67. RESA DEI CONTI
Successe tutto in pochi istanti. I frammenti di quei momenti sono confusi nella mia mente. Algol si lanciò in avanti e cominciò la colluttazione con Tim. Pugni, urla, calci. Restai immobile, l'aria gelida che mi accarezzava il viso, completamente paralizzata. Non sapevo cosa fare, non sapevo cosa dire, non sapevo come fermare ciò che stava succedendo davanti ai miei occhi. Sentii le lacrime spingere per uscire, ma riuscii a trattenermi. Quello non era il momento per piangere, no, era il momento per agire, per fare qualcosa. Decisi di non riflettere. Dovevo agire. Mi guardai intorno alla ricerca di un'arma. Un sasso, un ramo, qualsiasi cosa. Sentivo il terreno scosceso sotto i miei piedi.
Un tonfo. Alzai di colpo lo sguardo e vidi Algol che veniva spinto via e rotolava giù. Polvere, erba, foglie. Lo stomaco mi si strinse in una morsa. Dalle mie labbra uscì un grido.
-Urli?- mi chiese Tim, divertito. Un graffio gli percorreva la guancia destra. Il sangue gli scendeva giù fino alle labbra.
Ingoiai la rabbia. Dovevo mantenere la calma, solo così avrei avuto qualche possibilità di avere la meglio su di lui.
Compresi che dovevo distrarlo.
-Secondo me ti senti molto solo... lo fai per questo- iniziai, il cuore che mi batteva tanto forte che facevo quasi fatica a sentire la mia stessa voce.
-Oh, ma che belle parole.... e secondo me tu sei molto sciocca- rispose lui.
Mi sforzai d'incurvare le labbra in un sorriso. Con la coda dell'occhio vidi Algol alzarsi. Dovevo distrarre Tim.
-Non nasciamo cattivi- continuai.
-Oh, io penso invece che sia scritto nei geni- mi si avvicinò -ma una come te... come può capire?-
-Io capisco invece- replicai. Tremavo, ma mi sforzai di mantenere un tono rilassato.
Tim era a un passo da me. Si fermò e mi sembrò imponente, grande, aggressivo. Mi scrutò con attenzione, come se volesse misurarmi. -Forse se avessi trovato una persona come te- allungò una mano e mi sfiorò i capelli -Forse... -
Algol si lanciò su di lui, facendogli perdere l'equilibrio. La colluttazione non durò molto questa volta. Tim preso alla sprovvista, scivolò dentro una buca e scomparve. La caduta doveva essere di qualche metro. Mi avvicinai e guardai giù. Tim stava immobile, rannicchiato. Mentre l'osservavo lì, sanguinante, compresi che Tim aveva ragione. Siamo tutti potenziali assassini, l'importante è trovare la persona giusta.
Algol si venne incontro e mi abbracciò. Restammo così, l'aria della notte che ci accarezzava.
Ero seduta nel giardino del castello. Con grande attenzione stavo sistemando una bambola. Il suo viaggio era terminato. Ora poteva essere riconsegnata alla bambina.
-Non ti hanno mai detto che sei troppo grande per giocare ancora con le bambole?-
Trasalii e balzai in piedi, cercando di mascherare il sorriso Algol mi fissava. Notai subito che aveva delle occhiaie scure. Indossava una semplice maglietta nera e un paio di jeans. Non lo avevo più visto da quando...
-Pensavo che non ti saresti più fatto vedere- mormorai.
-Come avrei potuto?- chiese, una nota stonata nella sua voce -Facciamo una passeggiata?-
Annuii e lasciai cadere la bambola nell'erba. C'incamminammo fianco a fianco lungo uno dei sentieri con i sassolini bianchi. Le nostre dita si sfiorarono, ma nessuno dei due cercò di aggrapparsi all'altro.
-Tim è in ospedale, le sue condizioni sono gravi- mi spiegò.
Io annuii. Non sapevo cosa pensare. Jane era scomparsa la sera stessa in cui Tim mi aveva rapita. A volte mi chiedevo se era a conoscenza di qualcosa che noi ancora non sapevamo. Sospirai. Mi sembrava ancora tutto così irreale...
-Ora che il colpevole è stato preso le fanciulle potranno dormire sonni tranquilli- dichiarò.
-E gli omicidi più vecchi? Quelli di quando eravamo piccoli?- domandai.
-Non saprei... di certo il colpevole non può essere Tim- distolse lo sguardo. C'era qualcosa che non andava, era chiaro.
-Ehm... tutto bene?-
-Parto- disse, la voce gelida come ghiaccio.
La parola risultò dura come un insulto. -Dove vai?- chiesi, incredula.
