7. Cachette
IT: nascondiglio
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21 aprile 2023
Monaco-Ville, Principato di Monaco
Isaac combatteva la sfida per mezzo del sarcasmo.
Canzonava me e il luogo in cui vivevo, derideva le mie affermazioni e le mie abitudini. Era snervante, ma comprendevo la sua strategia: puntava ad ammorbidire la mia testardaggine con la simpatia, senza sapere che io non avrei mai ceduto per le sue battute, i suoi sorrisi o i suoi occhi azzurri.
Da quando aveva messo piede nel Principato, si era divertito a costruire castelli di ironia e illusione.
Munita di quella ferma convinzione, mi addentrai nell'attico nel momento in cui le porte dell'ascensore privato si spalancarono sul salone. Nel silenzio tombale, nell'aria non aleggiava un singolo granello di polvere; il parquet era tirato a lucido e il mobilio moderno era rivestito dai raggi dorati che penetravano dalle grandi vetrate.
Non si udiva suono alcuno. Dedussi, di conseguenza, che papà non ci fosse: spesso svolgeva delle commissioni tra le vie del Principato, oppure si dedicava al controllo delle strutture e dei suoi dipendenti. Lo faceva spesso, ed era il segreto dietro la nostra impeccabilità. Chiunque lavorasse per noi temeva il licenziamento da parte del capo, tanto da operare con minuziosa attenzione ai dettagli.
Mi beai della quiete e l'unico rumore che si diffuse nell'appartamento fu quello dei miei tacchi contro le assi lignee. Mossi una manciata di passi lenti in direzione della cucina che, annessa al salone, creava un open space accogliente e luminoso. I mobili lucidi circondavano un'isola centrale, la cui superficie marmorea catturò subito la mia attenzione. Sulle striature grigie, infatti, campeggiava un giornale aperto su cui mi fiondai.
Sapevo già cosa aspettarmi. Prima di addentrarmi tra le righe dell'articolo lasciato in bella vista, però, rigirai le pagine ruvide per dare un'occhiata alla prima e controllarne la data. Sbirciando lo spazio sopra la testata del Monaco-Matin, capii che era un quotidiano fresco di stampa, distribuito quella stessa mattina. Non mi persi in futili pensieri e tornai alla pagina che aspettava solo di essere letta da me.
Ogni due settimane, il fotografo del Jimmy'z guadagnava fior di quattrini dalla vendita delle fotografie ai giornalisti. Riflettendoci, tuttavia, sentii l'amarezza propagarsi sul fondo della lingua: potei immaginare le fandonie inventate, le verità celate in favore di uno scoop succoso che avesse intrattenuto i monegaschi.
I miei occhi caddero sul titolo, i caratteri grandi stampati in grassetto quasi mi accecarono. "Nuova presenza scomoda all'orizzonte per Desirée Aubert?", recitava.
Capii subito qual era l'intento di quello scarso paio di righe impresse nero su bianco.
Erano due immagini a decorare la pagina. La prima ritraeva il bacio intenso scambiato con Valentin dinanzi agli invitati, che dietro i sorrisi nascondeva uno dei tanti litigi avuti; la seconda, invece, era scattata da lontano. A essere immortalati, io, Isaac e la nostra conversazione intrattenuta al bancone della zona bar. Uno scatto che mi rappresentava mentre mi trovavo in balia dei suoi quesiti indagatori e del suo sospetto. Della sua accusa di eccessiva trasparenza.
Accanto alla fotografia in cui ero stata catturata con il mio fidanzato, le poche righe non lasciavano dubbio alcuno sul fatto che la mia lastra di perfezione stesse perdurando agli occhi di tutti.
"La relazione tra la figlia dell'influente e facoltoso Jules Aubert, Desirée, e Valentin Lamothe, figlio dell'attuale proprietario del museo del Louvre di Parigi, sembra proseguire a gonfie vele. Un diamante brilla al dito della giovane, intenta a scambiare intense effusioni con il partner: che sia l'anticipazione di un imminente matrimonio? Una cosa è certa: le loro nozze sarebbero le più discusse del Principato, dopo quelle reali".
La pagina sottile vibrò a causa di uno sbuffo sonoro che mi scappò dalle labbra.
Era vero: l'intero Principato non aspettava altro che quel dannato matrimonio. Una cerimonia ripulente che avrebbe lavato via ogni macchia di sporco, ogni dubbio sulla veridicità del nostro rapporto. Per convincere i monegaschi di quella farsa, sarebbero bastati dei vestiti di alta fattura e un paio di sorrisi smaglianti. Niente di più facile, per noi.
La gravità stava nel fatto che quelle nozze erano desiderate affinché il mio nome si guadagnasse la fiducia delle persone. Vedermi accanto a un uomo poco prima di afferrare le redini della società più redditizia del territorio avrebbe tranquillizzato tutti perché, nell'imprenditoria, la figura di una donna indipendente era contemplata di rado.
