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Storia di un gatto e del suo protetto

Questa è la storia di Baffetto.

Baffetto dal pelo corvino, col muso incorniciato di vibrisse pallide e tese come corde di violino sotto la luna.

Come ogni buon gatto che abbia trovato la sua strada nel mondo, Baffetto si prendeva quotidianamente cura di un umano, preoccupandosi di dargli la sveglia al mattino, tenergli al caldo il capo nelle notti invernali, e far sì che fosse sempre attivo e impegnato.

Da bravo tutore gli aveva anche assegnato un nome altisonante, Gnawrawr, epiteto regale che, però, non sembrava suscitare nell'uomo alcun sentimento di orgoglio né di compiacimento quando egli si rivolgeva a lui apostrofandolo in tal modo. Del resto, Baffetto lo sapeva bene, era dal declino del popolo delle piramidi che il gusto degli umani in fatto di nomi era precipitato altrettanto rovinosamente.

Tuttavia non riusciva a fare a meno di trovarli creature estremamente interessanti, riconoscendo loro la capacità di far fronte a una natura ben poco magnanima che li aveva condannati a vivere in balia degli elementi, protetti soltanto da quella misera pelle glabra, e alla loro disperata inettitudine alla caccia, con quel passo pesante e l'odore pungente di chi è costretto a fare uso di sostanze balorde per pulirsi. Li ammirava, doveva ammetterlo. Li ammirava e allo stesso tempo gli facevano tenerezza con le loro stranezze e singolarità. Procacciarsi il nutrimento di giorno e dormire la notte? Non c'era da stupirsi che avessero bisogno di una guida per comprendere come si sta al mondo.

Quel giorno, Baffetto l'aveva sentito, Gnawrawr aveva lasciato la tana particolarmente agitato. Come accadeva nel ciclo regolare, non sarebbe rientrato prima del crepuscolo, presumibilmente più turbato e nervoso di quanto già non fosse al mattino. Decise, per sollevargli il morale, di fargli un regalo.

"Farò di te un vero cacciatore", pensò dirigendosi verso la grande bifora della sala, pronto a reperire una preda con cui insegnargli l'antica arte mistica della sopravvivenza. Ahimé, Gnawrawr, unico nella tana a conoscere il rituale per aprirla, aveva quel giorno dimenticato di lasciare a Baffetto uno spiraglio di accesso al grande mondo. Non si perse d'animo: con gli umani ci vuole pazienza, questo i gatti lo sanno bene.

Ripiegò su quello che sapeva essere il passatempo preferito del suo protetto nelle ore notturne; si apprestò quindi a preparargli il giaciglio più confortevole e accogliente che si potesse immaginare. Saltò sull'alcova, una superficie di tela liscia e immacolata, e prese a sondarne ogni punto con premura. Passò gran parte della mattinata ad ammorbidirla premendo su ogni angolo di tessuto, con le zampine che si alternavano ritmicamente in un rituale ancestrale sconosciuto alle specie condannate a solcare la terra senza quella grazia soprannaturale che è tipica dei felini. Tuttavia non poté ritenersi soddisfatto. Sollevò il capo, quindi balzò sul lungo camminamento che sovrastava l'alcova e che era affollato di idoli pelosi di varie fogge e dimensioni, alcuni dei quali sembravano voler replicare le fattezze di creature inferiori. Quello che più di tutti rassomigliava a un cane lo buttò giù senza degnarlo di uno sguardo. Esaminò con attenzione tutti gli altri. Con cura maniacale ne ispezionò l'interno per sincerarsi che fosse composto di materiale abbastanza soffice e dal buon odore. Effettuò l'operazione per ogni singolo idolo - nulla andava lasciato al caso - finché non selezionò quelli che gli parvero adatti allo scopo e li posizionò sull'alcova ammonticchiandoli l'uno sull'altro perché, si sa, è così che ci si tiene al caldo. 

