49. OSSERVARE LE STELLE
La musica era assordante. Algol imprecò e si fermò a pochi metri da casa, facendomi fare lo stesso.
-Passiamo dall'ingresso sul retro- decise, ma rimase ancora fermo dov'era.
Seguii il suo sguardo che accarezzava le mura del maniero. Mi ritrovai a pensare che in lui ci fosse qualcosa di diverso, di estraneo... lui non apparteneva al mondo, lui era diverso. Lo sarebbe sempre stato. E io ero proprio come lui. Sempre al posto sbagliato, perfino ora che avevo trovato la mia strada.
-Speriamo che non mi demoliscano casa- commentò Algol, cominciando a guidarmi verso il retro -ci mancherebbe solamente questo-
-Andiamo a salutare Penny- mormorai, entrando dietro di lui da una porta di legno scuro.
-Penny? Sei certa di volerla salutare? È piuttosto insopportabile-
-Con te- gli feci notare.
-Sì, con me... andiamo- decise.
Penny se ne stava seduta sui gradini delle scale, l'espressione imbronciata di chi assiste alla propria festa senza riuscirvi a partecipare. L'osservai di nascosto, accarezzandole il viso con lo sguardo, alla ricerca di quei segni che ne facevano la sorella di Algol. Aveva i capelli neri come i suoi e la pelle bianchissima, ma le somiglianze finivano qua. I lineamenti di Penny erano più fini, femminili. La sua struttura era minuta, le curve riempivano il vestito viola di tulle. Se ne stava lì, con i gomiti puntati sulle ginocchia. Mi avvicinai.
-Auguri!- esordii, la voce carica d'imbarazzo. Okay, non ero mai stata molto brava a trattare con gli altri.
Penny mi gettò le braccia al collo, un movimento fluido che mi riscaldò il cuore. Era bello sapere che ero importante per lei. -Grazie per essere venuta!-
-Grazie a te- replicai, cingendole la vita con le braccia.
-Su, Penny, ora dobbiamo andare- disse Algol. Chiaramente quella scena lo infastidiva. Lui era ombra, compresi, non poteva apprezzare un simile momento.
Ci salutammo, quindi Penny scese le scale due a due.
E ora c'eravamo solo io ed Algol fermi lì, ora che ogni maschera era finalmente caduta e ci potevamo guardare per chi eravamo veramente. Due persone che provavano dei sentimenti che spaccavano il cuore, che immobilizzavano il tempo, che scuotevano l'anima. Lottai contro il desiderio di buttarmi immediatamente tra le sue braccia e sommergerlo di baci. Beh, dovevo aspettare almeno un po'.
Esitai, il cuore che tuonava nel petto, una sensazione di panico che mi premeva la gola, rendendomi difficile respirare, figuriamoci parlare. Abbassai lo sguardo, seguendo le linee del pavimento di legno. Piccoli quadrati di parquet.
-Beh, hai qualche proposta per questa serata che si promette essere epica?- la voce di Algol, bassa e sensuale, era come una carezza sul mio corpo.
-Non saprei- mormorai. La musica proveniente dal piano di sotto era forte, eppure non mi dava fastidio. Nulla mi dava fastidio quando ero così vicino ad Algol, quando la sua presenza riempiva tutta la stanza.
-Io invece ho un paio d'idee- il pavimento scricchiolò e i miei occhi incontrarono la punta delle sue scarpe. Converse blu. Un attimo dopo le sue dita sfiorarono il mio mento, tracciando dei cerchi brucianti sulla mia pelle. Lasciai che mi sollevasse il viso, lentamente e con delicatezza. Come se fossi una bambola di porcellana, una di quelle meravigliose bambole con gli abiti ottocenteschi che mia madre adorava. Io però non ero una di quelle bambole. No, ero più simile a una bambola rotta, che nascondeva sotto il vestito delle crepe che non avrebbero potuto essere riparate. Il respiro di Algol solleticò la mia guancia, facendomi avvampare. No, non potevo arrossire. I miei occhi sfiorarono le sue labbra, rosse e carnose. Labbra da baciare e da mordere come gomma da masticare. -Guardami, Cenerentola- m'invitò, la voce dolce, quella dell'Algol che avevo imparato ad amare.
-E se non volessi?- lo sfidai, continuando a fissare quella bocca che prometteva di portarmi in altri mondi.