Agli occhi altrui, Valentin non doveva essere il mio sostegno o il mio coniuge, ma una garanzia. Una sicurezza di cui il mio sesso non poteva ancora vantarsi.
Liberandomi di quei pensieri, mi concentrai sul testo giustapposto alla seconda immagine. Le lessi con rapidità, intenta ad accartocciare il giornale e farlo sparire.
"È, tuttavia, una seconda presenza a confonderci. Desirée, infatti, è stata fotografata in compagnia di un altro uomo.
Alcune voci di corridoio dicono che si tratti di un giovane imprenditore con cui sono in corso delle trattative. Forse, per Desirée, il prestigio del cognome potrebbe non essere abbastanza davanti al potere dell'ennesimo uomo d'affari".
Eccola, la canzonatura; eccolo, l'intento di sminuirmi nei confronti di chi indossava monotoni completi eleganti al posto di vestiti esagerati e appariscenti.
Per i giornalisti del Principato, la mia vita si divideva in due fazioni: la necessità di avere un uomo accanto per brillare e l'impossibilità di puntare in alto perché schiacciata dall'uomo stesso. Un circolo vizioso in cui, secondo la loro opinione non richiesta, turbinavo senza sosta.
Eppure, il modo per non cadere in nessuno dei due baratri era uno: continuare a fingere. Bastava un sorriso.
Un ghigno sincero, tuttavia, mi colorò il volto quando accartocciai le pagine ruvide del quotidiano. Gettai l'ammasso di lemmi falsi e amari nel cestino della spazzatura.
Non era sufficiente la penna dei giornalisti per affondarmi, e tantomeno lo sarebbe stata la cultura patriarcale di cui tanto millantavano.
Quell'azienda sarebbe stata mia, a costo di lottare con corpo e mente, a costo di camminare su un filo instabile disseminato di incertezze.
Mi lasciai la pesantezza della mattinata alle spalle, riprendendo a camminare in direzione del piano superiore. Nella mia mente concepii il piano di concedermi un bagno rilassante in piscina, sfruttando i raggi solari di una primavera troppo calda. Gradino dopo gradino, quindi, raggiunsi le camere da letto ed entrai nella mia.
L'enorme vetrata che sostituiva la parete di fondo affacciava sull'intero Principato. Palazzi alti ed eleganti fronteggiavano il mare cristallino increspato dalla leggera brezza, ma dall'alto sembrava una cittadina tranquilla. Non si udivano rombi di motori possenti, non si scorgevano i dettagli insiti nelle ricchezze altrui. Solo un agglomerato di residenze in un piccolo paradiso terrestre.
Mi chiusi la porta alle spalle e camminai verso una cassettiera, una delle poche che non occupava lo spazio delle cabine armadio. Tirai verso di me il primo cassetto, i miei occhi si bearono alla vista delle decine di costumi da bagno che conteneva. Passando al vaglio ogni colore e fantasia, optai per la sobrietà di un bikini blu navy, il cui logo dorato di Dior scintillò baciato dal sole. Serrato lo scomparto del mobile e abbandonati i tacchi accanto a quest'ultimo, indirizzai i miei passi allo specchio a figura intera che sorgeva in un angolo.
Studiai la mia figura esile a ogni capo di cui mi privai. Anche il corpo doveva essere oggetto di perfezione, mezzo di apparizione. La comparsa di un benché minimo difetto non era prevista.
Mi spogliai anche dell'intimo, che lasciò il posto al bikini. Lo infilai, gli orli bianchi che creavano un contrasto perfetto con la mia pelle ambrata, ma un problema fece capolino: a livello dei fianchi, gli slip scivolavano via. Sospirai, perché non mi sembrò possibile essere dimagrita per via della dieta a cui ero sottoposta dalla mia agente, ma arginai il pensiero e cercai una soluzione. Annodai i lati del costume e il cruccio scomparve.
A piedi nudi sul parquet liscio, raggiunsi un appendiabiti relegato in un angolo dell'ampia stanza. Prelevai un copricostume bianco, d'un tessuto semitrasparente, e lo indossai; con le maniche lunghe e il capo leggero che mi copriva fino alle caviglie, aperto sul davanti, mi recai all'esterno della stanza. Pochi minuti dopo, mi ritrovai a scendere le scale.
Il passo divenne felpato, vista l'assenza dei tacchi. Così percorsi l'interezza del salone abbracciata dal silenzio e feci scorrere l'immensa porta di vetro che divideva gli spazi interni dalla terrazza. L'acqua azzurra e limpida della piscina perfettamente pulita brillava, il sole illuminava le piastrelle azzurre del fondo, e io mi avvicinai con flemma.
Reclinai il capo, chiusi gli occhi e mi godetti il calore sul viso. Distendendo le braccia, lasciai che il copricostume cadesse alle mie spalle; la stoffa morbida mi scivolò sulla pelle già accalorata e si adagiò ai miei piedi, producendosi in un ammasso di pieghe. I raggi dorati, quindi, presero a carezzarmi l'intero corpo. Le onde di capelli castani mi sfioravano fino a metà schiena, in un piacevole solletico.
