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'Cause I've done some things that I can't speak

♥️

Arriviamo al dipartimento di polizia nel primo pomeriggio, ed è quando ci chiedono i documenti di identità che iniziano i veri problemi.
Il cognome di Alexander causa qualche faccia stranita, i poliziotti alla reception cominciano a borbottare tra di loro. Poi uno tra questi, basso e senza capelli, ci ammonisce con poca eleganza.
- E sentiamo, voi due...cosa ci siete venuti a fare qui?-
Mi indispettisco per i suoi modi gretti, così comincio a parlare a ruota libera.
-Vogliamo avere delle informazioni sul caso di Mya Stanford...-
Lui mi interrompe sventolando il palmo della mano davanti al mio naso.
-No, no...signorina! Qui non funziona così.-
-Lascia parlare me,Juliet.- interviene Alexander.
Il poliziotto a questo punto incrocia le braccia al petto.
-Siamo volontari.- spiega Alexander.
-Volontari per...?-
-Questo dipartimento accetta volontari per i "cold case", i casi non risolti?-
Il poliziotto scuote il capo contrariato.
-Sentite, non potete venire qui a...-
-Li accetta o no?- insiste Alexander.
-Sì, normalmente sì.-
-Allora vorrei parlare con l'agente che se ne occupa. Grazie.-
Alexander come al solito si rivela più convincente del previsto.
Il poliziotto sbuffa, poi ci indica di seguire una donna corpulenta che dondolando ci conduce in un ufficio vecchio ed impolverato.
-Aspettate qui. L'agente Paul arriverà subito.-
La donna ci lancia un'ultima occhiata sospetta, poi se ne va.
Io ed Alex ci sediamo su due sedie sgangherate e stiamo in silenzio in quello stanzino afoso.
Sento il ticchettio del suo ginocchio destro contro la gamba del tavolo.
Vorrei prendergli la mano, dirgli che va tutto bene... ma ad un certo punto la porta si spalanca ed entrano due uomini.
L'uomo più vecchio ed in sovrappeso si siede alla scrivania dinnanzi a noi, mentre un ragazzo alto e giovane sta in piedi, proprio di fianco all'altro.
-Cari ragazzi, il caso della signora Ackerman non fa parte dei suddetti "Cold Case". Invece il caso Stanford...-
Lo vedo fare una pausa per inforcare un paio di occhiali da vista, intanto il ragazzo più giovane gli passa dei fascicoli.
-Quello di Mya Stanford era un caso chiuso, fino a qualche anno fa. Poi è stato ripreso in mano da un agente che ha cominciato a fare indagini per conto proprio...-
-Che indagini?- lo interrompo bruscamente.
Alexander mi fulmina, mentre il vecchio poliziotto mi guarda attraverso quei piccoli occhiali che rendono i suoi occhietti strani.
-Stiamo parlando dell'agente Kyle Withman?-
-Juliet, lascia parlare me.- mi ammonisce Alexander con una punta di apprensione.
Il vecchio poliziotto sfoglia i documenti con fare confuso, quindi il ragazzo più giovane gli indica alcuni paragrafi, suggerendogli dove leggere.
- Mhm...Corretto, il nome dell'agente era proprio Kyle Withman. E lei signorina come fa a saperlo?-
-È vero che negli anni scorsi in questo dipartimento ci lavoravano dei poliziotti corrotti?-
-Juliet!-
Sento Alexander digrignare i denti quando mi ammonisce.
Il vecchio agente però, sembra concentrato sui fogli che ha sparso sopra alla grande scrivania in legno.
-Le denunce sono state sporte contro...Vediamo un po'...Alexander Ackerman.-
A questo punto il ragazzo alto si avvicina per bisbigliargli qualcosa nell'orecchio.
-Sei tu!- esclama l'uomo puntandoci il dito contro.
-Forse è meglio se andate ragazzi, non c'è altro che io possa dirvi adesso.-
-I genitori di Mya, la ragazza del caso Stanford, loro vivono ancora qui?- chiedo sperando che la mia domanda trovi una risposta.
Il poliziotto si alza in piedi, poi gonfia le guance grassocce in uno sbuffo disinteressato.
-Mi dispiace, non divulghiamo queste informazioni. Vado che il pranzo mi si fredda.- dice con un sorriso di cortesia. -Ragazzi, il mio stagista vi accompagnerà fuori.-
Sono ormai sconsolata, quando l'uomo esce dallo stanzino.
Il ragazzo alto però, ci sorprende con un'affermazione bisbigliata sottovoce.
-Tornate verso le sei. A quell'ora staccano quasi tutti e la centrale sarà mezza vuota. Forse posso aiutarvi.-

