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𝟓 - 𝕬𝖒𝖆𝖇𝖎𝖑𝖊 𝖎𝖓𝖋𝖆𝖗𝖙𝖔 -

🌕 𝕽𝖞𝖆𝖓 🌕

Guardo il sole avviarsi all'uscita come un vecchio rivale. E con il calar della sera finalmente posso rilassarmi davvero.

Almeno per modo di dire, perché qui accanto a me c'è una pentola a pressione che balla sui fornelli.
È esattamente questa l'idea che mi dà Stefan.

Se non batte il piede a terra, sta picchiettando le dita sul bordo dello sportello, oppure si sta torturando le unghie con i denti.
Oppure sbuffa.
Mugugna.
Schiocca la lingua sul palato.

È una corsa continua.
Scappa costantemente da qualcosa, come se sapesse che fermarsi anche solo per un attimo gli costerà la vita.
È estenuante solo a guardarlo.

Eppure mi arriva.
Mi trasmette tutto il suo marasma come avessimo attivato il bluetooth. Come se fosse anche un po' il mio.
E l'unico motivo per cui non gli ho ancora risposto male, oltre per la mia infinita pazienza, è che lo sento vero.

Quando arriviamo a casa, nello spiazzo sterrato vedo parcheggiata una macchina che prima non c'era.
Non ho dubbi sul fatto che debba trattarsi di quella del signor Pembroke. La carrozzeria perfettamente lucidata non lascia spazio ai dubbi.

Appena scendiamo dall'auto, infatti, il portone si apre e nel rettangolo di luce calda si staglia il profilo netto di un uomo che allarga le braccia per darci il benvenuto.

Edmund Pembroke ha imposto i suoi colori ai figli.
Capelli neri, occhi morti. Il suo seme ha schiacciato la genetica della signora Pembroke, e già soltanto per questo mi fa intuire quanto sia padrone di questo piccolo mondo.

Mi sento obbligato a tirare su il mento e drizzare le spalle. A convincerlo che valgo qualcosa. Che sono abbastanza. Perché ho l'impressione che il suo pollice rivolto verso il basso possa decretare la mia fine come nell'antica Roma.

«Signor Pembroke.» tendo la mano di fronte a me pregustando quanto la stretta di quest'uomo possa essere salda.
Il suo mezzo sorriso è una faccia da poker che mi impedisce di carpire le sue prime impressioni.
«Riposo, soldato.» per un istante obbedisco davvero a questo comando, ma capisco che mi sta prendendo in giro quando mi dà una poderosa pacca sulla spalla.
«Chiamami soltanto Edmund, d'accordo?»

Sgonfio il petto.

Con la coda dell'occhio vedo Stefan passarmi di fianco e tentare di superarlo.
Non so perché, ma sembra più basso di dieci centimetri.
Se ne sta chiuso nelle spalle come se volesse occupare meno spazio possibile.
La mano di Edmund lo intercetta prima che possa fuggire dal suo raggio d'azione, e si posa sui suoi capelli neri spettinandoli appena.

Stefan abbassa la testa come un gatto che non vuole essere toccato, e nonostante quella carezza mi sembri così familiare, è evidentemente un gesto a cui il ragazzino non è abituato.
«Tutto a posto?» gli domanda suo padre con un tono che sembra piombo.
«Sissignore.»

Sissignore.
Io ho il permesso di chiamare quest'uomo per nome, e suo figlio gli dice "sissignore."

Non mi serve altro per capire. E l'unica versione di questa storia che mi incuriosisce è proprio quella di Stefan.

Vorrei, nei giorni futuri, arrivare al punto da poterlo prendere per le spalle e domandargli perché queste tre persone sembrano lupi vestiti da pecore, e lui l'unica vera pecora, ma vestita da lupo.
Non so se ci riuscirò mai.

Per la cena la disposizione della tavola è cambiata, comunque. Evidentemente la presenza di questo padre sposta l'ago della bilancia per tutti, qui dentro. Infatti lui è a capotavola. Da un lato ci sono la signora Pembroke e Lilah, e io mi ritrovo a fianco a Stefan sull'altro versante.

Lui non ha detto neanche una parola.
Si è mosso soltanto per portarsi la forchetta alla bocca.
Fa impressione.

«Ho pensato a qualcosa per voi.»

