi...»
Morte si portò il dito davanti ai denti e gli fece cenno d'aspettare, quindi indicò il cunicolo in cui s'era infilato il vecchio.
«Viene anche Leuterio?»
Rispose un rombo, come se la terra avesse digerito un intero banchetto di nozze. Poi si alzò un'onda di polvere e infine il buco dove s'era infilato l'arzillo nonnetto lo risputò fuori.
L'uomo rotolò in un rumore di ossa rotte. Si voltò verso il passaggio che ancora ruggiva, cercò di alzarsi e il suo volto si trasfigurò per il terrore quando le gambe non ubbidirono. Guardò nuovamente l'imboccatura del cunicolo e volgendo gli occhi al cielo pronunciò flebili parole.
Poi la terra vomitò un macigno che, nella sua corsa verso l'uscita, gli rotolò sulla testa. Del corpo di Leuterio rimase solo una scia di sangue e interiora.
Morte si preparò ad accogliere il nuovo venuto.
Alla sua destra però comparve lo scheletro di un topo avvolto in una mantella nera, con una piccola falce chiusa nella zampa.
«Odio gli straordinari!» si lamentò il collega mentre al suo fianco prese forma lo spirito di un confuso roditore.
«E io odio gli stregoni» sospirò Morte guardando un topo sgattaiolare fuori dalle rovine a tutta velocità.
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