-Londra... i miei quadri hanno riscosso un certo interesse- mormorò e poi continuò. Frasi, parole, esclamazioni senza senso.
-Londra... è lontana- commentai. Troppo lontana. Cos'aveva in mente?
-Lo so-
-Quando torni?- chiesi piano.
-Non lo so-
E compresi, tutto fu chiaro. Non andava a Londra per i quadri, lo faceva per mettere più spazio possibile tra me e lui. -Sei un codardo- gli gettai in faccia. Volevo ferirlo, volevo che stesse male come me. La mia voce tremava e le ginocchia minacciavano di cedere da un momento all'altro, ma una strana forza mi percorreva completamente, come un fuoco al centro della mia anima.
Algol si fermò, i pugni contratti. Vidi i muscoli delle braccia tendersi. Era nervoso, forse arrabbiato. Serrai le labbra. Dovevo riconoscere che era affascinante anche così, con la furia che gli percorreva il corpo, che lo tendeva, che lo sfigurava.
-Codardo- gemetti ancora. Avrei voluto affondare le unghie nel suo bellissimo viso fino a vedere comparire delle linee insanguinate sulla sua pelle candida. Volevo che lui soffrisse come me.
-Te lo avevo detto!- urlò lui e tutto tremò, come una tempesta. –Ti avevo avvisata: mai innamorarti di uno come me, sono solo capace di fare tutto a cocci-
-Tu non c'entri nulla se tuo fratello... -
-Sì, invece... - sospirò tristemente. La rabbia esplose come una bolla di sapone. Un velo di malinconia lo avvolse.
-No- avanzai. Dovevo lottare contro l'urgenza di toccarlo, di sfiorargli quel viso marmoreo, così simile a quello di una statua. Mi fermai solo quando fui a un passo da lui, talmente vicina che avrei davvero potuto sfiorarlo. Mi costrinsi a non farlo, a resistere.
Lui alzò lentamente la testa e il suo sguardo si puntò su di me. Occhi viola che parevano bruciarmi l'anima.
-Ti ho detto che ti avrei accettato in qualsiasi caso- dissi, appigliandomi disperatamente alla speranza –io continuo ad amarti... è per sempre, a qualsiasi condizione... io ti amo- la mia voce vibrò decisa.
Algol mi scrutò con attenzione, poi balzò in avanti e, senza una parola, mi strinse a sé. Io affondai nel suo abbraccio, arresa, e lui mi baciò le labbra che sapevano di lacrime e mascara, rossetto e dolore. Mi ritrovai a pensare, quasi confusamente, che tutto il rossetto rosso che mi ero messa sarebbe finito sulle sue labbra, come un segno che tra noi due c'era qualcosa. Sentii gli occhi bruciarmi per le lacrime. Eravamo sbagliati.
-Quelli come me non sono fatti per l'amore- sussurrò, allontanandosi appena. Oh no! Non l'avrei lasciato allontanarsi!
Lo baciai come se non potessi fare altro, come se il mondo intero dipendesse da quel momento da quel bacio senza speranza. Ci misi dentro tutta la furia, tutto il dolore, tutta la logorante disperazione che mi vibrava nel cuore per un amore nato sotto stelle avverse. Aveva ragione lui, forse, non avrei dovuto innamorarmi di un essere capace di strapparti l'anima con uno sguardo e di lasciarti vuota. Io però avevo amato la tempesta e ora non potevo più farci nulla.
Noi eravamo tazzine sbeccate, il primo giorno di sole dopo un mese di piogge, un addio alla stazione, una fotografia sfocata, cocci di stelle. Eravamo luce e ombra. Nebbia. Un tramonto infuocato. Attese disperate. Notti insonni. Eravamo bambole rotte... però eravamo insieme, il resto era solo un mucchio di cenere.
Sapevo che dovevo interrompere il bacio, ma non ci riuscivo. Era più forte di me. Ero follemente certa che il cuore mi si sarebbe spaccato in due se avessi smesso di premere le mie labbra contro le sue. Compresi, con sorpresa, che l'amore distrugge, fa a pezzi, graffia, riduce il cuore a cocci. Ci castiga per qualche colpa che neppure conoscevo. Non ero abituata a quello. A un amore che sapeva di lacrime e mascara, di tracce di rossetto, di disperazione logorante. Perché era così diverso da quello delle fiabe? L'amore vero è una febbre, brucia, arde, incenerisce. L'amore azzanna. Peccato che solo l'amore ti permette di vivere e di sfiorare l'eternità. L'amore è sia un bambino capriccioso che si crede eterno, sia un mostro che distrugge tutto ciò in cui s'imbatte. Senza amore però la vita è senza senso.
NOTE DELL'AUTRICE:
Ciao!
Ci stiamo avvicinando alla fine!
A presto
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