Edmund Pembroke si tampona le labbra con il tovagliolo, si prende tutto il tempo del mondo per mandare giù un sorso di vino e ci lascia appesi alle sue parole.
Poi con le spalle si torce leggermente da questa parte.
«Vorrei vi occupaste voi due di riparare la vecchia barca. Vi terrà impegnati.»

Lilah mi guarda e accenna un sorriso, mi ricorda silenziosamente il discorso che mi ha fatto in macchina.

Impiego circa un secondo a registrare quell'informazione e classificarla come un'opportunità. Non so assolutamente niente di barche, ma perché no?

«Certo!» annuisco più forte che posso.
«No.»

Stefan posa la forchetta facendola tintinnare e per la prima volta guarda negli occhi suo padre.
La sua voce ha una risolutezza che manderebbe in frantumi qualsiasi rosea speranza che credevo di potermi creare.

Questo tipo non ne vuole sapere di me.
Non sento di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma il suo rifiuto nei miei confronti è categorico.

Thérèse si schiarisce la voce, pronta a mettere pace come ogni madre.
«Tesoro, sarebbe scortese lasciare Ryan da solo. È nostro ospite.» il suo tono è carezzevole, ma temo non servirà a niente.
Stefan, infatti, schiaccia la schiena contro la sedia e incrocia le braccia.
«Se vuole farlo da solo è un suo problema.»

Adesso lo riconosco.
Anche se io non lo conosco per niente.

Mi metto a giocherellare con quello che resta nel mio piatto.
Nel tentativo di infilzare una patata arrosto la forchetta scivola e stride sulla ceramica, graffiando il silenzio che si era creato.
La poso e sto fermo.

«Perché non ti prendi un giorno per pensarci?» gli chiede di nuovo lei.
«Pensateci voi.»

In un attimo sono dentro un dramma familiare che non mi compete, e mi sento un intruso. Qualcosa di troppo, come lo stridio della forchetta sul piatto.

Stefan alza un muro insormontabile, e ogni proposta che viene avanzata da qui in poi è un portone che si diverte a sbattere in faccia a tutti.

Sono io il problema? Se al posto mio ci fosse stato quel Declan, avrebbe accettato?
Immagino di sì.
E do la colpa a quel bambino solo dentro di me che come un cane troppo giocherellone mi fa desiderare di stringere amicizia con tutti.

E anche adesso un ragazzino mi rifiuta. Come mille altri ragazzini che non mi hanno mai scelto per entrare nella loro squadra.

Finisco di cenare con questo nodo alla gola che non ha senso di esistere, ma che la mia testa ingrandisce sempre di più.

Con una scusa esco in giardino per prendere una boccata d'aria e appena sono fuori e scendo queste scale mi rendo conto di quanto sia tutto estraneo.

Questo posto mi rende piccolo e mi fa sparire nella sua mole.
Non parlo solo della grande casa e dell'immenso giardino, ma del vissuto di queste persone.

Non sono venuto qui per una cena. Se così fosse, sarebbe stato facile. Sarei tornato a casa pensando di aver conosciuto gli splendidi genitori di Lilah e il gemello un po' strano.

Ma io sono venuto qui per rimanere. E in questa eventualità si sono comportati tutti come fanno sempre, immagino. Mi hanno rivelato da subito la loro intimità.
Quello che non sanno, però, è che nella mia testa io sto componendo equazioni difficili per arrivare a un risultato.

Ogni loro gesto, ogni parola, corrisponde a una domanda: voglio entrare a far parte di questa famiglia? Voglio pensare a un futuro dove avrò a che fare con loro?

Thérèse è stata deliziosa con me. Ho adorato le nostre chiacchiere, oggi. Edmund tutto sommato ha pensato a qualcosa che potesse impegnarmi e non farmi annoiare, oltre ad avermi accolto qui senza farmi pesare niente.
E io sono infinitamente grato a entrambi.

Ma mi sento un ladro. Mi sento di rubare momenti troppo personali. Faccende di cui non dovrei saperne.
È questo che voglio rispettare, soprattutto in virtù del fatto che non so se amo ancora Lilah.

Ho intenzione di lasciarla?

L'odore del lago scaldato dal sole durante il giorno sembra alzarsi adesso dal suo letto. Ed è un odore così caratteristico che non lo trovo in nessun archivio della mia testa.
Non mi dispiace.