-Lo sai che sono insistente-
-Che bocca grande che hai- mi uscì dalle labbra. Solo un soffio, ma lui lo sentì. Algol, in fondo, sentiva sempre tutto.
-Per baciarti meglio- rispose, quindi guidò il mio viso verso il suo.
Accolsi le sue labbra nelle mie, lasciai che la sua lingua danzasse con la mia.
Quando ci staccammo stavo tremando. Non c'era una sola parte del mio corpo che non fosse mossa da un fremito.
-Vieni, ti porto a vedere una cosa- disse Algol, prendendo la mia mano nella sua, calda e un po' ruvida.
-Nella tana del lupo?- lo presi in giro, lasciandomi guidare. Ero ancora scossa dal suo bacio. Perché non riuscivo ad abituarmi a lui? Perché ogni volta era come se mi scavasse l'anima? Non lo sapevo, ma forse la magia stava proprio in quello.
-Sei già dentro la tana del lupo e non mi sembra che ti dispiaccia- mi rimbeccò lui.
Soffocai un sorriso, quindi lo seguii, le gambe che si muovevano da sole, come se stessero seguendo il pifferaio magico, che con la sua musica irretiva le menti. Uscimmo dalla stanza e imboccammo il corridoio. Mi sembrava di percorrere oscuri sentieri, luoghi incantati. Ero nella casa che avevo immaginato per anni, dove il Principe delle Ombre aveva vissuto e aveva amato. Quello era un luogo speciale. Non potevo fare altro che seguire il lupo... il mio principe oscuro, nel suo palazzo. Salii i gradini di una lunghissima rampa. Un passo per volta, gli scalini che scricchiolavano sotto il mio peso. E poi all'improvviso di fronte a me apparve. Mi fermai, non riuscendo a procedere, un senso di serenità e incredulità che mi avvolgeva. Algol si voltò verso di me, immobilizzandosi. I suoi occhi agganciarono i miei e, per un istante o forse per un secolo -con Algol il tempo perdeva sempre il senso-, mi persi nel suo mondo, in un regno di ombre e luci.
-Ti piace?- mi chiese infine, un ciuffo nero che gli ricadeva sull'angolo dell'occhio.
Mi costrinsi a riportare lo sguardo sullo spettacolo alle sue spalle. Dire che era bellissimo, beh, sarebbe stato riduttivo. Lucine dai mille colori brillavano in un mare buio, coperte da un manto di stelle.
Algol sghignazzò, quindi non attese la mia risposta, ma aprì la porta a vetri, non lasciandomi la mano. Le sue dita premevano la mia pelle, come se fossi la cosa più importante al mondo. Una ventata d'aria fresca entrò e mi accarezzò i capelli. L'aria della notte profumava di promesse. Lasciai che Algol mi conducesse fuori.
-Non c'è posto che preferisca quando voglio essere lasciato in pace- chiuse dietro di sé la porta, così il rumore della musica risultò più attutito.
Lasciai scivolare lo sguardo intorno a me. Ci trovavamo su un terrazzo ricoperto da piastrelle rosse che brillavano alla luce della luna. La ringhiera era in ferro battuto bianca, con lampioncini che si allungavano sopra di essa, illuminando ciò che avevano intorno con il loro soffice luccichio.
-Che ne dici di sederci?-
-Nella tana del lupo ci sono anche i posti da sedere?- chiesi ironica, cercando di dissimulare l'ansia che mi faceva girare la testa. Stare da sola con Algol mi faceva provare sensazioni opposte.
-Certo che c'è da sedersi!- mi tirò con sé fino a un divanetto di vimini con cuscini color panna -Eccolo qua, che te ne pare?-
-Bah, può andare- dichiarai, lasciandomi cadere su di esso.
Algol m'imitò, un sorriso felino sulle labbra. Sentii il suo calore irradiarsi verso di me. -Un cielo che lascia senza parole- commentò, buttando la testa indietro. Potei vedere la sua gola bianca, percorsa dalle vene azzurre. Deglutii, ignorando il desiderio di sfiorare quella pelle delicata ed esposta con un bacio. Perché con Algol era sempre la stessa storia? Perché era quasi impossibile ignorare quelle sensazioni e quei desideri senza nome che m'invadevano? Algol infestava la mia mente, proprio come un fantasma avrebbe infestato una casa.
-Le stelle si vedono benissimo stasera- dichiarò -c'è perfino lei-
Sapevo a quale si riferisse. A lei, la sua omonima. Algol.