Un altro paio di passi mi servì per avvicinarmi alla scaletta che mi avrebbe condotto in piscina. Discesi i gradini con lentezza, entrando a contatto con l'acqua fredda che, tuttavia, fu un sollievo contro l'eccessivo tepore primaverile. Le ciocche scure iniziarono a galleggiare intorno a me e io, per abituarmi alla temperatura rigida, feci una prima nuotata. Le gocce cristalline si disseminarono sulla mia pelle, unite a una costellazione di leggeri brividi che mi accompagnarono fino a bordo piscina. Lì mi accomodai, con le braccia incrociate e il mento inchiodato su di esse.
La mia attenzione non impiegò troppo tempo a trovare una nuova fonte d'interesse. Marcel era a pochi metri da me, oltre la porta, intento a lucidare le grandi vetrate. Il suo sguardo, però, sfuggì alle mansioni domestiche per piombare su di me.
Fece scorrere la porta, il fruscio riecheggiò nella terrazza silenziosa. Fingendo di continuare a pulire con uno straccio tra le dita, mi lanciò l'ennesima occhiata. Il contorno era un amorevole sorriso che ricambiai.
«Mademoiselle, non credevo che fossi già tornata» commentò. Potei scorgere le sue pupille, che scivolarono fino ai miei seni umidi.
«Avevo in programma una visita al Country Club e alla città vecchia, niente di che». Feci spallucce. «Ma il nuovo arrivato è snervante» ammisi con un sorriso divertito dal mio spettegolare.
«Se ne andrà non appena capirà che combattere contro di te è impossibile» constatò. «Non può spegnere un animo bollente come il tuo».
Il suo riferimento al mio carattere ardente fece spuntare un ghigno sul mio volto. Brillò di malizia, davanti ai suoi occhi ora visibilmente languidi. Preso alla sprovvista, lasciò cadere lo straccio sulle mattonelle della terrazza e le scarpe della sua livrea elegante ticchettarono sul pavimento. Si avvicinò, ma non colmò l'intera distanza.
«Papà non è in casa, vero?» Fu una domanda retorica di cui conoscevo già la risposta. Posi il quesito al ragazzo solo per fargli comprendere le mie intenzioni, già palesate dalle mie azioni: con un gesto flemmatico, sfilai la prima spallina del reggiseno griffato e la lasciai cadere fino al gomito.
Un sorriso si ampliò sul viso di Marcel. Senza distogliere lo sguardo dai miei movimenti lenti e studiati, si privò della giacca che completava la livrea; il pezzo di stoffa da migliaia di euro si accasciò ai suoi piedi, lasciando che il sole insistesse sulla sua camicia bianca. «Aveva degli impegni da sbrigare», fu la sua risposta vaga.
Liberando i piccoli bottoni dalle asole, si spogliò anche della camicia. Disseminò l'uniforme a bordo piscina, capo dopo capo, come se non avesse avuto un valore complessivo immenso. La pelle diafana del suo fisico magro e asciutto fu abbracciata dal sole, lui rimase in intimo; con un paio di passi, mi raggiunse e si chinò dinanzi a me. A dividerci, qualche centimetro che lui colmò imprigionando il mio mento tra il pollice e l'indice. Mi reclinò il capo all'indietro, invitandomi a guardarlo e impedendomi di spogliarmi della parte superiore del bikini.
«Sei assurda, mademoiselle» sussurrò, il fiato caldo si infranse sulla mia bocca schiusa. Con il polpastrello, mi carezzò il labbro inferiore e un brivido serpeggiò lungo la mia schiena. «Non ti accontenti mai» constatò senza privarsi del ghigno. Una ciocca castana si ribellò all'immobilità del gel che rendeva la sua chioma stabile, cadendo su uno dei suoi occhi tendenti al grigio.
Socchiusi le palpebre per godermi il suo tepore ormai famigliare, ma il suo tocco scomparve. Mi accorsi del suo tuffo quando l'acqua della piscina perse la sua calma e lui riemerse dalla distesa cristallina.
Ben più alto di me, non gli occorreva alcuno sforzo per rimanere a galla. Camminava con i piedi ben saldi al fondo piastrellato, avvicinandosi a me. Sfruttò le dita per ravviarsi i capelli ora disordinati, ma abbassò la stessa mano per sfiorarmi il fianco nel momento in cui mi raggiunse. Torreggiò su di me, la sua finta innocenza si annullò, rimpiazzata da un baluginio di eccitazione che gli impreziosiva le iridi chiare.
Risalì il mio corpo con il polpastrello umido, sfiorandolo fino a profilare la curva dei seni sodi, per poi artigliare la seconda spallina del reggiseno. «Finiamo di toglierlo, che ne dici?» esalò, la voce bassa e roca, producendo un mormorio che mi fece tremare i timpani. Sentii divampare l'incendio della lussuria, una scintilla per ogni secondo che lui trascorreva privandomi del costume da bagno. Adagiò la parte superiore fuori dall'acqua.