«Il lago sospira un vento gelido di notte, non trovate signor Parker?»
Sussulto.

Neanche mi sono accorto di tremare.
L'umidità di questo luogo entra nelle ossa anche d'estate.
«Eppure è il posto che più si addice alle riflessioni profonde. Dunque ho pensato di portarvi una giacca.»
Il maggiordomo scende le scale con passo leggermente scostante, ma vanta comunque un portamento di tutto rispetto.

Stacco la schiena dalla balaustra dove sono poggiato, qui sugli ultimi gradini, per andargli incontro.
Con un sorriso che gli disegna in faccia un centinaio di rughe in più, il vecchio mi aiuta a infilare questo soprabito nero di foggia sartoriale.

Non è affatto della mia misura, ma aiuta a tenere lontane le zaffate fredde che provengono dall'acqua.
Il colletto emana un profumo molto debole, ma zuccherino.

«È del signorino Stefan.» mi chiarisce, come se mi avesse letto nella mente.

Alla fine ho davvero indossato le cose del fratello di Lilah.

«So cosa state pensando.» continua lui, «Quando ho iniziato a lavorare per questa famiglia avevo qualche anno più di voi, e ho pensato la stessa cosa.»
«Puoi darmi del tu? Per favore.» lo blocco subito e prego di non risultare scortese. Ma a continuare con il voi proprio non ci riesco.
Lui china la testa e mi dà una leggera pacca sulla spalla.

«Questa famiglia può far paura, ma quale famiglia non lo fa?»
Ci rifletto un po' su e la testa mi riporta alla prima volta che Lilah è entrata in casa mia.
Era tesissima e spaventata come non l'ho mai vista per nessun compito in classe.

Invece ricordo quanto fossi felice io.
Immagino sia così anche per lei.

Forse devo solo darmi tempo.

«L'impatto è forte.» gli dico dopo un po', ridacchiando in modo palesemente isterico.
«Le prime volte che la signora Pembroke è stata qui mi ha detto esattamente la stessa cosa.» adesso ride anche lui, «Ti assicuro che i genitori di Edmund erano molto peggio.»
Per certi versi la notizia mi rincuora.

«Però non c'era Stefan.»
«Oh» Preminger sorride con lo sguardo perso nel bosco di fronte a noi, e se mi concentro abbastanza posso vedere i ricordi scandirsi nei suoi occhi, «in realtà uno Stefan c'era. Da chi credi abbia preso quel caratterino?»

Mi viene da ridere e non mi trattengo.
Non riesco a immaginarmi il signor Pembroke con il temperamento di Stefan, eppure ora che lo ha detto mi sembra ovvio.

Una differenza c'è, però, e si para davanti ai miei occhi quando per sbaglio guardo in alto, verso quella che ho capito essere la finestra della camera di Stefan.

C'è la luce bluastra tipica dei televisori a illuminare l'interno della stanza, e lui è li. In piedi davanti al vetro che mi scruta.
Ci guardiamo per meno di un secondo, poi tira di scatto la tenda e mi chiude fuori. Per la centocinquantesima volta solo oggi.

Edmund amava la signora Pembroke, quando lei è arrivata qui.
Stefan, invece, sembra odiarmi. Ecco la differenza.

Ma questo lo tengo per me.

🌕🌕🌕

Sputo il dentifricio in questo lavandino di marmo bianco e mi sciacquo la bocca.
Mi libero delle lenti a contatto pizzicandole via e il mondo torna ad avere quella patina sfocata a cui ormai ho fatto l'abitudine.

Quando esco dal bagno ed entro in camera, Lilah si mette a sedere. È per metà infilata sotto le coperte e ha addosso una maglietta bianca larga che le scende su una spalla.

«Ti sei spaventato, vero?» fa una smorfia preoccupata.
Richiudo la porta e le sorrido. È inutile mentire, ha avuto modo di vederlo.
«Soltanto un po'.»
Anche se lo dico ridendo, lei inclina le sopracciglia e si spalma una mano in faccia.

Corro ai ripari.
«Ehi», la raggiungo sul letto e le prendo il viso tra le mani, «abbiamo bisogno solo di un po' di tempo, ma ci farò l'abitudine, vedrai.»
Lilah sospira appendendosi con le mani ai miei polsi. Mi guarda negli occhi con quell'espressione languida che fa quando cerca sicurezza.