-Portatrice di disgrazia- fece una smorfia -puoi dare a un figlio il nome di una stella che porta sventura?- la frase, detta con tono leggero, era in realtà d'accusa.
-Algol è un bel nome- dissi. Ero sincera. E poi Algol era lui... la mia ossessione.
-Originale, non bello- scosse la testa, quindi la sua mano lasciò la mia e s'infilò tra lo schienale e la mia vita. Lasciai che le sue dita mi sfiorassero, godendomi quella sensazione delicata. Era bello stare insieme ad Algol, mi permetteva di dimenticare tutto tranne noi due. -La conoscevano già gli Egizi-
-Una storia antica-
-Molto antica- rispose -conosci la leggenda di Perseo e della Medusa?- mi domandò, poi, senza lasciarmi il tempo di replicare continuò -Perseo uccise la Medusa, come ogni bravo eroe, quindi gli fu dedicata una costellazione... è nella sua costellazione che si trova Algol, che rappresenta la Medusa- una risatina gli sfuggì dalle labbra, simile a una cascata -la stella di un mostro che si trova nella costellazione di un eroe, buffo, no?-
Soppesai con attenzione quelle parole, certa che Algol mi stesse mostrando, volontariamente o no, una parte di sé. Si sentiva quindi così? Metà eroe e metà mostro?
-Altra cosa molto divertente, Perseo cavalcava il mitico cavallo alato Pegaso, io cavalco la mia moto... è una strana similitudine, non credi?-
-Molto- ammisi -però il tuo ragionamento non è corretto-
Algol piegò la testa di lato, in modo tale che i suoi occhi potessero scrutarmi. La sua espressione era indecifrabile, con i lineamenti eleganti rilassati. -Vai avanti- disse.
-Tu non sei la Medusa- e nello stesso istante in cui le parole mi uscirono dalle labbra mi resi conto che stavo mentendo. Lui era la Medusa, lui t'immobilizzava con il suo sguardo, trasformava il tuo corpo in pietra.
-Bugiarda- scandì bene la parola, quasi come se temesse che non capissi.
-Non è gentile che tu mi dica così- protestai con un filo di voce.
-Non sono gentile, lo sai bene- la sua mano risalì, fino ad accarezzarmi i capelli -io sono un mostro, Sher, la domanda è: Cappuccetto Rosso è disposta ad accettare il lupo? Oppure preferiresti essere Cenerentola che cerca il proprio Principe Azzurro? Perché il mio colore è il nero, non l'azzurro-
Lo fissai, reggendo quello guardo che mi scavava dentro, che mi straziava il cuore. -Nessuno ha mai detto che il Principe Azzurro non avesse un cuore nero... io accetto il lupo- la mia voce rompeva la calma della notte.
-Ne sei sicura?-
-Sì... Cenerentola e il lupo... sai che coppia?-
Le sue labbra si piegarono in un ghigno e per un attimo mi parve che fossero davvero le fauci di un lupo. -Niente Cappuccetto Rosso?-
-Ehi, vivevo in una soffitta, facevo la sguattera per la mia matrigna e le mie sorellastre, mi aspetta per forza il titolo di Cenerentola, non pensi?-
-Ti aspetta di diritto un principe... o per meglio dire il lupo- le sue dita risalirono a sfiorarmi la guancia. Carezze che bruciavano. Le migliori. E poi la sua mano s'infilò nel mio abito, sfiorando la mia schiena e lui le sentì, lo compresi dal suo sguardo. Le cicatrici. Mi fissò, come se fosse indeciso su cosa fare. Io distolsi lo sguardo.
-Lo sai che puoi dirmi tutto- mormorò.
E io raccontai. Gli parlai delle punizioni di Megan, di come mio padre avesse sempre ignorato tutto o finto di non sapere, di come mi chiudessi in soffitta, in lacrime. Il mio orribile dolore. Quando ebbi finito tremavo. Algol non parlò. Era pallido.
-Ti difenderò io- sussurrò piano.
Io rimasi in silenzio, poi lo strinsi a me. Lo amavo. Lo avrei amato per sempre. La cosa mi spaventava e mi rendeva euforica. Avrei dovuto accettare le contraddizioni, con lui era così.
NOTE DELL'AUTRICE:
Ciao!
Cosa ne pensate di questo capitolo?
A presto
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