La sua scalata della mia pelle ambrata non terminò. Conquistò un'altra parte del territorio, e infilò le sue dita tra i miei capelli, in una carezza sulla nuca. Strinse la ciocche in un pugno, costringendomi a guardarlo negli occhi.
«Mattinata pesante, Desi?» sussurrò.
A risalire, ora, anche le mie mani. Esplorai il suo corpo fino a godermi le sue spalle lisce, producendomi in un sorrisetto che gli scatenò l'erezione. I suoi boxer incontrarono il mio costume. «Non mi piace che il mio potere venga messo in dubbio» confessai con un filo di voce. Le nostre labbra si scambiavano carezze, bruciando per la necessità di incontrarsi.
Accadde all'improvviso. Marcel instaurò una connessione tra di noi, mise in scena una danza di lingue che si intrecciavano in uno spettacolo lussurioso. Ingabbiò il mio corpo minuto tra il suo e la parete della piscina, dura contro la schiena, e io sollevai le gambe per allacciarle al suo bacino. Il membro turgido spingeva contro la mia intimità che, per lui, vide l'esordio di un formicolio intenso.
«Se ti può consolare...» mormorò in preda al fiatone, le labbra gonfie e arrossate. «Non metterò mai in dubbio il potere che tu eserciti su di me». Fronte contro fronte, ogni suo respirò seminò brividi sulla mia pelle.
La minima distanza che intercorreva tra noi, tuttavia, aumentò quando la pressione sulla mia nuca cessò. Con una mano inchiodata al fianco destro e l'altra intenta a perlustrarmi, la sua attenzione scese fino all'unico elemento che ancora ostacolava il suo piacere: armeggiò con il fiocco sinistro che manteneva saldi gli slip, sciogliendolo. Quindi le sue dita tracciarono un percorso lento e ponderato, giocando con la mia sensibilità per mezzo di una carezza all'inguine. Un gemito scappò alla mia bocca schiusa.
«Oh, mademoiselle» mi apostrofò, munendosi di un ghigno canzonatorio. «Il silenzio non ti piace...» appurò.
Il viaggio dei suoi polpastrelli proseguì, trasportandomi in una dimensione di pura estasi. Marcel non amava perdersi in futili indugi, tanto quanto, al contrario, apprezzava il mio patimento. Giocò con la mia intimità fino a farmi perdere il senno, con un lieve ma sapiente tocco sul clitoride, esplorandomi fino alle labbra.
«Sarei grato se me lo dimostrassi» concluse.
L'insistenza delle sue dita non mi lasciò possibilità di risposta. Prese a stuzzicarmi, insinuandosi nei meandri della mia eccitazione, e ben presto non fu solo l'acqua della piscina a inumidirgli la mano. Con un ritmo celere scandito dai gemiti inevitabili, non impiegò un'eternità a portarmi al culmine. Il mio piacere si sciolse, bollente, sulla sua pelle perlacea.
«Dio, Marcel...» esalai. Percepii la tensione scemare, abbandonare i muscoli. Il benessere che mi provocò annientò ogni irritazione e pressione dovuta alla presenza dell'incomodo britannico.
Non replicò al mio sussurro, ma lo interruppe catturandomi le labbra nelle sue. Le baciò fino a consumarle, con insistenza e desiderio, senza smettere di carezzare le pieghe della mia intimità. Ansimavo, le lingue strette in un abbraccio e i rantoli periti in gola, tanto che i miei lamenti diventarono l'unico suono su cui era possibile concentrarsi.
«Desirée, sei a casa?» Il ronzio delle porte scorrevoli dell'ascensore seguì la voce di mio padre che, dal grande salone, mi cercò. Udii il tintinnio di un mazzo di chiavi adagiato in uno svuotatasche all'ingresso.
«Merda» imprecò Marcel, abbandonando la sua consueta finezza. «Il tempismo di tuo padre mi spaventa» commentò.
«Muoviti» gli consigliai, sorridendo per il diletto.
Facendo leva sui bicipiti, uscì dalla piscina senza passare dalla scaletta e recuperò i capi sparsi della livrea. Ebbe la velocità di una saetta, e corse in una delle cabine in legno installate sulla terrazza. Con altrettanta fretta, riallacciai entrambe le parti del bikini griffato per non destare sospetti, ma la comicità della situazione mi scaturì una risata che soppressi sul nascere.
Quel contesto, in realtà, avrebbe dovuto spaventarmi. Mio padre non avrebbe mai accettato la mia separazione da Valentin o l'idea di un tradimento, ancor peggio se intrattenevo i rapporti clandestini con il nostro domestico. Credeva che la mia relazione sarebbe durata in eterno e io, per non deluderlo, dovevo accontentarlo, dipingendo il mio fidanzato come un ragazzo modello, pressoché invidiabile.