Non sono mai stato avido, in questo. Non ho mancato una sola volta di darle sostegno o forza. Anche adesso che forse servirebbe a me.
«Oggi Stefan ha dato il meglio di sé.» ammette, e un certo rossore le ravviva le guance.
«Sono certo farà molto peggio!»
Lei ride. Sa benissimo che ho centrato il punto, e anche io purtroppo lo so.

Respiro a fondo il suo odore. Un odore di cui è impregnata tutta la stanza e che mi riporta a casa.
Adesso con le dita infilate tra i suoi capelli le gratto la nuca. Quando lo faccio si rilassa sempre.

Mugola piano e questo verso va a toccare i punti giusti del mio cervello in panne.
Il sangue inizia a farsi più denso e veloce nei miei vasi.
Più caldo.

Il suo profumo diventa un richiamo familiare, il suo tepore si fa invitante e quella parte di me ancora profondamente legata a lei, scalpita di desiderio.

«Dove eravamo rimasti?» le tiro su il mento con le dita e lei trattiene un risolino mordendosi le labbra.
Un attimo dopo entriamo in collisione. La spingo con tutto il mio peso tra i cuscini e la ritrovo, come oggi, a gambe aperte contro di me.

Di diverso c'è che prima ero a casa mia e lei era qualcosa di estraneo che stonava. Ora invece sono in un posto nuovo e lei è l'unica cosa che conosco davvero.

Mi aggrappo a questo rimasuglio di sentimento e tiro forte, sperando che mi riporti in superficie dal pantano dove mi sono arenato.

Non ci vuole niente a farla mia, e non ci vuole niente neanche a godere.
Dio, se godo.
Dopo dieci giorni mi sembra di toccare un apice diverso a ogni spinta.

Lei sa come muoversi per stimolarmi e io so dove puntare per farle alzare la voce. Amo i versi che fa.
Amo come inarca la schiena. Si lecca le labbra e mugola come se avesse davanti il buffet dei dolci, e lo adoro.

Si adatta al mio corpo come se ormai ne avesse preso l'impronta, e quando siamo incastrati così mi ricordo perché abbiamo cominciato a farlo.

Amo anche come ricalca con le dita aperte ogni mio muscolo, perché le piace guardarli guizzare sotto la pelle.
E amo che la principessina di casa faccia la puttana, con me. Le cose sporche che mi dice all'orecchio fanno ancora il loro lavoro.

Cazzo, amo un sacco di cose. Ma ancora non capisco se amo lei.

Sto per venire e nascondo il viso contro il suo collo.
Lo lecco e lo mordo per darmi un ultimo stimolo.
Mentre mi tiro su per baciarla e lasciarmi andare, mi accorgo che ha i capelli sfatti davanti al viso. La bocca spalancata, la punta del naso rossa.
Gli occhi a mezz'asta.

È un attimo.
Non mi sono per niente abituato a tutta questa somiglianza, e forse non lo farò mai.
Ma, dannazione, Lilah fa un'espressione che oggi ho visto sulla faccia di quella iena di suo fratello.
E adesso mi sembra lui.
Mi prende un colpo.

Questo maledetto orgasmo ha il sapore di un infarto.

Vengo, e mi sembra la cosa più sbagliata del mondo.

𝕾𝖕𝖆𝖟𝖎𝖔 𝕬𝖚𝖙𝖗𝖎𝖈𝖊

Buongiorno, cuori! 💞

Ahi ahi ahi, Ryan. Marchiamo male! 🆘🚑
Qualcuno dovrebbe insegnargli a fermarsi🚦⛔ e chiarirsi le idee, prima di fare danni irreparabili 😩

Ma si sa, i sentimenti sono complicati da gestire e non hanno libretti per le istruzioni!📃🔍
Voi non vi siete mai trovati in una condizione simile? Io assolutamente sì!✋🏼👀

Chissà se questa storia della barca ⛵ potrà davvero permettergli di passare del tempo con Stefan e schiarirsi le idee!

Secondo voi come andrà? Vi aspetto nelle domande anonime su IG per parlarne insieme! 📢💬

Per ora vi saluto 👋🏼💫 e vi do appuntamento a venerdì sempre alle 17:00 per il sesto capitolo! Vi do anche un grosso bacio 🥰💋

Xò 🌼

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