Per verificare l'adeguatezza della sistemazione, Baffetto la mise alla prova con un sonnellino. Al risveglio si ritenne abbastanza soddisfatto, ma ancora non del tutto convinto. Il giaciglio si sarebbe rivelato confortevole anche in condizioni difficili? Si allontanò di qualche passo, quindi, dopo una breve rincorsa, balzò sulla superficie percorrendola di gran filata per poi saltare nuovamente giù. Il procedimento andava ripetuto varie volte perché il responso potesse essere ritenuto affidabile. Si allontanò ulteriormente, questa volta posizionandosi sull'uscio della stanza, si diede momento con un veloce scodinzolio e via! Rincorsa, salto, giro, giro, salto! Molto meglio. Replicò la sequenza svariate volte, sempre più veloce e da sempre più lontano. L'altruismo era divertente! Concluse che il livello di comodità sarebbe stato soddisfacente anche in caso di notevoli sollecitazioni.

Tuttavia mancava ancora qualcosa. Uno spuntino gli avrebbe schiarito le idee. Fu quando si recò al desco che ebbe l'illuminazione: ci voleva un oggetto che fosse mera vanità, che compiacesse la vista prima che gli altri sensi. Bellezza. Esposte sulla mensa conviviale erano due scodelle tubolari di lucido cristallo, sfavillanti nella luce sghemba che filtrava dalla finestra rivelando un liquido amaranto al loro interno. L'ornamento perfetto. Si avvicinò per esaminarle. Perché gli umani si ostinassero ad abbeverarsi in scodelle che limitavano i movimenti della lingua - e soprattutto perché bevessero quella brodaglia putrida e nauseabonda - era uno degli interrogativi ai quali non gli era mai riuscito di trovare risposta. Che creature misteriose gli umani. Gli venne un dubbio... e se quell'emanazione di assoluta frivolezza non fosse abbastanza soffice e confortevole nel mezzo dell'alcova? Tutto il lavoro completato fino a quel momento sarebbe stato vano! Per verificarne il grado di elasticità, Baffetto ne lasciò scivolare una sul pavimento. Come aveva sospettato, quella si infranse schioccando fastidiosamente in un tripudio di schegge. Il contenuto si disperse sulle mattonelle lucide caricando l'aria di un olezzo fetido. Provò con l'altra. Stesso risultato. Decorare l'alcova era fuori discussione.

Decise quindi di arricchirla con uno strumento di pulizia, affinché Gnawrawr non fosse costretto ad abbandonarla durante la notte per poter prendersi cura di sé. In bella vista nell'antro delle abluzioni era appeso un nastro candido di fragilissimo tessuto del quale l'umano si serviva particolarmente spesso. Ne afferrò un lembo e fece per trascinarlo verso il giaciglio, ma - qual meraviglia! - la tela velina si rivelò infinita. Più Baffetto si allontanava, più quella fettuccia nivea si dipanava come una strada di latte alle sue spalle. Morbida, sottile e leggera, la tela magica svolazzava come fosse fatta di vento mentre, beandosi di stupore, Baffetto la trascinava verso l'alcova a completamento dell'opera. Fece in modo di lasciarsi alle spalle un lungo strascico di tessuto sottile perché già sull'uscio Gnawrawr potesse intuire che qualcosa di grandioso era in serbo per lui, e pregustare la sorpresa che egli aveva preparato con tanta cura nel corso della giornata.

Sentì finalmente armeggiare vicino all'ingresso. Gnawrawr era arrivato! Eccitatissimo all'idea di sollevare il suo protetto dalle angosce del giorno, Baffetto si fece trovare impettito e fiero proprio accanto al suo capolavoro. Già immaginava la cascata di coccole e bocconcini che l'umano gli avrebbe elargito una volta realizzato quanto il suo devoto compagno lo amasse.

Per tutta risposta, dopo aver ammirato la magnificenza di cui il felino era stato l'artefice, Gnawrawr gli mollò due sonori ceffoni sul muso, quindi si allontanò e bofonchiando prese a smantellare tutto.

Ma no, no! Gli schiaffi sono per quando c'è una minaccia, non per esprimere gratitudine! Come poteva Gnawrawr essere tanto duro di comprendonio? Un po' stizzito, Baffetto si ritirò sul davanzale, quindi si diede una bella scrollata e decise di riprovarci l'indomani.

Del resto con gli umani ci vuole pazienza, questo i gatti lo sanno bene. 

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