Il rumore delle suole rigide contro il parquet seguì l'uomo finché non mi raggiunse sulla terrazza. Fasciato in uno dei suoi mille completi firmati, che differivano solo in colore e fattura, mi rivolse un sorriso raggiante e si godette il calore primaverile. Teneva una mano nella tasca del pantalone sartoriale, le dita dell'altra strette attorno a un bicchiere d'acqua e limone prelevato dalla cucina prima di recarsi all'esterno.
Non si era premurato nemmeno di privarsi degli occhiali da sole. Esibiva con orgoglio le lenti scure, sorseggiando la bibita fresca improvvisata.
«Ciao, ma belle» mi salutò con un sorriso. «Sei tornata presto?»
«Circa mezz'ora fa» lo informai. Mi schermai dal sole con una mano, inchiodando le pupille alla sua figura.
«Hai pranzato?» continuò.
Alla sua domanda, percepii una stretta famigliare allo stomaco. Dall'arrivo di Isaac, la pressione che tentavo di mascherare si era accumulata, sopprimendo la fame. In aggiunta a ciò, la dieta consigliata dalla mia agente per preservare la perfezione della mia immagine era rigida, e altrettanto lo erano gli orari suggeriti per i pasti: per consumare il pranzo, ormai, sarebbe stato troppo tardi.
«Sì» mentii per arginare le sue preoccupazioni. La nostra era una relazione affettiva, prima di essere lavorativa, e lui vantava un'alta soglia di attenzione nei confronti dei campanelli d'allarme. Decisi, di conseguenza, di mascherare il problema.
«Bene» annuì, confermandomi di aver bevuto la menzogna. Mi concesse uno sguardo da sotto le lenti scure. «Com'è andata la mattinata con il signor Woodward?»
«L'ho portato al Country Club e alla città vecchia per il cambio della guardia» spiegai. «Il club gli è piaciuto tantissimo, ha detto che una struttura così importante porterebbe un grande profitto alla Woodward Entertainments» gli riferii.
Smettendo di godersi la precoce temperatura estiva, si avvicinò a una delle sedie da esterno e prese posto dinanzi a un tavolino in vetro su cui appoggiò il bicchiere quasi vuoto. A proteggerlo dal sole caldo, un ampio ombrellone. Si sfilò gli occhiali, adagiandoli accanto alla bevanda, e intrecciò le dita all'altezza dello stomaco.
«Hai un paio di mesi per dissuaderlo, Desi» mi ricordò. Un'altra morsa di agitazione mi artigliò le viscere. «Mi raccomando» continuò. «La nostra è un'azienda invidiata da tutto il terziario, parlo a livello mondiale. So per certo che tu hai tutte le carte giuste per giocare d'astuzia e di intelligenza. Ti conosco, mi sbaglio di rado».
Anche la fiducia che provavo verso me stessa era pari alla sua, ma lo fu fino a quando scorsi i primi lati del carattere di Isaac. Era furbo, la laurea gli conferiva centinaia di conoscenze nell'ambito, e dai suoi discorsi traspariva una vena strategica che non passava inosservata. Ed era un uomo maturo, segnato dalla giovane paternità.
Spero di non deluderti, papà.
Alla paura, tuttavia, si giustapponeva un sentimento ben più dirompente. Io amavo alla follia l'idea di muovermi liberamente in un mondo i cui poli erano ricchezza e potere, e le scintille del mio desiderio non sarebbero state spente dalla presunzione di uno sconosciuto inglese.
Deconcentrato da un aereo in volo verso Nizza, mio padre si distrasse e Marcel riuscì a uscire dalla cabina in cui si era rifugiato senza farsi scoprire. Finse di essere impegnato in un giro di controllo delle condizioni della casa, con la livrea perfettamente indossata e i capelli ordinati, le mani strette dietro la schiena.
«Buon pomeriggio, monsieur» salutò l'uomo con cortesia. Mio padre ricambiò con un sorriso abbozzato. Adocchiando il bicchiere quasi vuoto, poi, lo afferrò con l'intenzione di portarlo in cucina e lavarlo. «La casa è un gioiellino» dichiarò, «ma resto a vostra disposizione per qualsiasi necessità».
«Grazie, Marcel» lo ringraziai io, guadagnandomi un'occhiata eloquente. Si dileguò quando gli rivolsi un ghigno, e sparì oltre l'immensa vetrata.
«Bene, Desirée» riprese mio padre. Accavallò le gambe con eleganza, ampliando le braccia sullo schienale della sedia. «Ripetimi le nostre due regole sul lavoro».
«Freddezza e compostezza». Sospirai, ma lui non mi sentì.
«Posso permettermi di aggiungerne una terza?» domandò, retorico.
Replicai con un cenno d'assenso. Allora lui prese a guardarmi con maggior serietà, i suoi occhi identici ai miei mi perforarono. Pretendeva la mancanza assoluta di difetti e problemi, da parte di coloro che lavoravano per lui. Da me, l'impeccabilità era addirittura imprescindibile.