🍎

-Ti ricordi dove abitano i genitori di Mya?- domando quando Alexander si rimette alla guida.
-Vagamente, sì.-
-Possiamo metterci in contatto con loro? Vorrei parlarci.-
Poi mi mordo il labbro, come se volessi rimangiare l'audacia di un pensiero così assurdo.
-Sai quando stamattina sono uscito?-
Annuisco pensierosa.
-Oltre a mio padre... Ho chiamato la clinica...Quella in cui sono stato dopo la morte di mia madre. Insomma, dove ho conosciuto Mya.-
- Oh.-
- Sono rimasto in buoni rapporti con molte persone che vi lavorano... quindi ho chiesto loro se potevamo mettermi in contatto con la famiglia di Mya.-
Vorrei abbracciarlo in questo momento.
- La signora Stanford ha deciso di vederci.-
- Grazie Alex.- sussurro stringendomi contro il suo braccio.

Dopo qualche chilometro giungiamo al parcheggio di un grosso edificio moderno immerso nel verde.
Ad un'occhiata superficiale sembra un semplice ospedale, ma in realtà ha tutta l'aria di una clinica privata e molto costosa.
-Tutto bene?- domando preoccupata.
-Sì.-
-Sei sicuro? Alex non sei obbligato...-
Lui però si volta ad osservarmi con sguardo deciso.
- Va tutto bene. Andremo fino in fondo.-
-Insieme.- aggiungo io prima di lanciargli le braccia al collo.
I cappotti non ci permettono un abbraccio troppo stretto e la macchina non è il posto più comodo per stringersi l'uno all'altro, ma non mi importa. Voglio solo che Alexander sappia che ha tutto il mio appoggio ora.

-Secondo te perché ha accettato di vederci solo la mamma di Mya?- domando quando usciamo dall'auto.
L'aria grigiastra è ormai umida, segno che a breve tornerà a piovere.
-Beh. Ci puoi arrivare da sola, Juliet. Forse suo padre non voleva guardare in faccia il mostro che ha ridotto sua figlia in quello stato.-
Le sue parole mi toccano nel profondo.
-Non farti questo.- gli dico stringendo il suo braccio affettuosamente.
- Hai ragione, non avrei dovuto dirlo. Non voglio farmi autocommiserare. Non c'è nulla di peggio che essere patetici.-
Camminiamo fino al portone di ingresso della clinica, poi sento il suo corpo irrigidirsi.
- Che c'è ?- domando con un velo di ansia.
-Entra solo tu. Io...non me la sento.-
-Alex...-
Gli prendo entrambe mani nascoste dalle maniche del capotto. Vengo scossa da un brivido quando sento le sue dita gelide intrecciarsi con le mie.
-Posso anche non entrare, se ti fa stare meglio.-
-No. Tu vai, Juliet. Solo dammi un attimo di tempo.-

Quindi faccio il mio ingresso nella clinica e chiedo della signora Stanford ad un ragazzo dalla carnagione ambrata, che sta alla reception. Lui mi fa cenno di sedermi nella sala d'attesa.
Già mi immagino di dover aspettare una vita, invece dopo qualche minuto una donna alta e molto elegante mi viene incontro.

