27. Ti prego, dimmi di no
Il taxi si ferma sul ciglio della strada, in una posizione non troppo comoda per scendere. La macchina di Henry è già lì.
Ringrazio il tassista, pago – alla faccia, che prezzo! – ed esco. Il taxi riparte mezzo secondo dopo. Grazie, eh, signor tassista! Proprio non vedevi l'ora di liberarti di me. Ora che ci penso, forse nel costo della corsa è inclusa una sovratassa per la sopportazione dell'odore di alcool. Devo puzzare come se fossi caduta in una distilleria. Di questo passo, se mi fossi fatta lasciare a casa, non avrei avuto abbastanza soldi con me per saldare il debito.
Benedetto Henry, mi salvi sempre la vita!
Apro la portiera. Lui mi guarda, allungando appena il collo verso di me.
«Allora sei viva!»
Mi infilo in macchina. «Credo di sì.»
«Mi hai fatto stare in pensiero.»
«Scusami. Mi dispiace di averti fatto venire fin qua in piena notte.»
Henry alza le spalle. «Tanto non dormivo. Ero sceso a farmi una birra.»
«Credo che dovrò offrirtene almeno cinque, una di queste sere.»
La macchina parte, sbuffando. «Allora, che cosa è successo?»
Eccole lì. Le lacrime, tanto trattenute. Cominciano a scendermi a fiotti, ora che mi sento al sicuro e posso abbassare le mie barriere.
Henry ferma l'auto dopo poche centinaia di metri. «Ehi...»
Si slaccia la cintura di sicurezza, si sporge verso di me, mi abbraccia. Mi lascio cullare dalla sua stretta, mentre pian piano mi calmo.
«Non voglio vedere più nessuno» gli dico. «Mai più.»
«Ti hanno fatto del male?»
«Non... non proprio. Quasi. Non lo so.»
Tremo. Tremo come se avessi l'inverno nel petto.
Henry mi guarda negli occhi. Studia il mio viso, si sofferma sulle mie pupille. Una strana espressione gli compare sul volto, un gelo che dev'essere simile a quello che provo io.
«L'hai fatto, non è vero?»
La sua voce è un sussurro.
«Dimmi di no, Christine. Ti prego, dimmi di no.»
«L'ho fatto.»
Gliel'ho detto. Secco, rapido. Fa male, ma mentire non servirà a niente.
Lui resta in silenzio. Serra le palpebre e abbassa appena la testa, le mani che stringono il volante. Senza una parola, rimette in moto la macchina e torna verso casa.
Mi sento una stronza. Una bambina viziata.
«Henry...» provo a dirgli dopo un po', ma lui mi interrompe.
«Non voglio parlarne. Non adesso.»
Lo guardo. La delusione che sta cercando di trattenere dentro di sé è evidente: trasuda da ogni fibra del suo essere, così come il dolore che si riflette nei suoi occhi puntati sulla strada.
Il silenzio è atroce. Ho una gran necessità di parlare, di conversare, di dar voce alle mille parole che mi ronzano in testa, ma resto zitta, rispettando il suo bisogno di pace.
Questi cinquanta minuti durano un'eternità. Una tortura.
Henry mi lascia sotto casa. «Cerca di dormire» mi dice, freddo.
Faccio cenno di sì con la testa. «Vuoi salire?»
«Sono stanco.»
«Resta ancora un po', ti prego.»
Lui mi guarda negli occhi, due pozzi neri di dolore. «No, Christine.»
Lo ringrazio per il passaggio, gli offro dei soldi per la benzina, che lui rifiuta. Lo saluto. Poi salgo a casa, sola.
Mi sento così vuota. Ho i battiti accelerati, la gola secca, la testa piena di sciocche frasi che non potrò dire a nessuno.
Henry se n'è andato.
Domenica 23 giugno
Dopo una notte di sonno pesante, mi sento peggio di prima.
Sono debole e fiacca come se avessi lavorato senza interruzioni per un'intera settimana, gli occhi mi bruciano e non ho voglia di far niente.
Sul mio cellulare ci sono sette chiamate perse di Vincent. L'ultima è di un'ora fa.
«Sto bene. Sono a casa» gli scrivo. Non ho voglia di parlare. Non ci riesco.
A mezzogiorno sono ancora a letto, immobile, gli occhi puntati sul soffitto.
Henry. Henry se n'è andato.
Non riesco a pensare ad altro.
Non l'avevo mai visto così distaccato. Neanche quando eravamo solo due colleghi quasi del tutto sconosciuti. Guardo il telefono ogni due minuti, sperando che mi chiami o che mi scriva qualcosa, ma tutto tace.
Se solo non ci fossi andata, in quello stupido hotel. Se solo fossi rimasta a casa.
Ho rovinato tutto. Ho rovinato l'illusione che quello con Vincent potesse essere un rapporto felice. Ho rovinato una bellissima amicizia. Ho rovinato me stessa. Davvero niente di questo si può recuperare?
Non resisto più. Se Henry non si fa sentire, lo chiamerò io.
Compongo il numero. Squilla. Squilla a lungo. Poi, la sua voce.
«Ehi.»
«Ciao, Henry. Stai bene?»
Dall'altra parte, Henry resta in silenzio per un po'. «Sì» risponde poi, per nulla convinto.
«Non sembrerebbe, dal tuo tono.»
«Non importa. Tu come stai?»
«Strana. Ma sono lucida.»
«Capisco.»
Henry va avanti a monosillabi, oggi. Ce l'ha ancora con me. Forse non gli passerà mai, forse non mi parlerà più. Al solo pensiero mi si ferma il cuore.
«C'è qualcosa che vuoi dirmi?» gli chiedo.
«No.»
«Ne sei sicuro?»
«No.»
Sbuffo d'impazienza. «Sai che dovrai parlare, prima o poi.»
Henry sospira. «Sì, dovrò farlo. Ma non per telefono.»
«Allora vediamoci.»
«Quando?»
«Adesso. Posso uscire anche adesso, se vuoi.»
Lui esita un istante. «Fallo, allora.»
Spazio autrice
Un capitolo piccino piccino, ma doloroso 😣
Siamo alla resa dei conti, Christine! Vedi di non combinare altri guai! 😅
Ci siamo quasi, ormai! Meno tre capitoli alla fine di questa storia 😉
In fin dei conti sono felice di essermi buttata in questa avventura lontanissima dalla mia comfort zone; spero solo di non aver combinato un disastro irreparabile, e di non aver perso la vostra fiducia come autrice di dark fantasy/distopici in cui si muore male 😅
Voi? Avete mai scritto qualcosa di molto diverso dai vostri gusti? Come ve la siete cavata?
Sono curiosa!
A prestissimo,
M.J.L. ❤️
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