«Nessun rapporto umano, con lui. Una relazione lavorativa è abbastanza». Lo sentenziò con durezza e contrasse la mascella. «Non lasciare che ti renda vulnerabile».
«Freddezza, compostezza e nessun rapporto» contai sulla punta delle dita. «Non dovrebbe essere difficile, considerando che a stento ci sopportiamo».
«Non ti smentisci mai, ma belle» arrise con fierezza.
Intuendo che la parte rilevante della conversazione fosse giunta al termine, mi spostai verso la scaletta della piscina e iniziai a salirne i gradini. Le goccioline d'acqua impattarono al suolo, e le disseminai fino al punto della terrazza in cui raccolsi il mio copricostume abbandonato sul pavimento.
«Hai degli impegni, ora?» mi chiese con curiosità.
Scossi il capo in un cenno di diniego. «Mi asciugherò e chiamerò mamma, non la sento da un po'» esplicai. «Poi farò una doccia».
«Va bene, Desi». Si alzò dalla sedia e ghermì gli occhiali da sole. «Se hai bisogno, sono nella sala riunioni a sistemare alcuni documenti».
Annuii e, quando lui infilò la porta-vetri, io camminai in direzione delle cabine per recuperare un asciugamano prima di recarmi all'interno. Aprendo una delle porte lignee, quindi, ne afferrai uno e lo strofinai sull'intera superficie della pelle. Una volta scacciate via le gocce d'acqua, indossai il copricostume e rientrai nel salone.
Tutto taceva. Mio padre si era trincerato entro le mura a lui famigliari della sala riunioni e Marcel, probabilmente, si stava riposando dopo l'atto nella stanza che gli avevamo offerto. Approfittai del silenzio e, con il passo felpato dovuto all'assenza dei tacchi, salii le scale verso il piano superiore. Dopo aver percorso i pochi metri del corridoio, raggiunsi la mia stanza.
Gettai un'occhiata all'ambiente. Avevo lasciato il cellulare sulla superficie superiore della cassettiera, prima di uscire in terrazza, elemento che calamitò il mio sguardo.
Come avevo riferito a mio padre poc'anzi, era da parecchio tempo che non mi concedevo di chiamare mia madre. Viveva a Méribel con il nuovo marito da qualche anno, a causa del divorzio con mio padre. I due si erano separati perché, visti gli impegni lavorativi onnipresenti, l'affetto e la conseguente connessione erano venuti a mancare. Un filo rosso spezzato che aveva portato mia madre lontana da me, con un secondo matrimonio e un piccolo fratellastro che, tuttavia, amavo. Quel bambino di quattro anni, dai riccioli adorabili e la dolcezza imparagonabile, si chiamava Léonard.
Approfittai della calma che regnava nell'appartamento per afferrare il cellulare e, finalmente, chiamarla. Non impiegai troppo tempo a selezionare il suo contatto e a perdermi nella decina di squilli che precedettero la sua voce calda, con l'attenzione incagliata nei palazzi del Principato oltre la grande vetrata.
Dopo una manciata di secondi, mia madre rispose.
«Desirée, amore» mi salutò, instillandomi una prima gocciolina d'affetto che allentò la morsa delle pressioni lavorative. «Che bello sentirti» commentò, e potei immaginare un sorriso ampliarsi sul suo volto di donna curata ed elegante.
«Ciao, mamma» replicai. Arrisi anch'io, contagiata dalla sua felicità. «Come stai?»
«Bene, tesoro» rispose. «Sono appena tornata dall'asilo con Léonard. È sempre più bravo» mi informò. Nella mia mente si figurò la sua commozione, nel rivivere le abitudini famigliari che aveva condiviso con me, tempo addietro. «Tu? Che mi racconti?»
Distratta, giocherellai con l'orlo della manica del copricostume. Mi rigirai un filo sfuggente tra le dita, continuando a vagliare i grattacieli del territorio circoscritto.
«Papà è sempre più esigente, sul lavoro» rivelai con un sospiro. «Essendo vicina alla conclusione dei primi studi, vuole che io sia pronta e sta facendo di tutto per mettermi alla prova» proseguii. Mi arresi con docilità al tono carezzevole di mia madre, tanto che confessare i motivi delle mie ansie riuscì a placarle, seppur in parte. «Ora mi ha incaricato di occuparmi di alcune trattative con un'azienda inglese. Ironia della sorte, devo discuterne con il figlio del capo». Mi scappò una risata amara, a immaginare me e Isaac nella stessa posizione, intrappolati in un ossimoro di libertà economiche e costrizioni morali.
Mia madre lasciò che un caduco silenzio intercorresse tra noi, per il tempo necessario a ragionare su una risposta.