-Ciao. Ma...Alexander?- domanda curiosa.
Ha i capelli corvini tirati all'insù in uno chignon perfetto, il tubino scuro fascia un fisico mozzafiato.
"Di sicuro non è la signora Stanford" mi dico scrutandola con diffidenza.
- Sono Jane, la dottoressa che ha seguito Alexander quando è stato qui in clinica. Mi ha chiamato questa mattina...-
- Io sono Juliet. Lui è fuori.- taglio corto.
- Oh, capisco.- la vedo assumere una faccia dispiaciuta e al contempo comprensiva.
- Vieni. La signora Stanford vi stava aspettando.-

Seguo quella donna senza smettere di fissare le gambe affusolate che escono dall'abito.
- Lei... lavora ancora qui?- le chiedo confusa.
- Ti stai chiedendo perché non indosso un camice bianco?-
- Sì. Beh...-
-Oggi era il mio giorno libero ma Alexander mi ha chiamata, quindi sono venuta appositamente per vederlo.-

Mhm. Beh ti è andata male, vecchia milf.

La mia stupida gelosia però, svanisce non appena entro nella saletta indicatami dalla dottoressa.
- Buona fortuna, Juliet.- mi sussurra prima di sparire con le sue proporzioni da modella di Victoria Secret.

Una signora sulla quarantina sta seduta su una poltrona color blu elettrico.
Ha dei fiori in mano che posa sul tavolino non appena mi vede entrare.
- Salve signora Stanford.-
L'ampia stanza è illuminata da una grande finestra che dà su un parco verdeggiante.
E il pungente odore di disinfettante mi prende alla bocca dello stomaco, dandomi la nausea.
O forse è solo l'agitazione.
-Questi sono per lei, glieli porto ogni giorno.- la sento dire con voce argentina.
Per un attimo non capisco bene di cosa stia parlando, ma non appena quella donna minuta mi rivolge uno sguardo, comprendo immediatamente.
I suoi occhi sono tristi e vacui.
Sta parlando della figlia.
- Il cimitero è qui vicino.- sussurra abbandonandosi contro lo schienale della poltrona.
-Scusa non volevo partire con argomenti così macabri....-
Poi mi scruta da capo a piedi.
-Ma tu chi sei?-
-Sono Juliet. Alexander è mio fratello. Fratellastro.- mi correggo immediatamente.
-Oh.-
Involontariamente prendo a massaggiarmi il collo nascosto dalla sciarpa. Come a voler coprire ancor di più i miei lividi e nascondere a quella donna tutti i miei segreti.
Io però muoio dalla voglia di conoscere i suoi.

-Mi dispiace molto per Mya... per sua figlia.- annuncio sedendomi sulla poltrona di fronte alla sua.
Ha delle rughette piccole e marcate che le contornano il volto spento ed invecchiato.
-Sai quando dicono che le madri hanno quel sesto senso...-
La sua voce è strana, sembra quella di una bambina. Anche la sua intonazione è poco adatta ad una donna della sua età.
Sembra sia sotto l'effetto di farmaci.
-Lo sapevo che sarebbe successo. Solo non sapevo quando.-
Non me n'ero accorta prima, ma entrambe le sue mani tremano.
-Ma perché secondo lei?- chiedo con voce bassa, come se il mio tono sommesso bastasse a nascondere l'insensibilità della domanda.
-Era molto infelice?- incalzo, quando vedo che la donna si perde nel vuoto con i suoi occhi neri.
-Oh no! All'apparenza tutto perfetto!- esclama quasi contenta.

Tutto perfetto? L'hanno rinchiusa in questa clinica! Come può dire che fosse tutto perfetto? Inizio a pensare che la madre di Mya non sia la persona più obiettiva ed adatta per parlare di sua figlia.
- E allora cos'è successo, signora Stanford?-
-Eravamo in vacanza al lago, molti anni fa, quando il suo fratellino di cinque anni è annegato.-

Ho un brivido lungo la schiena ad udire quelle parole.
La donna mi guarda con una faccia inespressiva. Sembra stia recitando una preghiera.
Penso subito a mia madre e mi si annebbiano gli occhi di lacrime salate.