«È l'uomo che è comparso sul giornale con te?» domandò, spontanea. Solo lei sapeva quanto quegli articoli poco veritieri mi infastidissero e, rendendosi conto dell'intromissione, si affrettò a mortificarsi. «Scusami, Desi, l'ho letto stamani ed ero curiosa. È chiaro che sia lui» asserì, dopo aver riflettuto.
«Non preoccuparti, mamma» la tranquillizzai. «È lui, ma non rappresenta una minaccia».
Pronunciare quella frase fu l'equivalente della formazione di un nodo all'altezza della gola, che ostacolò il respiro. Non ero convinta di avere ragione, vista la determinazione del britannico, e a convivere con l'incertezza era la paura di deludere mio padre. Forse lui avrebbe ceduto al perdono, ma io non ne sarei stata capace.
«Desirée» s'infiltrò la donna dall'altra parte della cornetta, ora più perentoria. Dal tono indurito, intuii che si fosse accorta della sfumatura cupa della mia affermazione. «Stai bene?» domandò, di conseguenza; le parole le scivolarono morbide sulle labbra.
Annuii con un suono gutturale, visto l'assente coraggio di proferire la conferma a voce. Ma la concentrazione venne a mancare e, invece di aggiungere informazioni convincenti alla risposta, tacqui.
«Non devi preoccuparti delle aspettative di papà» mormorò comprensiva, cogliendo il nucleo del problema. «Lo sai che è troppo rigido. Lo è da sempre» esplicò, sciorinando le caratteristiche di un uomo che aveva amato e rispettato finché l'ambizione di quest'ultimo non aveva superato le priorità umane. «Ma dietro quella facciata di serietà, nasconde un affetto per te che va oltre ogni confine» continuò. «Sei la sua bambina, Desi. Ti ha sempre trattata come la sua principessa» rammentò.
Ero consapevole che avesse ragione, che oltre quelle parole si nascondesse la verità di chi, per anni, aveva scorto le qualità positive di una personalità spigolosa. Non ebbi il tempo di replicare, però, perché lei riprese le fila del discorso consolante.
«Jules non ha a cuore solo il suo lavoro, ma anche te. Non ti punirà se sbaglierai, se fallirai o se commetterai un passo falso» affermò con sicurezza. «Forse non l'ha fatto in passato, ma ha imparato dai suoi errori. Anche se non stiamo più insieme, lo so e sono fiera di lui, come lo sarò di te anche se le cose cambiassero, hai capito?» insistette.
Tentai di archiviare ogni suo intento benevolo nella mente, di assicurarlo in una cassaforte di uno dei suoi angoli più remoti. Avrei fatto tesoro dei suoi lemmi, quando la sicurezza sarebbe stata rimpiazzata dal timore di non essere abbastanza.
Per tutta la vita ero stata su un intoccabile piedistallo di vetro. Fragile, benché stabile. Le minacce non erano contemplate, e io indossavo un mantello di perfezione e complimenti che credevo irremovibile. Isaac, però, era giunto come una tempesta che lacerava la stoffa e frantumava il cristallo.
In fondo, grazie alle parole di mia madre, capii di poter avere la forza di raccogliere ogni coccio, qualora la mia posizione di prestigio si fosse distrutta.
Notando un altro lungo silenzio, la donna ne approfittò per tergiversare. Optò per un argomento che credette più leggero, ma che scaturì un brivido nel momento in cui cominciò a discuterne.
«Con Valentin, invece? Va tutto bene?» chiese, felicitando il tono. «Ho visto anche lui, sul giornale. E ho notato un anello» curiosò, alla stregua di una ragazzina in vena di pettegolezzi.
Tentennai mentre, nella mia mente, si rincorrevano i vocaboli utili a creare una risposta che camuffasse la realtà. «Sì, va... va tutto bene» esalai, seppur esitante. «Quell'anello c'è già da un po', a dire la verità... È stato un suo regalo» spiegai.
«Devo prevedere delle nozze?» continuò, contenendo la gioia. Accecata da un'ipotetica cerimonia indimenticabile, quella volta non si accorse delle mie frasi sconnesse.
«Anche senza una proposta vera e propria, è ciò che dovrà accadere» sospirai sconfitta. A quel punto, dopo aver rivelato la presenza dei miei punti deboli, nascondere un'altra serie di problemi non avrebbe cambiato la situazione. «Non posso fingere di non saperlo già» aggiunsi.
Trovai la mia via di fuga in una ciocca di capelli che, per scongiurare lo stress, avvolsi al dito. Il mio sguardo si concentrò sulle increspature cristalline del mare limpido.
«Perché ne parli come se fosse una cosa negativa, Desi?» indagò, allora, realizzando la presenza dei campanelli d'allarme. «Sei sicura che sia tutto okay?»
«Sì, sì, è tutto apposto» mi affrettai a rispondere. «C'è solo stata qualche discussione, ma va tutto bene». Fu una confessione parziale, che avanzai con il mero intento di rassicurarla.
Se da me e Valentin ci si aspettava un matrimonio e un sigillo di garanzia posto sui documenti dell'azienda di papà, allora ci sarebbero stati. Non vi era spazio per i problemi relazionali.
«Sai che non sei costretta a stare con lui, se non sei felice, vero?» Mia madre si ammorbidì, di fronte alla manifestazione di questioni delicate, e riacquisì la serietà. «Quando il mio rapporto con papà si è incrinato, non ci ho pensato due volte a lasciarmelo alle spalle. Non volevo intossicarmi, e tantomeno dovresti farlo tu».
Le mani di papà, perlomeno, non miravano a ferirti, avrei voluto controbattere. Ti ha sempre accarezzata, anche quando il sentimento scarseggiava.
Mi rinchiusi tra le sbarre di una violenza taciuta e celata, la cui ammissione faceva tremare il cuore per le ipotetiche conseguenze.
«Sei una ragazza intelligente e forte, Desirée» proseguì mia madre. «E sei abbastanza indipendente da prendere le tue decisioni in autonomia, senza che sia un uomo a ostacolarti».
Aveva sempre avuto un carattere invidiabile, lei, e la paura non le aveva mai serpeggiato tra le viscere. Se la verità fosse saltata fuori, sarebbe stata l'ennesima persona delusa da me.
La regola primaria, quindi, rimase immutata: fingere.
«Sono sicura che siano problemi legati allo stress del lavoro, niente di più grave, mamma» le assicurai. «Siamo entrambi sopraffatti dagli impegni e dalle aspettative altrui, è normale avere questi... momenti».
Il mantello della falsità scaturiva quello specifico effetto: mi portava a giustificare Valentin, quando lo indossavo, nonostante i suoi sbagli.
Valentin, però, non era l'unica metà marcia della relazione. Anche le mie vie di fuga dai suoi errori erano scorrette, e a essere in torto, in quella relazione, eravamo in due.
A diversificarci, la consapevolezza che caratterizzava le mie azioni. Lui, del male che mi infondeva, non ne aveva idea.
Eravamo due mele andate a male che si spacciavano per un pomo dorato.
«Senti, Desirée, ora devo andare a preparare il pranzo per tuo fratello» mi informò mia madre, dopo non aver ottenuto alcun riscontro da parte mia. I pensieri mi avevano sopraffatta tanto da farmi obliare della telefonata in corso. «Se hai bisogno di qualcosa, sai che puoi chiamarmi, vero?»
«Certo, mamma, non preoccuparti» asserii. «Ma qui va tutto bene, quindi non rimuginarci troppo. Davvero» continuai, imperterrita, a tranquillizzarla.
«Mi fido» dichiarò. «Ci sentiamo non appena potremo, allora». Con un rumore di stoviglie in sottofondo, cominciò a congedarmi.
«Va bene» assentii. «Salutami Léonard» mi raccomandai.
«Lo farò» confermò. «A presto, piccola» mi salutò.
«A presto, mamma» replicai.
Un paio di squilli notificarono il termine della telefonata, che sfociò nel silenzio. Separai il cellulare dall'orecchio, senza distogliere lo sguardo da ciò che accadeva ai piedi del grattacielo.
Nella mia testa, formulai una promessa che sperai percorresse ogni strada fino a Méribel.
Andrà tutto bene, mamma.
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Nota dell'autrice
Ciao a tutti amici e buon sabato, come state? <3
Eccoci qui con il settimo capitolo, nonostante il mancato countdown su IG. Ma le promesse le mantengo, quindi l'aggiornamento non salta :)
Oggi, nonostante sia un capitolo di passaggio, ci ritroviamo davanti ad alcuni lati di Desirée che ci lasciano intravedere la sua vera personalità: da un lato abbiamo un'estrema fiducia in sé stessa, che la porta a sentirsi quasi indifferente o superiore a una cultura patriarcale che, purtroppo, è ancora molto diffusa. Lei si mostra lontana dagli stereotipi di una donna fragile e incompetente, nonostante le voci di corridoio si faranno molto più insistenti. Dall'altro lato, invece, troviamo un primo scorcio sulle sue vulnerabilità, circa le pressioni lavorative e la relazione un po' instabile con Valentin. Ciò che vi consiglio è di tenere bene a mente questi particolari, perché è proprio grazie a loro se la storia si evolverà e arriverà a intrecciarsi anche al personaggio di Isaac (che oggi è assente, ma nel prossimo capitolo ci divertiremo!)
Abbiamo visto anche una parte molto libertina di Desi, coinvolta in un tradimento nei confronti di Valentin. A questo punto vi chiedo: pensate che la sua scelta sia corretta?
Aspetto i vostri pareri riguardo questo aspetto e, ovviamente, riguardo il capitolo!
Nel frattempo, ci vediamo sabato prossimo. Preparate a calarvi in una serata di lusso e denaro, perché... ci aspetta una bella serata di gioco d'azzardo.
Vi aspetto! <3
IG e TikTok: zaystories_
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