-È stato... Beh, non ci sono le parole. Julian.-
"Mi chiamo Juliet."
- Mi dispiace molto, signora Stanford.-
È chiaramente sotto psicofarmaci, ma d'altronde come biasimarla...

-Io ero ormai assente e Mya non ha retto il colpo.-
- E suo padre?-
-Suo padre è un uomo di altri tempi, tutto d'un pezzo. Lui pensava solo al lavoro. Mya ha sofferto per anni di depressione...-
- Mi dispiace. Ma non aveva degli amici?-
-Solo uno.-
Oh.
-Tuo fratello.- aggiunge lei, come se ci fosse il bisogno di spiegare.
-Lei...voglio dire... Mya voleva bene ad Alex?-
-Molto. Parlava solo di lui durante i nostri incontri. Durante le telefonate.
Anche quando non si conoscevano ancora.
È stato un colpo di fulmine.-
Annuisco senza perdermi una singola parola.
-A quanto pare lui inizialmente non le parlava. Lui non parlava con nessuno. Guarda.-
La donna apre la zip della borsetta e tira fuori un quaderno sgualcito.
-Questo è il suo diario.-
-Perché l'ha portato qui?- domando confusa.
-Volevo darlo ad Alexander. È giusto che lo tenga lui.-
- Posso darglielo io.- affermo mentre lei me lo sta già porgendo.
- Signora Stanford, secondo lei sua figlia si è...-
Le parole mi muoiono in gola, ma lei capisce perfettamente.
-Per quanto mi piacerebbe credere che lei amasse la vita... Non era così.
Si è chiusa in bagno.
Poi si è tagliata i polsi.
Non sopportava più il dolore.
Nessuno poteva impedirglielo.-
- Neanche Alex?-
-No. Neanche lui.-
-Le hanno detto che rapporto c'era tra lei ed Alexander?-
-Mi hanno detto tante cose. Ma io credo solo alle parole di mia figlia. A quello che c'è scritto in quel diario. Lei gli voleva bene e lui le leggeva i libri quando lei non riusciva a dormire.-
La guardo posare una mano tremolante dietro alla nuca di capelli scuri, intrecciati a ciocche ormai bianche.
-Vorrei solo essere stata più presente.-

Mi faccio coraggio ancora una volta e glielo chiedo.
-Le hanno parlato dei lividi?-
La guardo prendere un grosso respiro prima di concentrarsi a rispondermi.
-Mia figlia era piena sensi di
colpa. In passato aveva avuto periodi di autolesionismo,ma pensavamo fosse solo una fase di ribellione... Poi è subentrata la depressione, allora abbiamo deciso di farla curare qui.-
-Quindi crede che se li infliggesse da sola?-
-No. Credo che lo facesse fare a lui.-
La guardo chinare il capo con occhi lucidi.
-Devo andare, non me la sento più di continuare.-
-Mi scusi non volevo offenderla. O turbarla.-
Lei sembra non avermi neanche sentito, raccoglie giacca e la borsa, ci mette un po' a vestirsi. Ho ancora qualche secondo per chiederglielo.
-Solo un'ultima cosa... Lei crede che... sì, insomma... che Alexander le facesse del male contro la sua volontà?-
Con le dita la tremanti abbottona la giacca senza scollare gli occhi dal pavimento.
-Non ho mai creduto che lui le facesse del male. Ma suo padre, quando gli hanno mostrato quel diario...era furibondo.-

La signora Stanford mi saluta ed esce dalla stanza con passo lento ed indeciso. Finché non resto completamente sola con il diario di Mya tra le mani.
E io sto letteralmente morendo dalla voglia di leggerlo.

Apro la prima pagina.

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